La Milano-Sanremo è la prima classica della stagione e per questo motivo la mattina della gara c’è sempre un'aria da primo giorno di scuola: c’è eccitazione per un nuovo inizio e curiosità per come andrà il nuovo anno. Prima dell’inizio si dibatteva sulla probabilità di un arrivo in volata, circolavano i nomi dei principali indiziati per uno scatto sul Poggio: Greg Van Avermaet, Michał Kwiatkowki (vincitore uscente), Peter Sagan, campione del mondo che a Sanremo la vittoria l'ha sempre e solo sfiorata. Ma non ci sono solo loro: alcuni tirano fuori i nomi di Greipel e Kittel, altri quelli del francese Démare (che ha vinto nel 2016), di Cavendish, Ewan e Matthews.
Sono 12 anni che non vince un italiano e ogni anno non sembra mai essere quello buono. I favoriti, in questo senso, erano Viviani e Trentin, mentre Nibali era più che altro una speranza.
Ogni nome sembra scavalcare il precedente perché la Milano-Sanremo tra le classiche è la più incerta. Incertezza ulteriormente aumentata dalla pioggia: a Milano piove, e quindi le possibilità di una volata sembrerebbero restringersi, ma a Sanremo splende il sole. 294 chilometri di dubbi e certezze che si alternano e si distruggono a vicenda lungo la scogliera al bordo dell'Aurelia.
Il percorso, come sempre, sembra voler dirimere la questione nei chilometri finali. Il Turchino (la prima salita, a circa 150 chilometri dal traguardo finale) passa senza far danni. I più anziani tra gli spettatori aspettano con ansia i tre capi (Mele, Cervo e Berta, a 38.4 chilometri dal traguardo) perché è lì che i grandi campioni del passato facevano la differenza, anche se oggi sono poco più di tre dossi, spianati dal gruppo senza problemi. È alla Cipressa (-28) che ormai si vede chi ha le gambe per arrivare fino alla fine.
Il volo di Nibali
Forse è proprio la natura della Milano-Sanremo a rendere la vittoria di Nibali meno sorprendente di quanto non sembri a un primo sguardo. Avendo perso, con l'età, quell'esplosività nello scatto secco su cui da giovane aveva potuto contare, Nibali infatti ha bisogno per vincere di corse lunghe e dure in cui far valere la sua resistenza fuori dal comune. Così una corsa di 294 chilometri che per tanti ciclisti è poco meno di un lungo calvario, per lui si trasforma in una marcia trionfale. E mentre i suoi avversari si spengono uno dopo l'altro, svuotati di gambe e di energie, lui tira dritto senza neanche guardarli.
Foto di Marco Bertorello / Getty Images
Il dottor Michele Ferrari, forse la figura più controversa dello sport internazionale ma comunque uno dei massimi esperti per quel che riguarda la preparazione atletica, dichiarò nel 2016 che secondo i suoi calcoli a livello di potenza lipidica Vincenzo Nibali è il migliore al mondo. E osservando le sue prestazioni di questi ultimi anni non fatichiamo a comprendere che aveva ragione.
Già pochi mesi fa al Lombardia, al termine della stagione e su un percorso poco più breve ma molto più duro, Nibali riuscì a imporsi in maniera simile, appoggiandosi allo scatto di un avversario e sorprendendo con forza tutti gli altri prima di tuffarsi da solo giù per la discesa. Allora era stato Thibaut Pinot il pesce-esca, oggi è toccato a Krists Neilands, lo sconosciuto campione nazionale di Lettonia che ha regalato a Nibali un insperato punto di lancio proprio a metà del Poggio.
«Ero partito per fare da stopper per Colbrelli», ha detto Nibali all'arrivo, rovinando in parte l'immagine di una tattica perfetta della Bahrein-Merida che aveva aspettato che Marcus Burghardt (su ordine di Sagan) distruggesse in poche centinaia di metri il trenino della FDJ di Démare per poi tirare il collo agli avversari con Matej Mohorič (un nome da tenere d’occhio per il futuro).
Da lì, lo scatto di Neilands, con Nibali che prontamente va a stopparlo. Dietro, Mohorič e Colbrelli si guardano e rallentano creando un primo buco. Le altre squadre sono sorprese e sbrindellate, provate dai 290 chilometri di gara e dalle pugnalate ai fianchi di Burghardt e Mohorič.
E mentre si contano i superstiti per riorganizzarsi, Nibali si volta, vede il buco e riparte da solo. Neilands arranca e cede, Spilak da dietro ci prova inutilmente, Matthews cerca di reagire. Poi arriva Daniel Oss a dare una mano a Sagan ma Nibali è già lontano e scollina dal Poggio con 11 secondi di vantaggio.
Da queste parti si insegna che dieci secondi bastano per arrivare al traguardo. Nibali, quindi, ne ha uno in più da gestire e, nonostante questo, si butta comunque giù in picchiata verso l'Aurelia. Trentin si avventura in un inseguimento solitario ma viene presto riacciuffato dal gruppo, che ora si fa sempre più imponente e minaccioso. In fondo alla discesa i secondi diventano sette, anche se sembrano di meno perché il gruppo è proprio lì dietro.
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«A molti corridori dopo i 250 chilometri si spegne la lampadina», disse Auro Bulbarelli durante la sua storica telecronaca del Mondiale di Varese 2008. A Nibali non si è spenta dopo 294 chilometri. Quel secondo in più che aveva messo da parte in cima al Poggio se lo prende tutto, alla fine, per godersi il trionfo. Sul podio è affiancato da Caleb Ewan e Arnaud Démare. Qualcuno, dal pubblico, grida “È per Michele!” (Scarponi, morto meno di un anno fa) mentre risuona l'Inno di Mameli.
"Nibali è fortunato"
Per Philippe Gilbert questa vittoria di Nibali è speciale, perché è l'unico al mondo in grado di vincere sia nei Grandi Giri che nelle Classiche. Effettivamente Nibali ha vinto tutto ciò che poteva vincere: due volte il Giro d'Italia, un Tour de France e una Vuelta, due Tirreno-Adriatico, e ancora due trionfi al Lombardia. E adesso questa, la Classicissima. Prima che arrivasse lui, il ristretto club dei vincitori della Tripla Corona (Giro-Tour-Vuelta) e di due diverse Classiche Monumento era composto solo da Felice Gimondi, Eddy Merckx e Bernard Hinault.
Forse è quello che si dice alla luce di ogni vittoria, ma questa sembra avere davvero un sapore speciale, per come è nata e arrivata, perché vinta contro ogni pronostico su un percorso molto spesso (e giustamente) considerato obsoleto e, per certi versi (cioè per il fatto che spesso si risolve in volata negli ultimi chilometri), inadatto alle sue caratteristiche.
Nibali ha saputo sfruttare la marcatura stretta fra Sagan e Kwiatkowski, è stato in parte favorito dalla riduzione del numero di ciclisti per squadra, che in una gara così lunga ha portato le squadre ad avere meno energie per controllare la corsa. Ma è stata anche una vittoria di forza, cercata e voluta da un talento che ha pochi eguali nella storia del ciclismo italiano.
Eppure, nonostante le vittorie innegabili, Nibali non ha mai dato l'impressione di essere un grande campione, le sue vittorie sono arrivate sempre con semplicità, in sordina. Questo dipende in parte anche dal suo stile: Nibali è sempre stato quasi “costretto” a dominare le corse che ha vinto, e non avrebbe potuto fare altrimenti vista la sua scarsa propensione per le volate. Ed è forse per questa sua necessità a plasmare il contesto a suo favore a non aver mai convinto davvero i suoi detrattori, che scambiano il suo dominio con la fortuna.
Della fortuna di Nibali si parla da quando vinse quel Tour de France del 2014 dopo i ritiri di Chris Froome e Alberto Contador, dimenticandosi che Froome cadde nella tappa del pavé e che Contador aveva già un ritardo superiore ai due minuti e mezzo, molto difficile da recuperare a un Nibali così in forma. Ci si dimentica anche della presenza di Thibaut Pinot e Jean-Christophe Peraud, Alejandro Valverde, Romain Bardet, Joaquim Rodriguez e tutti gli altri migliori interpreti delle corse a tappe di quel periodo.
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In tanti scambiano la grandezza di Nibali per assenza di avversari, forse dimenticandosi tutti quegli episodi dove invece è stato veramente sfortunato.
Come durante le olimpiadi brasiliane del 2016, quando già sicuro di una medaglia olimpica si schiantò contro un marciapiede durante l'ultima discesa. O alla Liegi-Bastogne-Liegi del 2012, quando involato verso una spettacolare vittoria si vide raggiunto e superato da quel Maksim Iglinskij che poco tempo dopo verrà trovato positivo all'Epo (ma che è ancora vincitore ufficiale di quella Liegi). O al Mondiale di Firenze, quando cadde su delle strisce pedonali bagnate al penultimo giro e dovette spendere energie preziose per rientrare finendo comunque al 4° posto.
Una serie di sfortune clamorose, che avrebbero potuto rendere il palmarès di Vincenzo Nibali pari a quello dei vecchi campioni del nostro ciclismo. Eppure già così dovremmo renderci conto che prima di rivedere un talento del genere, in Italia, passeranno ancora tantissimi anni.