Il controllo, per noi comuni mortali, per i poveri diavoli che ogni giorno percorrono la superficie curva della Terra in cerca di senso, è un'illusione. Di solito lo capiamo abbastanza presto, forse è addirittura scritto nel nostro codice genetico. Il che non rende più facile l'impatto con una verità semplice ma con estensioni che ci costringono a mettere in discussione il senso stesso della nostra ricerca di senso. Il principe Siddhartha, per come ci è stata tramandata la sua storia, è rimasto all'interno del proprio palazzo fino quasi a trent'anni, restando alla larga dai mali della vita. Quando è uscito la prima volta, però, scoprendo che nel mondo reale la gente si ammalava e moriva, Siddhartha ha abbandonato i propri averi e iniziato quel percorso ascetico che, dopo anni, lo portò all'illuminazione, trasformandolo in quello che noi chiamiamo il Buddha.
Il fascino che José Mourinho ha esercitato su di noi in questi anni, nel bene e nel male, derivava proprio dall'illusione che un essere umano potesse avere il controllo della situazione. Sul lungo periodo (quello della carriera), senza neanche provare ad essere perfetto (perché quella è un'illusione a cui mira un'altra categoria di allenatori, di cui fa parte Pep Guardiola) ma dimostrandosi, quando contava di più per lui, di essere sempre con una mossa di vantaggio rispetto agli altri. Controllando l'altezza dell'erba del Santiago Bernabeu per rallentare il gioco del Barcellona, spostando le attenzioni di tutti su di sé per proteggere la squadra: perché lui, solo contro tutti, era in grado di gestire la pressione meglio di quanto non lo facessero tutti contro di lui. Costringendo gli avversari a giocare a modo suo, sul suo terreno. Esaurendo, consumando, anche i suoi nemici, facendo impazzire Guardiola, causandone forse, almeno in parte, l'addio al Barcellona, portando uno degli allenatori più geniali della storia del calcio, nel momento di loro massima tensione e conflitto, a dire che Mourinho «sa come funziona il mondo meglio di chiunque altro».
Quel Mourinho che non era solo vincente, ma riusciva a vincere emozionandoci, convincendoci, anzi, che la parte emotiva fosse tanto importante quanto quella tattica. Che l'emozione facesse parte del gioco, dell'allenamento, che la strada per arrivare all'obiettivo era importante tanto quanto la vittoria finale. Quel Mourinho che fa piangere Materazzi, che fa dire a Ibrahimovic che sarebbe stato pronto ad uccidere per lui. Quel Mourinho che anche dove non è stato amato e ha trovato giocatori refrattari alla sua capacità persuasiva, è riuscito comunque a vincere (una Copa del Rey e una Liga con 100 punti), proprio contro quel Barcellona che forse era davvero la squadra più forte della storia, e che senza Mourinho non avrebbe avuto avversari alla sua altezza.
La cosa brutta di questa stagione, della seconda separazione consensuale nella storia tra José Mourinho e il Chelsea, non è stato assistere al “fallimento” sportivo, all'allenatore che ha portato la squadra campione in carica a un punto dalla zona retrocessione. Per chi non ha la memoria corta, il valore di José Mourinho, dei suoi successi, delle sue idee e dei suoi metodi, non dovrebbe essere intaccato dal peggior risultato della sua carriera (determinato anche da cose che non conosciamo e non possiamo valutare).
La cosa brutta è stata vederlo perdere il controllo (non solo tatticamente), assistere al processo di erosione della terra intorno ai piedi di Mourinho, finché non è crollato anche l'ultimo pezzetto di terreno su cui Mourinho era rimasto in piedi con le spalle al muro, e l'illusione è finita del tutto. La sconfitta occasionale, anche importante, era compresa nella visione del mondo che ci vendeva Mourinho, ma non che il mondo stesso collassasse da un momento all'altro senza che lui potesse farci niente. Fino ad oggi, quando Mourinho se ne era dovuto andare, lo aveva fatto come Darth Veder sulla navetta di salvataggio (e se si considera il sistema di potere di Mourinho, i suoi rapporti con Mendes, davvero potrebbe essere il Darth Vader del calcio moderno), dando la sensazione che il club che stava abbandonando stesse per sparire nel nulla come la Morte Nera.
E se non era in controllo della situazione durante questi ultimi mesi, allora forse non lo è mai stato.
In che momento José Mourinho ha iniziato a sentire che le cose gli sfuggivano di mano? È stato quando, quasi due anni fa, con il Chelsea primo in classifica, Arsene Wenger ha detto che era spinto dalla “paura del fallimento”? Questo spiegherebbe la sua risposta sopra le righe, perché chiamare Wenger uno “specialista di fallimenti” era una forzatura che, per una volta, anziché svelare la debolezza di un suo avversario e indirizzarci contro tutta la tensione (come quando parlò della “ossessione per la Champions” del Barça) ci ha fatto pensare che Mourinho era stato ferito dove faceva male, che Wenger magari aveva colto nel segno.
Forse è stato proprio il fatto che, con questo Chelsea, Mourinho non poteva giocarsela interamente da "underdog", da sfavorito alla vigilia sempre e comunque. Che né in Premier League, né in Champions, la sorte gli ha messo davanti un Golia contro cui combattere, che stavolta Davide aveva qualcosa da perdere, e da dimostrare. In effetti, questo spiegherebbe anche perché Mourinho, alla fine dello scorso anno, non è sembrato godersi una vittoria in assenza di nemici (in senso anche letterale, considerata la stagione anomala delle principali rivali). Quando con aria malinconica, immediatamente dopo la vittoria decisiva contro il Crystal Palace, si è sentito in dovere di tirare in ballo Guardiola dicendo che magari lui, Mourinho, non è il migliore a scegliere le squadre, che magari la prossima volta avrebbe scelto una squadra che «anche un magazziniere sarebbe in grado di far vincere». E come ha scritto Jonathan Wilson, è stata una dichiarazione «strana, anche per gli standard di Mourinho».
O magari l'inizio della fine può essere considerato la sconfitta alla prima partita stagionale, contro l'Arsenal in Community Shield. Con Wenger che lo ha battuto difendendosi, minando le sicurezze di Mourinho: dimostrando, cioè, che se lui era stato capace di vincere difendendosi, Mourinho non era riuscito a non perdere attaccando. Subito dopo, alla prima partita di campionato, è arrivato il litigio con il first-team doctor Eva Carneiro. Quando lo staff medico (su segnalazione dell'arbitro) ha soccorso Hazard in un momento cruciale del pareggio con lo Swansea. Mourinho avrebbe preferito che il belga si fosse alzato e avesse camminato, e magari non aveva tutti i torti, Hazard non aveva niente di serio, ma non era così difficile capire le ragioni dello staff che, come detto dal capo della commissione medica della Fifa Michel D'Hooghe, stavano “solamente facendo il proprio lavoro”.
L'umiliazione pubblica e l'allontanamento (di Carneiro e del fisioterapista Jon Fearn) dalla panchina, seguito dalla causa legale e preceduto dal messaggio di ringraziamento di Carneiro ai numerosi fan che l'avevano sostenuta dopo la sceneggiata a bordo campo, hanno dato l'impressione che ci fosse qualcosa di più grande dietro. E se un medico, per quanto popolare, per Mourinho era diventato un problema da eliminare costi quel che costi, allora forse sì, la struttura psicologica ed emotiva aveva già cominciato a scricchiolare.
Ma Mourinho non ha preso bene neanche la prima sconfitta in campionato contro il Manchester City, negando che il risultato netto (0-3) corrispondesse al gioco espresso dalle due squadre. Sono seguite altre sconfitte sorprendenti e difficili da giustificare: in casa con il Crystal Palace, fuori con l'Everton, con il Porto in Champions; e in mezzo l'unica piccola soddisfazione di battere l'Arsenal ridotto in 9 uomini (e con Wenger che già un anno prima aveva perso ogni paura e rispetto per lui, mettendogli le mani addosso e infrangendo per primo la barriera invisibile del carisma di Mourinho). E quando il Southampton ha espugnato lo Stanford Bridge (1-3) a inizio ottobre, Mourinho non se l'è presa solo con arbitri e media («Gli arbitri hanno paura di prendere decisioni a favore del Chelsea») ma, sopratutto, ha puntato il dito contro i propri giocatori.
«La prima cosa negativa che accade, la mia squadra collassa... Se la società mi esonera, si priva del miglior allenatore che abbia mai avuto: il messaggio sarebbe ancora che l’allenatore è colpevole per i cattivi risultati... Perché quando subisci così tanti errori individuali per paura di giocare, (vuol dire che, ndr) ci sono tanti giocatori che stanno giocando male a livello individuale... Non posso venire qui e dire: È colpa tua, tua e tua. Non è il mio lavoro, ma penso che sia chiaro che veniamo puniti per i troppi errori individuali».
Poi, quando il Chelsea è stato eliminato dalla Capital One Cup contro lo Stoke (fine ottobre), se l'è presa con un giornalista. La risposta di Mourinho al reporter di BeIn che cercava di provocarlo, quel «Tu non fai parte di questo sport» reiterato oltre una misura ragionevole, è sembrata un colpo basso, e una contraddizione al messaggio che Mourinho stesso aveva dato in passato, e cioè che il rapporto con i media, anche se conflittuale, fosse una parte importante di questo sport.
Il dettaglio che getta una luce ancora più violacea su quell'intervista, è che a suo modo stava cercando di difendere i propri giocatori dalle allusioni del reporter di BeIn, ma tre giorni dopo (sconfitta in casa con il Liverpool di Klopp, 1-3) lo stesso Mourinho è sembrato contraddirsi: perché se da una parte si è rifiutato di rispondere a ogni domanda con il mantra: “Non ho niente da dire”; dall'altra ha fatto un'eccezione solo per complimentarsi con il pubblico dello Stanford Bridge, che nonostante tutto cantava ancora il suo nome, dicendo che i tifosi “non sono stupidi” (di passaggio, basta risalire di qualche mese con la memoria per ricordare Mourinho che si lamenta della freddezza del pubblico del Chelsea...). Anche se in modo passivo-aggressivo, a quel punto sembrava che Mourinho stesse chiedendo di essere lasciato in pace: che fosse rimasto davvero senza parole.
Ma se non era colpa sua, e i tifosi lo capivano, allora di chi era colpa?
In un pezzo di qualche giorno fa pubblicato da These Football Times, Tom Mason esponeva la tesi secondo cui il declino di Mourinho è stato causato dal fatto che questa stagione ha smesso di cercare nemici all'esterno, iniziando a trovarli all'interno. Non solo Carneiro, ma anche John Terry: scioccato dalla sostituzione a fine primo tempo della partita con il City, e che forse non garantiva a Mourinho la solidità che voleva né tatticamente, né nello spogliatoio. Ma persino Eden Hazard e Diego Costa, strappato all'Atletico Madrid come se si fosse trattato dell'ultimo tassello nel puzzle tattico di Mourinho, ma “fortunato” a non finire in panchina prima di quando ce lo ha messo poche settimane fa. Dopo l'addio, il direttore tecnico del Chelsea, Michael Emenalo, ha detto con la squadra c'era ormai un “disaccordo palpabile”. Ed è questo l'aspetto più triste della caduta di José Mourinho: la fine dell'illusione di Siddhartha che ha scoperto la solitudine. E nessun grande uomo, figuriamoci un allenatore di calcio, può diventare o restare grande da solo.
Mourinho aveva cominciato la stagione dicendo che Hazard «ha fatto meglio di Ronaldo, nonostante Ronaldo abbia fatto cose fantastiche... per me è da top 3, non top 10», e l'ha finita accusandolo di finti infortuni e mettendone in discussione il valore assoluto e in relazione ai compagni: «Abbiamo concetti diversi di numero 10, io e lui. Per me un numero 10 fa molte cose, con la palla e senza palla. Per me un numero 10 è un giocatore molto speciale nella mia squadra... Mi piace che un numero 10 segni goal, mi piace che entri in area e segni goal come quello fatto da Oscar contro il Maccabi Tel Aviv». Il repulisti di giovani non adatti al suo schema mentale (Romelu Lukaku, Kevin De Bruyne, per citarne due) è finito in un dividi et impera fin troppo palese, sfacciato.
Ed è stato triste sentire le parole di Mourinho dopo la sconfitta con il Leicester, sentirlo parlare di tradimento, vederlo con gli occhi rossi e le palpebre gonfie, la barba sfatta, passarsi la mano dietro al collo, stavolta cercando solidarietà nel reporter che aveva davanti, mentre difendeva il proprio lavoro dicendo di aver portato alcuni giocatori «a un livello troppo alto, che non è il loro». Non perché questa analisi fosse sbagliata, ma perché portare giocatori buoni a un livello ottimo, e giocatori ottimi a un livello eccellente, era proprio quello che rendeva José Mourinho speciale. E la difficoltà di cui parlava Mourinho da parte di alcuni giocatori di restare a quel livello, in realtà era la difficoltà di Mourinho stesso a mantenerceli.
Quest'ultima intervista post-partita mi ha ricordato l'ultima battuta che Shakespeare ha fatto pronunciare a Giulio Cesare prima di morire: «Io sono fermo come la stella del settentrione, che per la sua fissità non ha rivale nel firmamento. (...) Così nel nostro mondo brulicante d'uomini: gli uomini sono carne e sangue e intelletto. Pure nel branco, uno solo ne conosco, saldo e inespugnabile: e quell'uno sono io». E di fronte al vuoto lasciato da Mourinho, noi ci sentiamo come Antonio quando vede il corpo di Cesare appena assassinato da Bruto: «O Cesare potente! Giaci tu così in basso? Le tue conquiste, glorie, trionfi e trofei sono dunque ridotti in così poco spazio?».
O Mourinho potente... alla fine siamo solo uomini, che si ammalano, muoiono e a volte si ritrovano disoccupati.