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La carriera lunga e tormentata di Massimo Ambrosini
15 mag 2017
Un'intervista all'ultima bandiera di un Milan vincente.
(articolo)
31 min
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L'appuntamento con Massimo Ambrosini era alle 9.30 del mattino, ma alle 9 ci eravamo già stretti la mano. Quando sono arrivato aveva la Gazzetta dello Sport aperta sulla pagina del Milan. C'era un trafiletto che lo riguardava, stava leggendo come erano state riportate le sue parole del giorno prima: gli avevano chiesto cosa pensasse delle chance europee del Milan, del cinesi del Milan, del giovane portiere del Milan, degli altri giovani del Milan, delle polemiche per i suoi commenti Sky al gioco del Milan.

Nonostante da maggio 2013 non abbia più nulla a che fare con la sua ex società, Ambrosini è chiamato di continuo ad esprimersi su qualsiasi argomento riguardi il Milan, e se le sue parole escono dalla poetica fiabesca dei tifosi meno obiettivi, fanno molto discutere. Normale, se sei stato una bandiera.

Eppure, il titolo di bandiera ad Ambrosini viene riconosciuto meno universalmente che ad altri senatori dei suoi stessi cicli. Un deficit istituzionale che ha ragioni statistiche - per intere fasi di carriera, e in alcune grandi vittorie di squadra, c'era un qualche infortunio a tenerlo lontano dalla scena - e ragioni contingenti - era senatore in uno spogliatoio di senatori, molti dei quali ancora più iconografici. Ambrosini era lì da sempre, ma lo era anche un mostro sacro come Maldini. Ambrosini lo potevi amare per la generosità in campo, ma Gattuso era una divinità per gli amanti del genere. Ambrosini era un ottimo centrocampista centrale, ma Pirlo in quegli anni stava reinventando le regole stesse del ruolo.

Che ad Ambrosini siano toccati più oneri che onori dell'essere una bandiera, è un dato di fatto. Una diminutio che ha finito per sottostimare i suoi valori tecnici, prima, e il suo valore simbolico, dopo.

Da Pesaro a Cesena, in treno

Lo Stadio Olimpico Spyros Louis di Atene non è ad Atene. Si trova ad Amarousio, una cittadina inglobata nell'area metropolitana della capitale greca e che conta più o meno gli stessi abitanti di Pesaro. Sul prato dello Spyros Louis, la sera del 23 maggio 2007, i giocatori del Milan festeggiavano la vittoria della settima Champions League del club: due di loro indossavano magliette con messaggi religiosi. I belong to Jesus, la scelta evangelica di Kakà; from Christ the King to Athens, la dimostrazione d'appartenenza pesarese di Ambrosini.

«Da piccolo giocavo nell'Adriatico, una squadra della città. Ma la maggior parte del tempo la passavo al campetto del Cristo Re. Christ the King sulla maglietta di Atene era riferito a quello, al Cristo Re». Si tratta di una parrocchia del centro di Pesaro, quartiere mare. «Era a 200 metri da casa mia. In città è un posto sacro per il calcio di strada. Ci giocavano personaggi che poi diventavano leggende. Andavi lì a guardare i più grandi giocare e imparavi le prime regole di sopravvivenza».

L'iconicità del Cristo Re è sospesa a metà tra il calcio e il basket. La sua fama in città è così tangibile che nemmeno Hackett e Jones - nel 2012, da giocatori della Scavolini - hanno resistito al fascino di giocare sul suo cemento assieme ai ragazzi del quartiere. C'era anche Cinciarini, pesarese e quindi ospite di diritto. «Sì, ci ho giocato anche a basket. La storia di Ambrosini mancato cestista però è una favola. Ci hanno ricamato molto su i giornalisti. Per me la pallacanestro non è mai stata una reale alternativa al calcio». Nessun dubbio tra calcio e basket nemmeno per gli osservatori del Cesena che lo vedono in un torneo post-campionato con la maglia biancazzurra dell'Adriatico. Nel giugno del 1990, gli dicono che lo vorrebbero nei loro Esordienti.

Il regionale per Cesena partiva alle 13.24: fermava a Cattolica, Misano, Riccione e Rimini prima di portare Massimo a destinazione. «Me lo ricordo come fosse ieri. Il primo anno ero in terza media. Uscivo dieci minuti prima della campanella e fuori c'era mio padre. Io gli davo lo zaino, lui mi dava il borsone e il contenitore con la pasta. Mi incamminavo verso la stazione mangiando. Mai mangiato in scompartimento quell'anno, mi vergognavo troppo». Un pudore che non gli ha permesso, almeno all’inizio, di immaginarsi calciatore. «I primi tempi ero solo preoccupato di gestire la timidezza. Nuovo spogliatoio, nuova città, nuove persone. Nonostante il nonnismo del Cristo Re ero più bambino di molti miei coetanei. L'ambizione è arrivata dopo».

Ambrosini arriva in Romagna come attaccante, il ruolo che aveva nella sua prima squadra, l’Adriatico. «Il primo anno non ho praticamente mai giocato. Le altre punte erano più brave di me». Il bivio arriva a fine stagione, a Riccione, quando rimane fuori anche dalla finale di un torneo. «Avevo detto ai miei che volevo tornare nell'Adriatico e loro mi hanno fatto un discorso che mi era sembrato esistenziale. Massimo fai come vuoi ma secondo noi non si molla alla prima difficoltà. Prova anche l'anno prossimo. Se poi continui a non essere felice, allora lasci. Ci avevo pensato un po' e poi avevo deciso di ascoltarli». E dall'anno dopo è cambiato tutto.

Il merito dell'inversione di tendenza è soprattutto di Davide Ballardini, tecnico con una lunga esperienza di giovanili arrivato al Cesena dopo aver vinto uno scudetto Giovanissimi con il Bologna. «La società aveva deciso di metterlo a lavorare sull'annata '77, la mia, e di seguirla fino alla Primavera». Ballardini capisce che Massimo è fuori ruolo, inizia a provarlo un po' ovunque, fino a quando diventa chiaro che quella ex riserva dell'attacco può essere uno dei centrocampisti centrali italiani più interessanti della sua età.

Ambrosini segna il gol della bandiera nella anglo-cup con il Derby County finita 6-1. Una delle sue rare immagini in maglia bianconera.

Nella stagione 93/94, in una Primavera di sedicenni, inizia a portare il suo livello ben sopra a quello mediamente atteso per la categoria. La controprova arriva a febbraio del 1994, dagli studi di Teleromagna. «Tutti i lunedì sera facevano un programma sportivo che parlava solo del Cesena. Quella volta lo stavo guardando con mio padre. Me lo ricordo ancora, eravamo sul divano in salotto. A un certo punto chiedono ad un dirigente un nome da tenere d'occhio per il futuro e lui fa il mio. Era la prima volta che sentivo dire Ambrosini in tv. Mi si è gelato il sangue».

L'anno dopo è già tra i grandi. «Anche lì, ci vuole fortuna: il Cesena perde lo spareggio per la A col Padova e restando in B diventa molto più facile portare in prima squadra un giovane come me». In preparazione un paio di titolari di centrocampo si fermano, lui li sostituisce, gioca bene e non esce praticamente più dall'undici. A 17 anni, il suo campionato da titolare in una serie B molto competitiva - «c'era anche il Piacenza di De Vitis e Pippo, per dirne una» - ingolosisce più di una squadra di A.

La scena chiave è ancora attorno al divano del salotto di casa Ambrosini. Stavolta la tv è spenta e la famiglia sta ascoltando il suo procuratore. Sorseggia il caffè che la mamma di Massimo gli ha appena portato e li aggiorna sul futuro del ragazzo. «Era venuto a dirci che mi volevano Lazio e Fiorentina, ma che il Milan poteva chiudere tutto in poco tempo. Poi aveva guardato i miei. Iniziate ad abituarvi all'idea che l'anno prossimo non lo avrete più in casa con voi».

Romanzo di formazione

«Il primo giorno a Milanello sei a metà tra il sogno e la realtà»: a leggerle, parole del genere sembrano già sentite mille altre volte, ma ascoltate dalla voce di Massimo Ambrosini suonano più autentiche. Lui parla di uno straniamento che non passa nemmeno dopo i primi allenamenti: «Eh come si fa? A fianco di gente come quella mi sentivo ancora il ragazzino del Cristo Re. Per esempio Baresi. Sembrava circondato da un'aura di, non so, autorevolezza, rispetto, classe. Ero in soggezione».

Giocava e guardava come giocavano gli altri. «Gli acquisti principali di quella sessione erano stati Baggio e Weah, per farti capire. Nel mio ruolo c'erano Desailly e Albertini. Demetrio mi ha aiutato molto, era portato ad insegnare. Poi nel tempo abbiamo anche costruito un bellissimo rapporto, ma non subito. Appena arrivato io ero il ragazzino e loro i campioni, due mondi differenti».

«Il senso d'appartenenza al Milan lo crea anche Milanello. Non è una suggestione dire che la casetta gialla che vedi entrando, gli spogliatoi, i campi, i corridoi, rimandano alla memoria tutti quelli che sono passati di lì. C'è un alone di gloria».

Nei primi quattro mesi gioca una decina di partite tra campionato e Coppa Uefa. Non poche per un diciottenne arrivato dalla serie B in una squadra che viene da tre finali di Champions e due Scudetti negli ultimi tre anni. «Poi la prima volta che sono andato con la Primavera mi sono infortunato. Rottura del crociato e stagione finita».

Ricomincia ad allenarsi l'estate '96, con Tabarez, alla vigilia di un brutto campionato. La classifica finale inabisserà il Milan all'undicesimo posto, 6 punti sopra la retrocessione. «Era una squadra abituata a Capello. Passare da lui a Tabarez inconsciamente deve aver portato ad un rilassamento». A dicembre il ginocchio salta di nuovo e durante la sua assenza al posto di Tabarez torna Sacchi.

Gasperini recentemente ha detto che esistono allenatori che gestiscono e allenatori che allenano (il tecnico dell'Atalanta metteva sé stesso nel secondo gruppo). In questo senso, un allenatore come Sacchi , con delle idee tattiche poco malleabili, da assimilare con una pratica maniacale, non era il più adatto a traghettare, forse serviva un uomo di gestione? «Sono d'accordo. Aggiungi a questo il fatto che tornava in una realtà in cui aveva segnato una pagina del calcio moderno, e dunque sentiva una responsabilità doppia. Voleva far tornare una cosa che non c'era più. A metà stagione, in una situazione difficile, non puoi pensare di avere lo stesso approccio che puoi permetterti a luglio. E soprattutto non puoi chiedere a una persona quel che non è in grado di fare».

Il bilancio personale di Ambrosini alla fine di due mezze stagioni non era comunque negativo. «Nonostante i due pesanti infortuni, capivo che i mesi che ero riuscito a passare in gruppo mi avevano migliorato tanto». Massimo percepisce i suoi miglioramenti - «Di quel periodo ricordo la sensazione di aggiungere qualcosa ogni anno» - e sente che deve giocare per misurarli veramente. Per questo chiede di essere ceduto in prestito. «In realtà non l'ho chiesto direttamente. Diciamo che l'ho fatto capire. Volevo vedere a che punto ero». Quindi Vicenza, una provinciale in Europa. «Con l'arrivo di Maini al Milan si è aperto un canale tra le due società. Mi avevano parlato bene di Guidolin e avrebbero fatto la Coppa delle Coppe. Ne ho approfittato».

La “maledetta” semifinale di ritorno con il Chelsea. Sul gol del vantaggio del Vicenza, il giovane Ambrosini lascia saggiamente il tiro a Pasquale Luiso.

Un giovane che lascia una squadra di blasone per andare a farsi le famose ossa, si espone a mille variabili. Riuscirà a mettersi in luce o si impantanerà nel limbo di una infinita catena di prestiti? «Sono rari i giovani su cui puoi dire con ragionevole certezza che arriveranno. Io sono andato a Vicenza senza garanzie. Potevo tornare, come no. Dipendeva da me. Ma era esattamente quello che volevo in quel momento».

Vicenza si dimostra una pista di decollo perfetta. «La stagione ideale per crescere. Un intero campionato in A da titolare, una Coppa delle Coppe fino alla semifinale, la salvezza ottenuta nelle ultime giornate. Dieci mesi sempre sul pezzo». Esce anche un senso di rispettosa gratitudine per Guidolin: «Leale, bravo a responsabilizzare, con lui si cresce tatticamente e nella gestione dei momenti».

Il giocatore che torna da Vicenza è diverso «nella testa, soprattutto». L'ammirazione del ragazzino per i campioni che vedeva in tv ormai è un ricordo. Ora c'è la convinzione di potersela giocare con chiunque in rosa in quel primo anno di Zaccheroni al Milan. «C'era la voglia di azzerare tutto. Zaccheroni ha avuto carta bianca persino nella rinuncia al dogma della difesa a quattro. È stato coraggioso a imporre le sue idee e fortunato a trovare gente come Maldini, Costacurta, Albertini che hanno fatto capire al gruppo che andava seguito ad occhi chiusi».

Finirà con lo Scudetto più inaspettato dell'epopea berlusconiana, nonostante all'inizio le difficoltà fossero molte.

Il suo primo gol in serie A è decisivo per il suo primo scudetto. Lo fa con il piede debole in Milan Sampdoria 3-2, fondamentale per proseguire l'inseguimento alla Lazio, in quel momento ancora prima.

Il fascino di Ambrosini

In quella stagione ’98/’99 uno dei nodi difficili da sciogliere per Zaccheroni, che indirettamente finisce per bloccare Ambrosini, è Boban. «Nel 3-4-3 di Zaccheroni lui poteva giocare solo nei due a centrocampo. All'inizio era partito lui al fianco di Albertini, poi non aveva funzionato e avevo iniziato a giocare io». Ambrosini ha le spalle più larghe dopo Vicenza e non sente la pressione di giocare al posto di un senatore come Boban, scontento per forza di cose di restare fuori. «Premetto che Zvone non ha mai fatto nulla di scorretto o che potesse farmi sentire sotto pressione, assolutamente. Per lui non era stata una prima metà stagione facile. C'era tensione col Mister. Però se hai la parte sana dello spogliatoio che va da una parte, ogni potenziale problema viene disinnescato sul nascere».

A 21 anni, alla prima stagione da titolare del Milan, Ambrosini vince il suo primo scudetto. «La tensione me la sono sempre messa da solo», ricorda. «Certo, avevo maggiori sicurezze, voglio dire però che in tutta la carriera non ho mai raggiunto una vera serenità. Non c'è mai stato un momento in cui ho pensato di poter inserire il pilota automatico, capisci?». Per essere certo di far passare il concetto, mi fa un esempio. «Sapevo che il lancio non era uno dei miei fondamentali migliori. Nell'anno dello scudetto di Zaccheroni, entravo in campo promettendomi di provare almeno un paio di lanci nell'arco della partita».

L’ambizione di crescere sul piano della personalità, Ambrosini voleva sempre di più. «Per me quella è sempre stata la benzina. Poi ci sono anche i Pirlo che la vivono con una serenità disarmante. Se sei forte come lui te lo puoi permettere. Io no».

Avere consapevolezza dei propri limiti, soprattutto al confronto con i fenomeni come Pirlo; l'attenzione mai sul risultato acquisito e sempre sul difetto ancora da colmare: in questo sta il fascino di Ambrosini. Appassionarsi a questo tipo di giocatori è un fenomeno che potremmo battezzare Sindrome delle Nozze di Cana. Al Louvre, sulla parete opposta alla Gioconda è appeso il mastodontico Le Nozze di Cana. Chi si sofferma sul ritratto vinciano trascurando l'enorme opera del Veronese ha il comportamento sociale atteso e più affollato; chi invece dà le spalle alla Monna Lisa per ammirare i mille dettagli della scena in cui Gesù tramuta l'acqua in vino, fa una scelta meno comprensibile, poco convenzionale. Osservare quel che accade nello spazio tra le due opere aiuta a spiegare scelte come quella tra i Pirlo e gli Ambrosini, a capire chi si appassiona ai giocatori che devono faticare contro i propri limiti anziché ai fenomeni naturali a cui riesce l’impossibile.

Nei primi sette minuti, alcuni gol di Ambrosini tra il 98/99 e il 01/02, stagioni in cui, assieme a Gattuso e Shevchenko, era un giovane talmente decisivo e rappresentativo da essere già riconosciuto come senatore. A 4:10 c'è anche un suo splendido gol in un Milan - Fiorentina di Coppa Italia del gennaio 2001: controllo di petto e rovesciata. Un mese dopo si sarebbe rotto il crociato.

Spesso l'impronta di una carriera la decidono le sue stagioni centrali: quel momento nella vita di un calciatore che deciderà quale verbo associare per sempre al suo ricordo: rimanere,diventare, perdersi o affermarsi. Per Ambrosini la parte centrale della carriera coincide con il ciclo al Milan di Ancelotti e con una spropositata serie di infortuni. L'imprinting lo danno i primi 50 giorni di reggenza ancelottiana. L’ex tecnico della Juventus entra nello spogliatoio di Milanello il 6 novembre del 2001 e tra i giocatori che si stanno cambiano per il suo primo allenamento non c’è Ambrosini. Una serie di complicazioni dopo un infortunio al crociato lo stanno facendo guarire in undici mesi invece che in sei.

Torna a disposizione il 23 dicembre, per Milan-Verona, l'ultima partita di un anno solare passato quasi interamente da spettatore. Che per quella squadra fosse un giocatore fondamentale lo dimostra l'inizio del suo riscaldamento: alla prima corsetta, la temperatura dentro lo stadio sale. Poi lo speaker annuncia il suo ingresso in campo e S.Siro lo accoglie con un lungo applauso. Dopo 13 minuti, quando segna l'1 a 0, corre a sfogare la frustrazione sui cartelloni pubblicitari. «Voglio pensare fosse una ricompensa. Ci sono situazioni che dipendono dal caso e altre dalla determinazione. In particolare, contro il Verona ero incazzato come una bestia dopo tutti quei mesi fuori. La determinazione era anche più alta del solito».

Nonostante tutto sono tanti i momenti decisivi firmati anche Ambrosini, anche in quegli anni di poca titolarità.Come il gol di Inzaghi-Tomasson, nato da una sua sponda. Un tipico caso di “Ah ma dai, l'ha data Ambrosini quella palla?”

«Non tralasciando le difficoltà e le ansie»

Impossibile parlare di quegli anni senza toccare il tema infortuni. «Se te li racconto tutti stiamo qui delle ore». Più che un elenco esaustivo, però, mi interessa capire come fosse vivere quelle stagioni trafitte da fratture, stiramenti, riabilitazioni, passate a guardare gli altri giocare, a ricominciare, a spingere per guadagnare spazio e vedersi di nuovo fermati da un altro problema. «C'erano momenti in cui avevo bisogno di scappare, di stare lontano da Milanello. Mi è anche capitato di litigare con la società che non sempre voleva darmi il permesso. Tornavo a Pesaro, oppure andavo al caldo, l'importante era stare lontano. I compagni mi aiutavano molto, mi dicevano di star tranquillo, mi spingevano a superare le insicurezze che ogni infortunio ti butta addosso. Però soffrivo meno a non vederli allenarsi e preparare la partita successiva».

Ci perdiamo per qualche minuto dentro un discorso delicato. «Delicato perché facendolo si ha sempre il timore di sminuire il lavoro di medici e fisioterapisti. Non è così». Poi inizia a spiegarmi. «Io penso che la gestione di un infortunio sia una questione fisica e una questione mentale. Non esiste l'una senza l'altra. Per forza di cose quello che ti succede sul lavoro condiziona in parte la tua vita. A sua volta, quel che accade nel tuo privato rende più o meno facile risolvere quel che ti è successo sul lavoro». L'argomento è interessante, ma non voglio diventare invadente spingendolo a continuarlo. Provo a ravvivare il tema chiedendogli se la squadra avesse a disposizione uno psicologo: «No, ho fatto un mio percorso senza che il Milan c'entrasse nulla». Fa una pausa. «Diciamo che ho sentito la necessità di fare due chiacchiere per capire come gestire tutto, questo sì».

Poi dal 2006, come per magia, mai più un infortunio complicato. «Probabilmente ha coinciso con una serie di cose che sono riuscito a sistemare nella mia vita. Ovviamente, non solo quello. Infortunio dopo infortunio conosci sempre meglio il tuo corpo e cominci ad approcciare il problema fisico sempre più consapevolmente. Ci ho messo del tempo a trovare la chiave giusta».

La sua idea è che la cura vada tarata sul singolo ragazzo, senza seguire ad occhi chiusi protocolli standard. «Tra le molte altre cose, in carriera ho rotto il crociato in entrambe le ginocchia e un perone. I miei muscoli erano perennemente in equilibrio precario e dovevo trovare il modo per mantenerli sul filo. Come ci riesci se non lavori anche sulla mente?». Facile dargli ragione, altrettanto facile immaginare che nelle società non ci sia tempo di approfondire talmente tanto la psicologia di ogni infortunato. «Hai ragione. Anche se ammetto che non sono nemmeno così frequenti i casi disperati come il mio».

Intanto, sullo sfondo, c'è una squadra che - a volte con Ambrosini, e molte altre senza - conquista vittorie storiche e subisce sconfitte tremende. La Champions League del 2003 e l'unico Scudetto di Ancelotti al Milan, a fianco dei drammi sportivi di La Coruña e Istanbul.

Ancora una squadra olandese, ancora decisivo, ancora un attimo prima che tutto fosse perduto. La sintesi di due suoi fondamentali: tempo d'inserimento e colpo di testa.

«Mi ricordo il giorno dopo Istanbul, a Milanello, a preparare l'ultima di campionato. Io che non avevo giocato avevo accumulato rabbia e l'avrei voluta rigiocare subito. Chi invece era sceso in campo mi diceva di no, che era giusto staccare la spina per un po'». Come ci si ritrova dopo un trauma come quello? Cosa ci si dice? «Non ricordo nessun discorso particolare. Di sicuro Istanbul non era diventato un tabù dentro al gruppo. Magari in cuor suo qualcuno aveva fatto altri pensieri, ma nello spogliatoio non è uscito nulla. Eravamo lì, come c'eravamo sempre stati».

Il regno di Ancelotti al Milan girava attorno ad un trio di centrocampo: Gattuso-Pirlo-Seedorf, praticamente una filastrocca. E Ambrosini? «Io arrivavo dopo. Era così». Da come Ambrosini parla del suo essere il sesto uomo di quel Milan trapela una profonda stima per i tre titolari, ma anche la grande fatica a star fuori: «Ho sofferto. Ho sofferto molto. Ci sono stati dei momenti in cui mi accorgevo di non essere nemmeno in grado di sopportare del tutto quella situazione. Un paio di volte mi sono scontrato con Ancelotti».

Il gol di Lazio - Milan 0-1, decisivo per lo scudetto 2004, in un periodo in cui giocava poco. Sembra pensare a come sfogare la rabbia, poi cede all'autocontrollo. Rimane a guardare l'esultanza della curva, serio.

Era stato un giocatore importante in stagioni meno nobili e ora che la squadra aveva tutte altre prospettive, sul più bello, non era più titolare. Ricordo diverse esultanze rabbiose, per esempio in Lazio - Milan. «Uscivano dopo essermi tenuto dentro tante cose. Compresi i sospetti di non essere più all'altezza».

Magari viene anche la voglia di cambiare aria. Per dimostrare qualcosa, per cercare nuove conferme. «Il pensiero di cambiare squadra c'è stato, ma non l'ho mai esplorato concretamente. Ne avevo parlato con il mio procuratore. Io gli chiedevo delle alternative per ponderare pro e contro, e lui mi diceva che non funzionava così. Nessuno si sarebbe fatto avanti se non fossi prima uscito allo scoperto facendo intendere che ero pronto a lasciare il Milan. Ma quella è una cosa che non ho mai avuto la forza di dire». Poi i bassi se ne andavano e tornavano gli alti. «Nessuno mi ha obbligato a rimanere. Alla fine mi è sempre sembrata l'unica scelta possibile».

Prendersi la rivincita

È arrivato il momento, finalmente, di affrontare gli anni della sua ritrovata continuità di presenze e delle sue prime grandi vittorie da titolare. Come Atene. «Nel 2007 eravamo una squadra consapevole di essere forte e consapevole di non essere la più forte».

Una Champions League vinta con la superiorità dei nervi, e della ragione, più che con quella della tecnica. «Come al ritorno col Bayern. Ricordo che nei primi 20 minuti ci avevano preso a pallate. Se sei bravo nella gestione dei momenti, hai la maturità per soffrire in certe fasi e per andare a colpire in altre». La partita finisce 0-2. Nella semifinale di ritorno - in casa con lo United, probabilmente la miglior partita di tutti i sette anni di Ancelotti al Milan - indovinate chi fa l'assist per il 3-0 di Gilardino che chiude la partita.

Altro caso di “Ah ma dai, l'ha data Ambrosini quella palla?”. Visione e tempo dentro questo assist, in una semifinale di ritorno di Champions League, dimostrano che era riduttivo definirlo solo un centrocampista di corsa e contrasto.

Della finale di Atene, che poi in realtà era Amarousio, sapete già. Il successo vale ovviamente la partecipazione alla Supercoppa Europea. Nella notte in cui il Milan affronta il Siviglia portando sulle maglie il nome di Antonio Puerta, il giovane laterale sevillano tragicamente scomparso solo tre giorni prima dentro il Sánchez-Pizjuán, Ambrosini - grazie all’assenza di Maldini - alza il primo trofeo da capitano del Milan.

C'è uno striscione ingombrante tra le cose per cui Massimo viene ricordato. Lo aveva raccolto da un tifoso durante la festa di piazza per la Champions League del 2007. Sopra c'era una scritta anti-inter. Il web è ricco di foto di lui che alza il due aste contro lo scudetto nerazzurro. Non gli ho chiesto nulla a riguardo perché ha ammesso molte volte di aver sbagliato in quell’occasione, e mi sembrava inutile farmelo ripetere.

Avrei voluto accennarvi di sfuggita, però, citando anche altri casi analoghi. Eto'o che intona Madrid cabron saluda el campeon e i numerosi sfoggi anti-madridisti di Piqué. O, per restare al Milan, Gattuso che guida il coro della curva contro Leonardo la sera dello scudetto 2011, di fronte al settore ospiti dell'Olimpico. Ma il punto non è cercare alibi citando altri esempi. In questo aneddoto si può riconoscere il senso di appartenenza di Ambrosini, vissuto istintivamente, senza risparmiarsi: si sentiva un pezzo di Milan e dunque anche di quella piazza, a cui ha sempre dato quel che aveva da dare, errori compresi.

Non gli avevo chiesto niente al riguardo ma quando gli ho girato il testo per fargli verificare la correttezza delle dichiarazioni riportate, lui mi ha scritto a proposito di questo paragrafo: Prendere lo striscione era stata un'enorme caduta di stile. Mi sono immediatamente accusato di ogni responsabilità e ho affrontato le conseguenze. So bene di aver guastato parte della mia reputazione in quel momento.

Portare la fascia

Due anni dopo la Supercoppa di Montecarlo, il giorno in cui Maldini lascia definitivamente, arriva l'investitura ufficiale a capitano. «Ereditare la fascia è stato difficile. Venivo dopo Paolo e Franco, inevitabile avvertire un certo complesso di inferiorità». Il parallelo con due icone sacre accentua il suo non esserlo: loro erano circondati da una sorta d'infallibilità riconosciutagli al di là delle partigianerie, lui no. Dopo i capitani divini, un capitano umano.

Che della successione ne abbia mai parlato con Maldini stesso? «Avrei voluto, ma poi alla fine non l'ho fatto. Non sapevo di preciso cosa chiedergli, né cosa lui avrebbe potuto dirmi». Poi aggiunge che al di là dei consigli, sei tu che devi entrare nel ruolo come puoi. Mettendoci quello che hai dentro.

Il pomeriggio in cui Maldini gioca l'ultima partita casalinga della sua carriera. Il passaggio di consegne.

L'ultimo pomeriggio di maggio del 2009, a Firenze, finiscono il Milan di Ancelotti, il Milan di Maldini e il Milan di Kakà. Tutti insieme. «La prima cosa che mi viene in mente di quel giorno sono le lacrime nello spogliatoio».

I tre addii sono molto diversi. Di Maldini si sapeva da mesi e aveva salutato S.Siro la domenica prima (con quell'incomprensibile profanazione dal secondo anello blu). Di Ancelotti non c'era ancora la certezza. «Ce lo ha annunciato Galliani in quel momento di abbracci alla fine della partita con la Fiorentina. Ragazzi, Carlo ci saluta. L'anno prossimo l'allenatore sarà Leo e indica Leonardo che era lì come dirigente».

Parte della malinconia veniva dalla certezza di aver vinto troppo poco con quell'allenatore. «Non è possibile che quella squadra non abbia vinto 7 scudetti consecutivi. In alcune situazioni ci è mancata la giusta cattiveria. E poi la Champions appaga, inutile negarlo. Nei sei anni senza scudetto siamo arrivati tre volte in finale e una in semifinale. Non siamo stati abbastanza bravi a capire il valore dell'opportunità che avevamo di vincere molto di più». Aggiunge: «Non ci sono spiegazioni razionali per tutto».

La tristezza dello spogliatoio di Firenze, non era ancora, invece, per la partenza di Kakà. Del suo addio c'erano solo voci. Con la sua partenza è diventato chiaro il cambio di mentalità societaria, che nel Milan non c'erano più incedibili, nemmeno Kakà. «Abbiamo cominciato a capire che le esigenze economiche non erano più quelle di prima. Ha iniziato ad emergere un'incapacità a programmare, a rinnovarsi seguendo una strategia». Faccio l'avvocato del diavolo, in tutti i sensi, e gli chiedo come si giustifichino allora tutti i precedenti anni di successi sotto la guida della stessa dirigenza. «Prima era fin troppo facile. Avevi la forza economica e il blasone per arrivare a chiunque e chiunque voleva venire al Milan. Nel momento in cui i valori si sono livellati, sono venute a galla le carenze».

Carenze nella visione sul lungo periodo, appunto. «Si sapeva che alcuni erano agli ultimi anni della carriera, si sapeva che qualcuno non avrebbe rinnovato, si sapeva che qualcuno sarebbe stato ceduto. Eppure non si è agito per tempo. Sono state sottovalutate le conseguenze». Mancanza di risorse? «Certo, ma anche di idee. Con buone idee puoi sopperire a una minor forza economica». E però non è detto che basti inserire qualche giovane perché i vecchi gli tramandino la capacità di ottenere risultati di livello. «Non è scontato, sono d'accordo. Ma non provarci nemmeno a strutturare un ricambio generazionale è un grosso errore. Intendo con una vera rete di scouting, andando in giro a vedere giocatori». Altri l'hanno fatto meglio? «Sì. Di più e meglio».

A Firenze comincia a finire il concetto di “Milan berlusconiano” e Ambrosini riceve una pesante eredità.

Il progressivo ridimensionamento del Milan si scontrava con i proclami mediatici: proprietà e dirigenza proseguivano a fissare obiettivi in quel momento fuori portata. «La sensazione era che la società non si rendesse conto che chiedeva pubblicamente alla squadra cose che erano molto più difficili da raggiungere rispetto a prima». Una condizione di cui si discuteva anche dentro lo spogliatoio. «Ci dicevamo che ci stavano caricando di aspettative difficili da mantenere. La società aveva tutto il diritto di compiere scelte differenti dal passato, a patto però di essere chiari con l’esterno. Forse ci credevano più forti di quel che eravamo o forse volevano nascondersi dietro un dito».

Lo scudetto con Allegri è stato l'ultimo colpo di coda di una storia in realtà già conclusa. Era l'illusione di poter costruire qualcosa su fondamenta che solo dodici mesi dopo sarebbero state divelte.

Restare solo

Se portare la fascia dopo Maldini e Baresi non sarebbe comunque stato semplice, le difficoltà più grandi erano legate al periodo complicato che stava per affrontare il Milan. «Dal 2009 in poi, e in particolare dal 2012, per il capitano del Milan c'è stato molto più lavoro che non nei venticinque anni precedenti».

Dal 2012 in poi significa da dopo Milan-Novara, il pomeriggio in cui viene strappato un tessuto tecnico e umano senza preoccuparsi che qualcuno abbia abbastanza stoffa per ricucire l'enorme buco rimasto. Basta Gattuso, basta Nesta, basta Seedorf, basta Inzaghi. Pure l'esperienza di Van Bommel e Zambrotta viene strappata. Pure la qualità decisiva di Thiago Silva e Ibrahimovic. Come una placca tettonica che prende il largo amputando un continente. Da un giorno all'altro.

Un contesto, dice, a cui ha partecipato anche la decisione di Galliani per cui dei rinnovi si parla a giugno. «Una sospensione di giudizio che destabilizzava completamente la squadra. Alcuni non la sopportavano e avevano preferito essere padroni del proprio destino prendendo per primi la decisione di andare altrove. Sandro e Rino, per esempio». In quei mesi anche Ambrosini era in scadenza: gli avrebbero proposto il rinnovo? Gli avrebbero detto che non c'era più posto come a Inzaghi e Seedorf? Se ne parlava anche in famiglia. «Mia moglie mi diceva di non attendere passivamente permettendo che altri decidessero per me. Io però non ce l'ho fatta nemmeno allora a considerare di andarmene. Nemmeno di fronte alla prospettiva dei mille problemi delle stagione successiva. Ho sempre pensato che avrei voluto chiudere al Milan ed ero convinto di avere ancora da dare».

Alla fine il suo rinnovo viene ufficializzato. Massimo Ambrosini sarebbe stato l'ultimo a rimanere. C'erano Abbiati e Bonera con diversi anni di militanza, ma per molte ragioni il loro peso non poteva essere paragonabile al suo e a quello di chi se n'era andato. «Quando sono andati via mi sono sentito solo. Ho pensato “Adesso sì che sono veramente cazzi”».

La tensione al miglioramento che Ambrosini sentiva già ad inizio carriera, e il senso di responsabilità derivante dalla fascia di capitano, non gli hanno reso la vita facile. «Mi chiedevo di continuo cosa avrei potuto fare, cosa avrei potuto dire. L'ultima stagione è stata la più difficile da gestire».

Il punto più alto di quella stagione è l'inutile 2-0 casalingo al Barcellona. A 1:30, da un recupero palla di Ambrosini parte l'azione per il gol di Muntari che chiude la partita. Al ritorno vinceranno i blaugrana 4-0.

Poi, a giugno 2013, tocca anche a lui essere un esubero. «A quell'età non mi volevano più. Avevano tutto il diritto di pensarlo. Peccato per le modalità e le tempistiche. Una gestione sbagliata». Sarebbe stato meglio andarsene dopo Milan-Novara, assieme a tutti gli altri compagni di una vita? «Ci ho pensato. Mi sono risposto che sì, sarebbe stato meglio. Ma poi alla fine riconosco che se non l'ho fatto è perché non riuscivo a vedermi in nessun'altra squadra. Sentivo un senso d'appartenenza enorme. E poi andarsene dopo tutti gli altri sarebbe suonato troppo come un abbandono della nave. L'attaccamento ai colori comunque restava intatto, nonostante non ci fosse più nessuno dei miei compagni di sempre».

Non è mai riuscito a dire basta nemmeno nel 2013, quando era evidente che il Milan non era più il suo Milan. «Nemmeno allora ci sono riuscito. Sono arrivato a farmelo dire».

La melancolia dell'abbandono è amplificata dal come abbandona. Con un'espulsione nell'ultima partita, a Siena. Nessun ultimo giro di campo. Nessun occhio lucido davanti agli applausi del suo pubblico. Nessun saluto. Il simbolo del distacco con cui viene accantonato il capitano dell'ultimo scudetto milanista è la conferenza stampa finale a S.Siro. Massimo la apre con la voce rotta dalla commozione e la chiude posando per qualche foto straniante appoggiato alla balaustra del primo anello rosso. Sembra già un ospite in casa d'altri. Non c'è nessuno della società. Lo stadio è completamente vuoto. Silenzio.

Parte così «Ho voluto prendermi due o tre giorni per smaltire forse un pochettino di amarezza che avevo»; conclude così «L'amarezza che provo in questo momento non può essere superiore alla felicità di chi si sente una persona fortunata».

Se Massimo Ambrosini non è mai stato uno pronto a cambiare squadra città vita a intervalli regolari, oltre che per il senso d'appartenenza al Milan, è stato per il suo carattere. «L'estate del 2013 sarei potuto andare in Premier, mi voleva il West Ham. C'erano anche un paio di squadra negli USA. Non le ho considerate, mi sembravano un salto enorme. Non ero abituato a cambiare e volevo farlo un passo alla volta. Prima un trasferimento in Italia, poi eventualmente l'anno dopo all'estero».

Così ecco la Fiorentina. «In quel momento era la squadra più interessante, subito dopo le grandi». L'estate in cui acquistano Ambrosini a parametro zero, il mercato dei viola tocca un vertice d'ambizione ben rappresentato dall’arrivo di Mario Gomez (direttamente dal triplete del Bayern di Heynckes) e dall’accoglienza a lui riservata dal tifo cittadino. La scelta di Ambrosini può essere vista come un passo avanti per lui, dato che approdava in una squadra allora un gradino superiore; la scelta della Fiorentina può essere letta come l'inserimento in rosa di un elemento abituato a ragionare per l'obiettivo più grande.

«I primi giorni scherzavo con Montella. Gli dicevo scusa ma io qui cosa c'entro? Il tasso tecnico era alto e non capivo perché mi avessero preso. Ma è come dici tu. Da me si aspettavano soprattutto che li aiutassi ad alzare il livello di carattere ed esperienza europea». Una stagione che gli ha dato soddisfazioni inaspettate. «Fin dal primo giorno notavo un rispetto particolare da parte dei compagni. Mi riconoscevano uno status di un certo tipo».

Che cambiamento e opportunità possano essere sinonimi è una scoperta raggiunta troppo tardi. Troppo tardi perché dopo l'anno a Firenze le proposte dall'estero non arrivano più. E non resta che smettere. «Non rinnego di essere rimasto al Milan fino all'ultimo. Però mi sono reso conto che se fossi andato via prima avrei aggiunto qualcosa in più a me calciatore e a me persona».

Ambrosini, oggi

Forse ricordiamo un Ambrosini parziale rispetto al giocatore che è stato veramente. Qualcuno lo etichetta come un giocatore di quantità, punto e basta. «Non ero Pirlo, ovvio. Però credo di essere sempre riuscito a giocare e a far giocare gli altri molto di più di un semplice recuperatore di palloni».

Per certi aspetti la completezza di Ambrosini sarebbe stata valorizzata maggiormente nel calcio venuto subito dopo di lui. «Di certo il calcio oggi ha molta meno staticità. I compiti sono meno rigidi di prima. Si chiede al giocatore un'interpretazione per ogni singola partita e spesso per ogni singola fase di una stessa partita. Devi rompere il gioco, giocare, proporti. Servono molte conoscenza per farlo bene. In quel senso lì sì, se avessi 25 anni oggi mi sentirei di poter fare qualcosa di diverso».

Oggi la voce di Ambrosini, insieme a quella di Daniele Adani, è tra le più approfondite del commento tecnico di Sky. L’ultima generazione di allenatori è composta anche da giocatori a lui contemporanei, ma dice di non aver mai sentito la vocazione per allenare. Invece, fa un discorso differente per un possibile futuro da dirigente. «Ci sono delle competenze che credo di avere. Per esempio tecniche, per scegliere i giocatori, oppure gestionali, per affiancare un allenatore e una società nel rapporto con il gruppo. Potrei non scartare a priori una proposta ma ammetto che ora sto bene così. Ora posso fare cose che per anni non ho potuto fare. Stare qui a chiacchierare con te, o fare un weekend in montagna con mia moglie e i miei figli. Oggi mi costerebbe rinunciarci per rientrare nel calcio».

Ci alziamo dal tavolo. «Sono troppo sentimentale se ti dico che mi era davvero spiaciuto che non avessi avuto il tuo ultimo giro di campo a S.Siro?». Risponde: «Anche a me era rimasta qui. Per chiudere il cerchio ho voluto giocare ad ogni costo Milan-Fiorentina, a novembre del 2013. Stavo guarendo da uno stiramento e ho stretto i denti. Volevo prendere gli applausi di S.Siro un'ultima volta. Dopo mezzora mi sono arreso al dolore e ho chiesto il cambio. Un saluto veloce ma va bene così».

Esce dal campo, saluta tutti e scende negli spogliatoi. Gli suona il telefono quando ha ancora l'accappatoio. «Era un messaggio di mia madre, una che parla pochissimo. A ripensarci mi torna la pelle d’oca». Nel messaggio c'era scritto Qualunque cosa ti sia fatto, ne è valsa la pena.

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