Kinshasa, Zaire, 1974. Durante una conferenza stampa prima del match contro George Foreman, Muhammad Ali chiede silenzio, come spesso faceva in queste occasioni per declamare una delle sue “profezie burlesche”. A raccontare l’episodio è lo scrittore Norman Mailer (“La sfida”, Einaudi, 2012). Tutti si aspettano qualche divertente rima baciata sulla sorte che toccherà all’avversario, come quella volta dodici anni prima quando ancoraCassius Clay aveva irriso Archie Moore: “Don’t block the aisle and don’t block the door. You will all go home after round four”. Stavolta lascia tutti di stucco:
“Le parole della verità sono toccanti
La voce della verità è profonda
La legge della verità è semplice
Sulla tua anima è il raccolto
L’anima della verità è Dio.”
I versi, con ogni probabilità i più alti mai pronunciati da un pugile in una conferenza stampa, “non possono essere opera sua” crede Mailer. È un canto sufi, forse una preghiera insegnatagli “dai suoi amici musulmani”.
Oggi come allora il rapporto di Ali con la religione non è semplice da tracciare. Dal 1964, anno in cui dichiarò pubblicamente la sua conversione, Ali non ha mai smesso di stupire: l'ingresso nella Nazione dell'Islam, l’amicizia con Elijah Muhammad, il contrasto con Malcolm X, la rottura con la famiglia, il rifiuto del Vietnam e quello del nome di battesimo, l'arroganza e la goliardia, l'appoggio a Reagan e l'impegno civile. Scelte a volte illuminanti altre volte oscure che lo hanno reso sì il "più grande atleta del Novecento" ma anche il più inafferrabile.
Cassius Clay Senior
Il padre, Cassius Clay senior, realizzava le insegne dei negozi di Louisville, Kentucky, e nei fine settimana, aiutato qualche volta dai suoi figli Cassius Marcellus e Rudolph Valentine, dipingeva gli affreschi nella chiesa di West End. Era metodista, praticante moderato. A tavola, come un pulpito, si lamentava con la famiglia dei "diavoli bianchi". Per colpa loro era stato costretto ad abbandonare gli studi, per colpa loro non era riuscito a diventare un grande artista. I bianchi lo avevano disumanizzato. Senza mezzi termini, Clay senior investiva i figli dell'ansia di autodeterminazione sociale. Nascere nero, anche se del ceto medio come la famiglia Clay, voleva dire comunque "avere una missione”.
Ali, di quegli anni, ricorda "i pianti notturni" prima di addormentarsi, quando pensava alla condizione in cui versavano i suoi sfortunati fratelli neri. Come Emmett Till. Emmett aveva quattordici anni quando, nel 1955, era stato ucciso nel Mississippi per aver salutato una ragazza bianca. I due assassini erano stati assolti da una giuria composta di soli bianchi. Quella riunione del consiglio era durata appena un'ora: "Ma se non ci fossimo fermati per bere una gazzosa", aveva scherzato uno dei giurati: "non ci avremmo neanche impiegato così tanto”. Se Ali avesse dovuto scegliere un momento in cui far cominciare la sua presa di coscienza sociale e politica, avrebbe raccontato di Emmett Till. Impossibile da dimenticare visto che suo padre aveva ritagliato dal giornale una foto della sua testa fracassata che sventolava a tavola quando ce n'era bisogno.
La storia di Cassius, una volta ribattezzato Muhammad Ali, è stata parzialmente rimaneggiata da Richard Durham, direttore di Muhammad Speaks, giornale della Nazione dell'Islam e ghost writer dell’autobiografia The Greatest: My Own Story (1975). Alcuni aneddoti risalenti al suo periodo giovanile sono stati inventati per consolidare l'immagine di un campione "alimentato esclusivamente dalla rabbia e dall'ingiustizia sociale", come nel caso della medaglia d'oro vinta alle Olimpiadi di Roma nel 1960. Durham racconta che al suo rientro in America Clay fosse stato molestato da una banda di motociclisti bianchi, e in segno di protesta avesse buttato la medaglia in un fiume. La verità, venuta fuori soltanto anni dopo, era molto meno "epica": l’aveva persa durante il viaggio.
La sua partecipazione politica di quegli anni è un altro falso storico costruito a posteriori dalla Nazione dell'Islam. È grazie soprattutto al materiale bibliografico raccolto su Cassius da David Remnick ("Il Re del Mondo", Feltrinelli 1999) se oggi possiamo delineare un profilo del pugile più puntuale. Clay prima della conversione aveva partecipato soltanto a una marcia per i diritti civili, ma dopo aver preso una secchiata d'acqua in testa, aveva giurato che "sarebbe stata la prima e l’ultima".
Fard, Muhammad e “lo scienziato dalla testa grossa”
All'inizio degli anni '30 a Detroit arriva uno strano predicatore. Strano perché è bianco ma si rivolge ai neri. Dice di essere nato vicino alla Mecca, anche se è arrivato a Detroit dalla California. Parla di una teologia afroamericana dell'Islam e si autoproclama l'incarnazione di Allah. Convince i suoi discepoli neri a riprendersi il retaggio musulmano e dopo secoli di sottomissione conquistare la superiorità culturale sul bianco. Si chiama Wallace D. Fard e la sua setta è la Nazione dell'Islam. "La sua parola offre speranza, orgoglio e conforto" anche se parla una lingua che è un misto di islam, ebraismo, cristianesimo e mormonismo.
Secondo Fard più di 6000 anni prima era nato un bambino nero di nome Yacub, soprannominato “lo scienziato dalla testa grossa”. Yacub era una specie di enfant prodige che a diciotto anni, terminati gli studi, aveva iniziato a predicare. La sua dottrina era malvista, perché ritenuta pericolosa, e così era stato esiliato a Patmo, nell'Egeo (l'isola dove San Giovanni Evangelista avrebbe scritto il libro dell'Apocalisse). Yacub voleva creare una "razza del diavolo", uccidendo tutti i suoi fratelli e sorelle neri. Dopo essersi sbarazzato "del gene dominante" aveva ordinato l'accoppiamento "dei più chiari". Generazione dopo generazione, i seguaci di Yacub erano diventati marroni, gialli e infine bianchi con i capelli biondi e gli occhi azzurri. "Dall'isola greca", racconta Fard: "La razza debole dei bianchi si è spostata in Europa e grazie agli insegnamenti di Mosè ha ritrovato la propria forza e ha dominato il mondo”.
Tra il pubblico che ascolta le prediche di Fard, c'è anche Elijah Poole. Veniva dalla Georgia, era stato arrestato a Detroit per "concorso allo sbandamento minorile" per aver impedito ai suoi figli di frequentare la scuola e a Chicago aveva scontato un'altra condanna per renitenza alla leva (come avrebbe fatto anni dopo Ali con una maggior risonanza mediatica). Nel 1934 è lui a sostituire Fard alla guida della setta, cambiando il suo cognome in Muhammad e codificandola in una vera e propria "fede". Se Fard è Allah, Elijah Muhammad è il suo profeta. Ha una missione: costituire una nazione nera e filoislamica nel suolo americano.
Nazione dell'Islam
Cassius aveva sentito parlare per la prima volta della Nazione a Chicago durante il torneo dei Golden Gloves. A colpirlo era stato soprattutto il sermone di Fratello John: "Era tutto molto chiaro per me, potevo toccare con mano ciò che diceva. Non era come in chiesa, quando dovevi aver fede nel predicatore, credere che fosse vero”. La Nazione per la sua carica sovversiva prendeva le distanze anche da Martin Luther King e dalla politica della non-violenza: "A protestare stando seduti sono bravi tutti, pure una vecchia e un vigliacco".
Secondo Robert Lipsyte, al tempo giornalista del “New York Times”, Clay cominciava a comprendere quel richiamo all'identità che professava la Nazione: "Era l’epoca della rabbia dei bianchi contro l’integrazione ed Elijah Muhammad parlava di autonomia". L'orgoglio, l'appartenenza, l’autodeterminazione erano parole che Cassius aveva sentito per la prima volta da suo padre, ma dalla bocca di Elijah uscivano più concrete, incombenti. Cassius subiva una timorosa fascinazione. “Comprendeva la loro forza e capiva anche che c’era poco da scherzare", ricorda Ferdie Pacheco uno dei suoi secondi: "La Nazione era piena di ex carcerati, gente violenta, pronta a passare alle vie di fatto se li ostacolavi".
La setta prima dell'ingresso di Ali considerava la boxe "un vizio da bianchi", ma appena compreso che quel pugile gli avrebbe permesso una maggior copertura mediatica e alti introiti, i pregiudizi scompaiono.
Clay ed Elijah diventano amici all'inizio degli anni sessanta, ma è una relazione clandestina. A rompere il silenzio è l’articolo scritto da Dick Schaap sull’Herald Tribune che definisce Clay “un fervente seguace di Elijah” e quello sul “Philadelphia Daily News” che aveva rincarato la dose affermando che “pur non essendo un musulmano, Cassius ha detto che Elijah Muhammad è ‘grande’”.
L’opinione pubblica, in quel periodo, conosce poco della Nazione ma quello che sa gli basta: una setta di radicali e criminali con mire separatiste. Nel 1961 Elijah Muhammad stringe rapporti addirittura con il Ku Klux Klan, visti gli obiettivi speculari. La carriera pugilistica di Clay è in ascesa, un passo falso fuori dal ring comprometterebbe la corsa al titolo mondiale.
Malcolm X
Malcolm Little si era avvicinato alla Nazione nella prigione di Charlestown, a Boston, alla fine degli anni '40. Anche lui, come molti seguaci di Elijah Muhammad, aveva trascorsi di criminalità (contrabbando e spaccio di droga). Ma a differenza di altri è colto, sveglio e brillante. Entra ufficialmente nella Nazione nel 1952 e in poco tempo scala le gerarchie. I rapporti tra lui ed Elijah cominciano presto a farsi tesi: Malcolm è esuberante, non dispiace ai media americani e sostiene un'immediata azione politica (Elijah non era d'accordo nell'impegno secolare nel mondo dei bianchi).
Malcolm viene eletto capo della Moschea di New York e diventa un'istituzione per molti afroamericani. I suoi discorsi infiammano: come quello contro Martin Luther King, “lo strumento dei diavoli bianchi”, o quello ad Harlem qualche settimana dopo l’assassinio di Kennedy. Elijah in quell'occasione si era raccomandato con i suoi ministri di non commentare l'accaduto, per non danneggiare la posizione della Nazione. Malcolm invece, ricorda Remnick, "disse che quell’omicidio rappresentava un esempio del 'chi la fa l’aspetti', l’America dei bianchi aveva per anni utilizzato ogni sua risorsa per umiliare i neri, sia in patria sia all’estero, e ora tutto questo male ricadeva sui suoi leader”.
Il rapporto tra i due si sfalda definitivamente. Malcolm non crede più alle parole sulla rettitudine morale di Elijah (ha messo incinte due segretarie) vuole lasciare la Nazione e intanto fonda la Muslim Mosque Inc. e l’Organizzazione per l’unità afroamericana.
È il secondo cambiamento radicale di Malcolm dopo la conversione nel carcere di Charlestown. È soprattutto il viaggio alla Mecca ad avergli cambiato prospettiva sulla questione afroamericana, aprendosi al dialogo politico (stringe la mano al suo “nemico” Martin Luther King) e ritrattando le generalizzazioni fatte sui bianchi.
Quando Cassius incontra Malcolm a Detroit nel 1962 l'amicizia che ne nasce è già destinata ad aver vita breve. Prima dell'incontro mondiale con Liston, Malcolm e Cassius sono inseparabili, come due fratelli di sangue. Malcolm carica il suo amico in vista del match: “Sono la croce e la mezzaluna che per la prima volta combattono sul ring per la vittoria”, gli dice: “È una crociata moderna: un cristiano e un musulmano faccia a faccia”. Un discorso che non può che far piacere a Cassius che anche quando diventerà Ali vorrà competere in negritudine con ogni avversario.
Muhammad Ali
Uno dei momenti più celebrati della carriera di Cassius coincide con uno tra i più amari per Malcolm. "Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l'ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Ali, un nome libero." Gli storici sono compatti nell’affermare che Ali sia stato manovrato dalla Nazione per isolare Malcolm. Anche il pugile se ne renderà conto, troppo tardi: "Avergli voltato le spalle è stato uno dei rimpianti più grandi della mia vita”.
La scelta di cambiare il nome non è soltanto una questione religiosa ma un atto politico architettato da Elijah Muhammad. È vero che Cassius Clay, come qualunque nome dato a un afroamericano, è un nome da schiavo, ma per la sua famiglia era soprattutto un motivo di orgoglio. Il padre e il figlio erano stati chiamati così in onore di un abolizionista del Kentucky. Inoltre fino a quel momento a Clay quel nome non dispiaceva per niente: “Cassius Marcellus ti fa pensare al Colosseo, ai gladiatori romani." Quando diventa Muhammad Ali, dice David Remnick, Cassius "si adegua a nuovi ordini di Elijah".
Il 6 marzo del 1964, una settimana dopo la vittoria del titolo mondiale contro Liston, Elijah tiene un discorso in radio in cui annuncia che il nome di Clay "manca di significato divino". Assegnare un nuovo nome ai membri della Nazione significa profondissima stima: era soltanto il profeta che poteva dispensare queste onorificenze. Così facendo Elijah da una parte cementifica il legame con il pugile, e dall’altra disinnesca l’influenza di Malcom su Cassius. Muhammad Ali gli sarebbe stato riconoscente a vita.
Amir Baraka, scrittore e musicista nero, a quel tempo molto vicino ad Ali e coinvolto anche lui nella lotta per i diritti degli afroamericani, definisce la scelta del pugile quella di un "sempliciotto": "Aveva abbracciato quell'ideologia casereccia, figlia diretta della fervida spiritualità e delle aspirazioni da povero negro; era semplicemente arrabbiato anziché intellettualmente motivato".
Ali incontra Malcolm per l'ultima volta ad Accra, in Ghana. Si ritrovano per caso in aeroporto, ma a quel punto Ali non ha più niente da dire al suo amico: "Hai abbandonato il Venerabile Elijah Muhammad, è stata una scelta sbagliata". Malcolm viene ucciso il 21 febbraio 1965 ad Harlem da alcuni affiliati alla Nazione. Né Ali né Elijah si mostrano sconvolti dalla sua morte.
Reazioni pubbliche
In seguito alle notizie della sua conversione e del cambio di nome, la maggioranza dei giornali dell'epoca attacca il pugile. A difenderlo c’è solo il suo entourage, interessato esclusivamente alla preparazione atletica in vista della difesa del titolo mondiale.
Per la famiglia e in particolare per il padre, la conversione all’islam del figlio è una delusione tremenda. Secondo Cassius senior il figlio è stato raggirato da quei “diavoli musulmani”.
Alcuni commentatori sportivi paragonano la scelta della religione islamica a un "messaggio di odio". La WBA prova a sospendere il campione per "condotta pregiudizievole per gli interessi della boxe", senza però riuscirci. In tutti gli Stati Uniti, ricostruisce Remnick, l'unico bianco ad aver preso bene la conversione di Ali è Richard Russell, senatore segregazionista della Georgia. Così com’era avvenuto quattro anni prima tra la Nazione e il KKK, gli intenti separatisti accomunano. Ali ne è convinto: "L'integrazione è sbagliata, i bianchi non la vogliono e non ci credono neanche i musulmani”.
In Italia il dibattito su Ali si accende grazie a Oriana Fallaci che lo intervista il 26 maggio 1966 per l'Europeo. Anche se in quest’occasione la giornalista non sembra sempre mettere bene a fuoco Ali, prendendolo seriamente mentre lui la prende in giro, Fallaci gli riconosce "un qualcosa di commovente, di dignitoso, di nobile. Nel suo fanatismo v'è come una purezza, nella sua passione v'è qualcosa di buono. Vorrei essergli amica”.
L’anno dopo Ali ha in programma un’altra trovata che si annuncia ancora più esplosiva. “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato ‘negro.’” La renitenza alla leva gli costa titolo mondiale e anni di sospensione. Ma è l’inizio di una nuova fase, quella della lenta e inarrestabile riabilitazione agli occhi dell’opinione pubblica. I fratelli neri che l'avevano trascurato per la sua conversione alla Nazione adesso lo amano per "quel supremo atto di sfida", come lo definisce la scrittrice Jill Nelson. A quel punto Ali incomincia a essere molto più che un pugile, diventa un personaggio mondiale, e ai suoi spettacoli partecipano e si divertono anche molti “diavoli bianchi”.
La rabbia e la religione
In una delle lunghe e profonde disamine dello scrittore Norman Mailer in “La sfida”, ispirato dall’atmosfera che si respira a Kinshasa prima del “Rumble in the Jungle”, si parla di Ali, in quanto nero americano, come di un alienato, separato da due culture: quella africana e quella americana. "Poiché viveva in un campo di forze umane in continuo e drammatico mutamento, in cui le persone che conosceva venivano arrestate, uccise, o cadevano preda della droga, [il nero americano] doveva assolutamente affermare se stesso."
Ali, grazie all'appoggio di Elijah Muhammad, che in questo senso è stato un “salvatore” ad aver raccolto sotto la sua ala i più bisognosi, aveva capito che non doveva buttare la sua vita ma fare qualcosa di costruttivo: "Sono entrato nella boxe perché pensavo che fosse il modo più veloce, per un nero, di sfondare in questo paese.”
Il nero americano, rispetto all'africano, non aveva un padre, e avrebbe dovuto trovare la forza soltanto da se stesso. Mailer lo chiama "il capitalismo dell'ego": "L’unica ricchezza possibile per lui era il rispetto nel proprio territorio." Lo stesso Ali, una volta ritirato, lo conferma: "Se io non avessi mai urlato all’inizio della mia carriera nessuno mi avrebbe dato importanza". Il messaggio divino in quest’ottica diventa più un messaggio politico, attraverso il quale si può definire ancora meglio l’essere nero. L'Islam in Ali è uno “strumento”, quell’aratro che gli ha permesso di seminare il suo territorio di appartenenza, e dare un valore alla sua anima di alienato.
Una volta che i confini sono stati segnati, avviato il processo di autodeterminazione, non c'è più bisogno di "urlare”. Con il riconoscimento anche da parte dei bianchi, con una motivazione finalmente intellettuale non più rabbiosa, Ali ha potuto attenuare il radicalismo, così come aveva capito anni prima l’amico Malcolm. Essere un musulmano restava il valore della sua forza, ma ciò che prima poteva essere espresso soltanto con la segregazione, diventava possibile anche con l’integrazione. Il messaggio di Ali si fa condivisibile, semplice. In alcuni casi anche troppo, come quando nell’84 appoggia la candidatura di Reagan perché "vuole che Dio resti nelle scuole, e questo è sufficiente".
L’eredità di Mike Tyson
A metà degli anni '90, un altro grande campione di pugilato si converte all'Islam: Tyson. Ali è sempre stato uno dei suoi modelli, fin dagli anni del riformatorio: “A dieci anni è venuto a visitare l’edificio, noi l’acclamavamo, mi sembrava impossibile eppure era vero, era lì davanti a me. Mi sono detto ‘voglio diventare come lui’. Ho sentito qualcosa in quel momento e da allora è diventato il mio obiettivo, non ho hai perso la speranza”.
Nel 1995, quando era uscito nuovamente dal carcere Mike aveva dichiarato di aver cambiato nome in Malik Abdul Aziz: era un musulmano. Nell’autobiografia (“True-La mia storia”, Piemme 2015) racconta che in carcere frequentava la moschea non soltanto per le funzioni religiose, ma anche per i traffici quotidiani: era riuscito, tra le altre cose, a procurarsi una pistola. La conversione all'Islam di Tyson, fin da subito, non era apparsa molto convincente, neanche a lui: "Non ero veramente pronto, usavo la religione come passatempo".
Mike, prendendo Ali come modello e precedente illustre, aveva pensato di sfruttare la religione per poter essere riabilitato, ma era stato approssimativo: farsi accettare per il suo essere musulmano era stato l'incontro più lungo e difficile vinto da Muhammad Ali. Tyson, purtroppo per lui, se ne accorgerà troppo tardi: "Volevo essere rispettato e amato, ma non ci sono mai riuscito. Non puoi farti rispettare e amare solo desiderandolo con tutte le tue forze. Devi pretenderlo.”