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La conquista dell'erba per un italiano
15 lug 2025
La vittoria di Sinner rappresenta dimostra la rivoluzione culturale del tennis italiano.
(articolo)
8 min
(copertina)
Foto IMAGO / Paul Zimmer
(copertina) Foto IMAGO / Paul Zimmer
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Nel decennio che sta segnando una crisi che sembra irreversibile nel calcio, il nostro sport più popolare, lo sport italiano ha però conquistato, a soli quattro anni di distanza, il suo primo storico successo in due tra le competizioni più prestigiose al mondo. Marcell Jacobs ha vinto l’oro nei 100 metri alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, mentre Jannik Sinner nel 2025 è stato il primo tennista italiano a vincere il torneo di singolare a Wimbledon, arrivato alla sua 138esima edizione.

Se il trionfo di Jacobs sembrava in parte estemporaneo, pur all'interno di una fase generale di crescita dell’atletica italiana, la vittoria di Sinner a Wimbledon rappresenta il suggello finale di un percorso intrapreso molti anni fa dal tennis italiano. Avevamo provato a riassumere qui , nel 2019, i principali elementi di una nuova programmazione che ci portavano già allora a sostenere come la FIT (oggi FITP) avesse intrapreso una strada virtuosa, ribadendoli poi in occasione della Coppa Davis vinta nel 2023 non solo per merito di un singolo fuoriclasse – ovviamente Sinner – ma della solidità di un intero movimento. Sei anni dopo, quel percorso è definitivamente compiuto, nel momento in cui la bandiera italiana viene piantata nel territorio, quello del campo in erba di Wimbledon, che per ragioni tecniche e culturali è sempre stato il più ostico.

Ma per capire a fondo la reale portata di certi cambiamenti vale la pena fare un riassunto storico. Fino alla finale dello US Open 2015, il derby tra Roberta Vinci e Flavia Pennetta vinto da quest’ultima, nessun tennista italiano – né uomo, né donna – aveva mai partecipato all'atto conclusivo di uno Slam fuori dalla terra battuta. Il Roland Garros era stato vinto da Nicola Pietrangeli nel 1959 e nel 1960, da Adriano Panatta nel 1976 e da Francesca Schiavone nel 2010, e solo in quel palcoscenico gli italiani si erano spinti fino in fondo. Alla base di questa tendenza c’era, come in tutti i Paesi latini, una propensione nettamente maggiore a far crescere i propri allievi sulla terra battuta, con le conseguenze che ne derivavano.

I tennisti italiani sviluppavano soprattutto la regolarità e anche buone capacità di esecuzione della palla corta. La prima di queste due caratteristiche veniva completamente spazzata via nel passaggio dalla stagione su terra a quella su erba, storicamente traumatico per ogni nostro giocatore di spicco, se si escludono almeno in parte Daniele Bracciali e Andreas Seppi. Tutti i nostri migliori interpreti si trovavano all’improvviso, sul verde, senza armi. Non sapevano che farne della loro intelligenza e della loro pazienza, contro bombardieri e specialisti del serve and volley.

La crescita giovanile degli italiani sul rosso faceva nascere lacune sui colpi di inizio gioco e sulla rapidità di movimento dei piedi, e molto spesso l’eccessiva assuefazione alla terra induceva i nostri tennisti alla ricerca estrema della regolarità anche in battuta, a scapito della velocità: basterebbe ricordare la tendenza esasperata di Volandri e soprattutto di Starace nel cercare il kick insistentemente anche con la prima di servizio. Entrambi, pur con un best ranking da top 30, hanno lo stesso score di una vittoria e 9 sconfitte in carriera a Wimbledon.

Le fasi finali della sfida tra Starace e Djokovic nell’ormai lontano Wimbledon 2007.

Anche i profili più offensivi ed efficaci a rete, Adriano Panatta e Paolo Bertolucci su tutti, oltre a quelli dal talento più estemporaneo, come Paolo Canè prima e Fabio Fognini poi, hanno comunque ottenuto risultati migliori sul rosso. Neanche nelle loro rispettive epoche migliori bastava possedere un tennis aggressivo per stare al passo dei più forti sull’erba, ma era anzi necessario adattarsi, sentire e in qualche modo “possedere” il rimbalzo anomalo della palla, muoversi sul campo in modo diverso e per nulla abituale per i tennisti italiani.

Il quarto di finale raggiunto da Davide Sanguinetti nel 1998, accolto come un autentico miracolo, è stato l’unico a Wimbledon di un tennista azzurro dal 1980 al 2020: quattro interi decenni in cui il tennis mondiale è stato stravolto da cima a fondo e in cui gli italiani, nel torneo più prestigioso, non hanno lasciato segni. Per l’opinione pubblica italiana, vedere tutti gli azzurri uscire prematuramente a Wimbledon era considerato abbastanza normale, mentre oggi ci appare inaccettabile.

Per fare in modo che i giocatori italiani sradicassero certe consolidate abitudini, col tempo diventate sempre più anacronistiche, non era sufficiente modificare il processo di formazione dei giovani dal punto di vista logistico. Il lavoro da fare riguardava anche e soprattutto aspetti culturali del gioco, filosofie di pensiero: la ricerca del risultato immediato nei tornei giovanili, soprattutto su terra battuta, non doveva più essere una priorità nel momento in cui si notava sempre più spesso quanto sviluppare la potenza e l'aggressività dei fondamentali, sacrificando parte della regolarità del gioco in età in fasce, portasse a benefici molto più redditizi per i nostri tennisti a lungo termine su tutte le superfici.

Il trionfo di Sinner a Wimbledon è soltanto l’esempio più fulgido, la punta dell’iceberg di un cambiamento che ha permesso all'Italia di conquistare i campi veloci e ora finalmente anche l’erba, una superficie che solo fino a una ventina di anni fa consideravamo quasi sconosciuta, lontana dalla nostra concezione di tennis e per questo motivo perfino inadatta al gioco stesso. Dopo alcuni exploit di Andreas Seppi, apripista all’alba del decennio scorso, a Wimbledon negli ultimi anni sono invece arrivati, in ordine: i quarti di finale di Camila Giorgi nel 2018, la finale di Matteo Berrettini nel 2021, i quarti e la semifinale di Sinner nel 2022 e nel 2023, la finale di Jasmine Paolini e la semifinale di Lorenzo Musetti nel 2024. In mezzo anche due finali ATP giocate da Lorenzo Sonego – quella vinta ad Adalia nel 2019 e quella persa a Eastbourne nel 2021 – oltre ad altre cinque giocate da Berrettini e a una da Musetti al Queen’s, fino ad arrivare ai quarti raggiunti quest’anno a Wimbledon da Flavio Cobolli, che non ha sfigurato contro Djokovic.

Se le qualità di Sinner possono essere in qualche modo etichettate come personali, estemporanee nel momento in cui un singolo fenomeno può nascere ovunque - e lui stesso è cresciuto in modo piuttosto svincolato dalla FIT - ancora una volta l’altoatesino è però il caposquadra di una serie di profili che hanno imparato a trattare l'erba scrollandosi finalmente di dosso tutto quell’alone di diffidenza che il nostro tennis, dal punto di vista culturale, le aveva costruito intorno, vincendo una serie di resistenze nel pensiero dominante che caratterizzano anche molti altri settori del nostro Paese.

Se soprattutto in Gran Bretagna e Australia, in epoche passate, l’erba era il territorio principale di crescita – e poi di successo – dei giovani tennisti, la sua atipicità e la scomparsa del serve and volley la rendono oggi una superficie dove vince chi vi adatta meglio i propri fondamentali sviluppati principalmente per altri campi. Anche quello della duttilità diventa quindi un grande pregio della nuova scuola dei tennisti italiani, molti dei quali cresciuti prevalentemente sulla terra eppure diventati perfino più pericolosi su erba – Berrettini e forse oggi anche Sonego, ma anche Thomas Fabbiano qualche anno fa.

Il modo di impattare davanti la risposta e di muoversi scivolando così perfettamente sul prato, come mostrato da Cobolli, fino a qualche anno fa sarebbero stati una chimera per un tennista italiano nato sulla terra come lui. Forse anche le informazioni su come aggiustare alcuni piccoli ma imprescindibili dettagli, nel passaggio dalla stagione su terra a quella su erba, stanno circolando velocemente nell’ambiente degli azzurri, ma è in ogni caso innegabile quanto gli italiani riescano negli ultimi anni a trovare più velocemente le misure sui prati, forti anche di un bagaglio tecnico di base da juniores evidentemente ampliato rispetto al passato e che permette loro più versatilità dopo il salto nel professionismo.

L’adattamento della propria cultura di pensiero alla modernità, in senso più ampio, rappresenta la grande vittoria del nostro tennis ed è un fattore estremamente raro in un Paese che in tutto il suo tessuto socioculturale, anche in quello artistico, è spesso dominato e bloccato dal conservatorismo, dalla paura di osare e di andare fuori dall'ordinario e da da convinzioni obsolete. Non può essere un caso che il calcio italiano sia ancora in grado di produrre ottimi portieri e ottimi difensori ma nessun vero grande fuoriclasse offensivo e creativo, se la narrazione dominante è quella secondo cui l’Italia ha in qualche modo “il catenaccio nel proprio DNA”, come se l’attitudine alla speculazione appartenesse al corredo genetico di ogni persona che nasce nel nostro territorio e che decide di giocare a calcio.

Il tennis azzurro si è invece ribellato all’immobilismo, all'idea del “si è sempre fatto così”. Non si è rassegnato al proprio anacronismo, che lo avrebbe fatto sprofondare forse ancora più in basso di quando retrocesse in Serie C perdendo in Zimbabwe, accentuando la percezione che il livello di eccellenza sarebbe stato sempre più irraggiungibile. Ha compiuto un’evoluzione che negli ultimissimi anni è invece mancata ad altri Paesi latini e dalla simile cultura tennistica di base, come Spagna e Argentina, i quali – con le formidabili eccezioni di Alcaraz e qualche anno fa di Del Potro – faticano ora a costruire una generazione vincente e soprattutto dal continuo ricambio al vertice come quella azzurra, in grado di alternare nomi di spicco alle spalle di Sinner in base ai rispettivi stati di forma del momento.

La scuola tennistica italiana ha saputo mescolare la sua storica varietà tecnica e tattica, che oggi è infatti spesso stimolata dalla terra battuta, a una nuova cultura di pensiero in cui fare il punto stando incollati alla riga di fondo, con i piedi estremamente attivi e tirando una o due cannonate – un tempo considerata un’operazione quasi spregevole, all’americana – diventa una necessità irrinunciabile. Ha saputo accogliere la modernità con l’umiltà e la lungimiranza di chi capisce che abbandonare certe vecchie convinzioni non sia un atto di debolezza.

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