
Nella fisica - e più in generale nelle scienze dure - spesso leggi, teoremi, principi o ipotesi prendono il nome da coppie di scienziati: una delle formulazioni più citate - anche per le sue implicazioni visionarie, specie in ambito SF - è il ponte di Einstein-Rosen, il wormhole che connette due punti separati dello spaziotempo; ma potremmo ricordare, tra le tante, il teorema di Bernoulli-Venturi, le equazioni di Maxwell-Faraday, la legge di Stefan-Boltzmann, ovviamente la doppia elica del DNA di Watson e Crick.
In prospettiva ludica, potremmo aggiungervi ora la “dimensione Sinner-Alcaraz”. Un modo - solo in parte metaforico, come si cercherà di mostrare - per dar conto dell’ulteriore leap compiuto dalla “fisica del tennis”; un leap - hanno notato in tanti, specie ex-top player ora commentatori - che non avremmo ritenuto possibile veder emergere così a ridosso del crepuscolo dei Big Three (col solo Djoker ad aleggiare ancora come un Nazgŭl tra i cieli). È una dimensione in cui, ovviamente, potranno occasionalmente penetrare altri tennisti: lo stesso Djoker; talenti in crescita costante come Jack Draper o il raffaellesco Musetti, per certi versi l’unico a poter riprodurre qualche eco o frame dell’Apollo-Federer; qualcuno della “Limbo” o “Sandwich” generation (Zverev, Medvedev); e a breve-medio termine, altri top-player in gestazione, João Fonseca in testa. Ma, al momento, specie negli Slam - come ci hanno ricordato le cinque ore e mezzo della finale sulla polvere di mattone parigina - sembra che quella dimensione appartenga quasi solo ai suoi due artefici.
I RINTOCCHI DEL LEAP (LA GENESI)…
La dimensione Sinner-Alcaraz ha cominciato a emettere i suoi rintocchi - a tracciare i suoi sbreghi, come la sotto o sovra-realtà che si rivela a folate in certe narrazioni di Philip Dick - nella loro competizione-coevoluzione, diretta e a distanza, negli anni scorsi, quando premeva dentro la fase caotica e composita del circuito, tra i Big Three in uscita e la stessa Limbo generation che ancora non sapeva di (o non si rassegnava a) essere tale.
Il primo squarcio - se non un abbacinante flashforward, che già in tempo reale denominavamo come un aprirsi del “mondo nuovo” - è il match JS-CA all’Arthur Ashe di giovedì 8 settembre 2022, oltretutto antefatto impressionante, per atmosfera generale e per dettagli molecolari, proprio del match di Parigi.
Identica (pur in un andamento complessivamente dissonante: Jannik sale due set a uno dopo aver perso il primo) è la possibilità per lui di chiuderla al quarto andando a servire sul 5-3 e ottenendo il match point (a Parigi, com’è noto, saranno tre, su servizio di CA): a occasione mancata, il piano si inclina, con Carlitos che infila 11 degli ultimi 12 punti del set, chiudendo 7-5. E se è vero che a Parigi Jannik ha un ulteriore sussulto (il break ultraterreno sul 5-4 per Carlitos al servizio nel quinto, soprattutto la prensilità sul drop shot), non dissimile è il crash, di matrice energetico-elettrolitica o psico-agonistica che sia, pur spostato agli estremi possibili: nel quinto all’Arthur Ashe Jannik va 3-2 e 40-15 a servizio, per poi sciogliersi e cedere 6-3; a Parigi perde il super tie break in un sanguinoso 10-2. Anche se molto diversi sono i riscontri statistici, con Jannik che vince più punti (193-192), oltretutto su una superficie teoricamente sfavorevole.
Identico, poi (al netto di acerbità evidenti per l’uno e per l’altro: per Jannik, il servizio, specie la seconda; per Carlitos, una minor varietà di soluzioni e sfumature) è già il connotato di intensità e velocità degli scambi, con l’interazione del loro tennis che produce momenti quasi parossistici: tutti e due giocano già potenti e profondi vicino alla riga, con accelerazioni e angoli spesso estremi e una formidabile capacità nel convertire il vincente potenziale dell’avversario nel proprio vincente (un angolo estremo in un contro-angolo estremo). Esito - anche per i tratti laschi dei due servizi, ma non sottovalutiamo la loro comune capacità di risposta fuori parametro - una catena di break e contro-break, sorpassi e controsorpassi, in un andamento quasi allucinato (acme un terzo set concluso da un tie break vinto da Jannik a zero), che eleva quel match ben oltre il cartone preparatorio del “dipinto” parigino: è già quello un dipinto - o un poema sinfonico - a fondare un ciclo di variazioni a venire, di cui Parigi è, per ora, la più insinuante.
E identica - su tutto e a conferma di tutto - è la percezione dell’abnorme: la direttrice dell‘US Open, Stacey Allaster, se ne esce con una frase lapidaria (“È la miglior partita che abbia mai visto in vita mia: un altro livello”) echeggiata dall’estatico comento in diretta di McGenius (“Stiamo guardando il tennis che cambia sotto i nostri occhi: questa è l’evoluzione futura del gioco”). Uscite ritenute in quel momento iperboliche, dovute a un eccesso di pathos; e oggi invece, a posteriori, solo anticipazioni esatte di quelle emesse a Parigi dai citati ex top-player, da Panatta al solito Wilander, che prendiamo a sintesi: “Ho visto Federer e Nadal giocare grandi finali, ma niente si avvicina a questa. Ho pensato che non sia possibile, che stanno giocando a un ritmo che non è umano…hanno portato il nostro sport a un altro livello (chiusa che torna, circolarmente, a Stacey Allaster).
…E LA MESSA A FUOCO
Dopo quella fitta emissione di “segnali dal futuro”, la dimensione Sinner-Alcaraz - stiamo fatalmente semplificando - vedrà soprattutto due altre stazioni di avvicinamento e messa a fuoco.
La prima è la finale di Wimbledon 2023, in cui Carlitos - sovvertendo il crash della semifinale parigina di poco prima, in cui si era dissolto davanti al Djoker in piena crisi neuromuscolare - lo batte al quinto (1-6, 7-6, 6-1, 3-6, 6-4), primo nome diverso a erompere nell’albo dopo dei Championships dopo un ventennio ininterrotto dei Big Four; primo, cioè dai tempi di Leyton Hewitt (2002).
Da quel match (al termine del quale il Djoker pronuncia la famosa investitura: “Non ho mai giocato con un giocatore come lui. Mai”) emergono già diversi tratti decisivi nell’assetto tecnico e psico-agonistico di Carlitos, coi due piani spesso in sovrapposizione: l’alta assunzione del rischio nei “key” o “pressurepoints”,la capacità di graduare le strategie secondo i momenti (vedi il drop shop usato solo in contesti precisi o ad avversario calante, come a Parigi quest’anno) e non in ultimo, qualità molto sottovalutata, la capacità di incassare, quasi pugilistica, e di reggere momenti di braccio di ferro interminabili come la sacca quasi “nauseante” (così Giorgio Di Maio) del quinto game del terzo set, mezz’ora di guerriglia che vale a CA il secondo break e il 4-1.
La seconda sequenza - rispetto alla “dimensione” S-A - è ancora più decisiva. Ci riferiamo, cioè, all’approdo della lunga “quest” - la ricerca nel senso del fantasy, in teoria mai finita - intrapresa da Jannik dopo l’impasse dell’apprendistato con Riccardo Piatti e il passaggio allo staff capitanato da Simone Vagnozzi e Darren Cahill (febbraio 2022, subito dopo l’eliminazione ai quarti dello Slam aussie a opera di Tsitsipas). L’esito “in chiaro” della ricerca aggallerà oltre un anno e mezzo dopo, al termine di un andamento a montagne russe, tra illusioni e disillusioni, come innescato da un “clic” risolutivo, che faccia interagire d’un tratto, in maniera olistica, tanti progressi latenti-tecnici, tattici, atletici, neuropsicologici- coordinandoli ed enfatizzandoli. Un clic che somiglia alla scheggia-tessera con cui il gigantesco “spaventatore” Sulley completa, in Monsters & Co., la porta fatata perduta e ricostruita in segreto dall’amico monocolo Mike, così da poter riaccedere alla cameretta di Boo, la bambina con cui ha un rapporto di speciale empatia.
Il perché e il come di quel “clic sono legati soprattutto al quando, ai tempi. Come ricorda a proposito di Steph Curry il suo coach Brandon Payne (ex modesto cestista poi diventato guru del training), in ogni atleta il rapporto tra “genetico” e “appreso” - tra le qualità naturali e una progressiva acquisizione delle “abilità assimilate” a ogni livello- procede in sincronia con la maturazione del corpo ovvero del rapporto corpo-cervello. “Ci sono atleti- sintetizza Payne- che arrivano alla maturazione a 22, 23, 24 anni; Steph ci è arrivato a 27 [l’anno del primo anello coi GSW, ndr]; mentre il suo concittadino LeBron James, a quello stadio, ci era arrivato a 20…”.
Fatto sta che il “clic” innescato in Jannik dal lavoro con la nuova équipe si traduce in un crescendo che segna il suo “quantum leap” e insieme va a completare ed espandere il “leap” del “nuovo tennis” avviato da Carlitos. Si tratta, com’è noto, dell’ultima parte di stagione 2023: in un primo miniciclo, Jannik vince il primo atteso 1000 a Toronto, il 500 di Pechino “in stato di grazia” (battendo Carlitos in semi e Medvedev - per la prima volta - in finale) e il 500 di Vienna (di nuovo sul russo); mentre in un secondo miniciclo, la dorsale fluorescente è costituita dai quattro incontri col Djoker, tra le Finals torinesi e la Davis a Malaga, con tre vittorie, due in singolo e una in doppio, e una sola sconfitta, un duplice 6-3 all’ultimo atto delle stesse Finals. Particolarmente significative le due vittorie in singolo: quella nel Gruppo Verde a Torino, un’apnea (7-5, 6-7, 7-6) che ne fa il miglior match ai tre dell’anno con la finale di Cincinnati, vinta dallo stesso Djoker su Carlitos; e quella in Davis, con Jannik che annulla lui tre match point all’avversario per andare a vincere il terzo 7-5. In quei quattro mesi scarsi - tra Toronto e Malaga. JS ascende dal (suo) contesto dolomitico all’Himalaya-Karakorum del circuito, come confermerà, a gennaio 2024, il primo Slam di carriera, con Medvedev battuto di nuovo, per giunta risalendo dopo i primi due set persi.
Lì nasce, a tutti gli effetti, il Sinner “numero uno” che da allora, beninteso, è migliorato in diversi altri aspetti e ancora migliora. Ma se Carlitos ha aperto i primi squarci sul nuovo paesaggio, è stato Jannik a svelarlo per intero, a conferirgli una continuità e un’omogeneità coincidenti con il citato “altro livello” evocato dalla Allaster e da Wilander; o, lupus in fabula, con l’“other dimension” “in every aspect of the game” evocata da Bublik per Jannik dopo la sconfitta a Roland Garros. Cioè dallo stesso tennista che aveva definito “robot” e “non umano” un Sinner diciannovenne che l’aveva messo sotto a Miami; e dallo stesso tennista, guarda caso, che proprio pochi giorni fa ad Halle- battendolo 3-6, 6-3, 6-4 agli ottavi- sembrerebbe essersi contraddetto, smentendo in apparenza la propria sentenza.
BENVENUTI A RAGNAROK (VIA FLATLANDIA): IL PIANETA SINNER
La dimensione Sinner-Alcaraz, dunque, è impostata alla base da Jannik; nel senso che persino Carlitos - che ne ha innescate le coordinate - ora deve a sua volta adattarvisi, pur essendo l’unico ad accedervi naturalmente e stabilmente, non in senso occasionale.
Per capire al meglio cosa significhi giocare oggi contro JS, è forse utile partire da un paio di metafore legate a racconti tra fantastico e SF.
Il primo racconto è Flatlandia, del reverendo Edwin Abbott (1884); il titolo (flat=piatto) si riferisce a un mondo bidimensionale, i cui abitanti sono figure geometriche piane, tra cui l’io narrante, un quadrato. La vita, a Flatlandia, scorre nella sua monotonia, più alienante che rassicurante, fino a quando irrompe da Spacelandia una sfera, portando lo scompiglio disturbante della tridimensionalità. Qui dobbiamo sorvolare sulla pur geniale allegoria primaria di Abbott: quella che allude, con una raffigurazione distopica ante litteram, a una società vittoriana gerarchica, spietata e classista-discriminatoria, se censo e status sono legati al numero di lati delle figure (all’angolo più largo), con le donne, alla base della scala, ridotte a semplici linee con angolo pari a zero. Qui l’analogia è con (quasi) tutti i tennisti del circuito, che si sentono, davanti a Jannik, proprio come abitanti di Flatlandia: figure (si tratti di triangoli, rombi o quadrati) imprigionate in un mondo bidimensionale, mentre lui solo detiene la tridimensionalità, un linguaggio a base di sfere stesse, coni, piramidi, cilindri. È una metafora fino a un certo punto. Pensiamo, tra i tanti esempi possibili, al povero Casper Ruud a Roma ‘25, frullato ai quarti 6-0, 6-1 in un’ora: poche volte, un tennista di quel livello è sembrato come lui un abitante di Flatlandia, e nemmeno dei più facoltosi, pressoché impossibilitato anche solo ad affacciarsi alla terza dimensione dello spazio.
La seconda narrazione (The Survivors, di Tom Godwin, 1958, in italiano reso di solito come Gli esiliati di Ragnarok)è forse ancora più immersiva. Al nome (al suono) Ragnarok viene associata di norma l’Apocalisse delle mitologie nordiche (il termine in norreno significa “l’ultimo giorno degli uomini e degli dèi”); il crash dei nove mondi che ne genererà però la rinascita. Nel racconto di Godwin, Ragnarok è invece il nome di un pianeta in teoria simil-terrestre: oggi lo si definirebbe un esopianeta “analogo”, tipo Proxima Centauri b. In realtà, si tratta di un “luogo infernale”, dove gli spietati gern “dagli occhi d’ossidiana” hanno confinato 4000 terrestri in cattività, presto decimati da un lato da agenti patogeni e gigantesche belve mutanti (incroci di lupi e tigri che attaccano “a ondate nere”), dall’altro da escursioni termiche insostenibili e da una gravità “una volta e mezzo quella terrestre” che tende a “comprimere i polmoni e rendere difficoltosa la respirazione”. Quella cappa gravitazionale contrae ogni movimento nella tortura di un ralenti disperato: la semplice camminata; la corsa di chi prova a soccorrere qualcuno aggredito dalle belve; la necessità di abbattere gli alberi e trasportare la legna per accendere i fuochi notturni.
È una cattività simile a quella in cui JS rinchiude, costringe l’avversario: una cattività, un “cappotto spaziotemporale” da cui non c’è exit possibile. L’avversario - ogni suo gesto - è in ritardo e/o fuori posizione, come se giocasse appunto sotto una gravitas accentuata: rallentato, confuso, impotente.Il punto, però, è che la gravitazione agisce (quasi) solo in verticale, mentre JS ottiene quell’effetto di compressione secondo le forze orizzontali agenti nel tennis, su tutte la forza motrice: una forza motrice tale da annientare quasi la forza d’attrito che gli si oppone, come fosse, per assurdo, una forma di gravità orizzontale.
In generale, quella calotta spaziotemporale è dovuta a una pressione - a un pressing tennistico, nel senso di quell’avvolgimento la cui prima apparizione viene ricondotta dal grande Rino Tommasi a Jimbo Connors - esercitata senza soluzione di continuità. Con Sinner che sta a Jimbo, va da sé, come il pressing-gegenpressing di Klopp, in particolare quello full-court del Liverpool 2019/20, all’ur-pressing della Dinamo di Kiev di Viktor Maslov.
Nel dettaglio, quella calotta è costruita attraverso l’azione cumulativa - e l’interazione, lungo un continuum- fra tre (quattro) differenziali di velocità, acquisiti via via da Jannik nel citato evolversi del rapporto fra “genetico” e “appreso”.
I DIFFERENZIALI DI VELOCITÀ (1 E 1B): ESECUTIVA DI JS…
La premessa-cornice per comprendere quei tre differenziali è la complessione di Jannik: un rapporto altezza-peso (192 cm per 78 kg, raggiunto tardi) curiosamente coincidente con quello di Paola Egonu (192 cm per 74 kg), con analogie - se non omologie - anche sul piano anatomo-morfologico, dato che tutti e due sono longilinei ad arti lunghi (le braccia ancor più), con struttura quasi da aracnidi. Coincidenza che colpisce, in quanto si tratta dei due atleti italiani più iconici di questi anni e dall’identità (stoltamente) discussa, quando parliamo di un’afro-italiana (Egonu stessa dixit) e di un altoatesino-sudtirolese che ampliano e arricchiscono l’idea stessa di italianità, sottraendola a tutti i nazionalismi retorico-anacronistici.
Perfettamente in sintonia, quindi, con l’evoluzione intrinseca dell’atleta tout court, non solo nel tennis, verso l’adagio del libro celeberrimo di Mark McClusky (Faster, Higher, Stronger, che va sempre e comunque “interpretato” caso per caso), JS ha nello specifico un corpo che ricorda quelli “sdenodati” (così Jacopone) di certi Cristi lignei della sua terra, o di certi autoritratti “naked” di Egon Schiele; un corpo, rispetto al tennis,a lungo deficitario per flessibilità-elasticità, oltre che per touch-manualità, ma su cui l’ “appreso” ha scolpito fino al dettaglio più fine.
Oggi, infatti, l’assetto di Jannik è potente ed elastico come pochi altri, come riassume il dato - più volte giustamente ricordato da Vagnozzi -sul “miglior bilanciamento dritto-rovescio” del circuito, cioè sulla maggior efficienza -efficacia nell’ aggregate dei due colpi, come fossero una sola unità olistica nel colpire la palla: non a caso Roger Federer ha sottolineato come Jannik colpisca “allo stesso modo col rovescio e col dritto” e Ben Shelton è arrivato a dire che “è come se avesse due dritti”. Il che significa che il lavoro sul dritto è stato prevalente ma non esclusivo, dato che il rovescio (il suo colpo migliore “nature”) è a sua volta ulteriormente migliorato. Si potrebbe aggiungere forse, con una suggestione non esornativa, il paragone con un “fantasma” formale e posturale più antico, quello di Monica Seles, che colpiva, com’è noto, dritto e rovescio bimani, in un tennis, come quello di Jannik, di altissima pressione, di ricerca costante della profondità e di angoli anche estremi.
Quel bilanciamento è frutto di tanti sotto-tratti: grande equilibrio posturale, mobilità articolare, modifica personalizzata della Continental (presa più chiusa). Il colpo che ne deriva- anche per altri sotto-tratti come la decontrazione nello swing, con la racchetta che “torna” al punto di partenza, come il martello Mjolnir di Thor - deve la sua forza motrice più al timing e alla velocità esecutiva che alla potenza in sé. Il timing è infatti uno dei must della sintassi tennistica di Jannik: di norma, la palla viene colpita al punto più alto e/o avanzato della traiettoria per sfruttare velocità e accelerazione della racchetta (vedi il rovescio a salto, da Durindana); ma occasionalmente il colpo è anticipato, fino al quasi-controbalzo, come nel Federer post-Ljubicic del 2017. Quanto alla velocità esecutiva media del colpo - la “stoccata”, che nel dritto produce il caratteristico “suono di fucile” - è considerata la terza del circuito, ma è in realtà la seconda: al primo posto c’è Carlitos (2,2 metri al secondo), al secondo Rune (2,1 m/s), ma Jannik (terzo con 1,9 m/s) è stato valutato contro il Djoker a Parigi ’25, a sua volta, a 2,1 m/s.
…E DELLA PALLA DI JS, CON ALTEZZA E SPIN (LA “CAMERA DEI SEGRETI”)
Veniamo così alla velocità media di dritto e rovescio di JS, in tutti e due i casi ritenuta in generale la seconda, coi dati però in continuo aggiornamento e talvolta controversi.
Secondo i dati analitici di US Open 2024 la velocità media del dritto maggiore nel circuito sarebbe quella di Aryna Sabalenka (128,75 km/h), davanti a Carlitos (127,14), a Jannik (125,53 km/h) e al Djoker (122,31 km/h). Ma dati più recenti sembrerebbero alzare sensibilmente quelle medie: a Parigi, la velocità media del dritto sia di Jannik che di Carlitos (alzata dalla finale) è stata valutata intorno ai 138-139 km/h, con le punte consuete verso i 160-180 e oltre, specie per Carlitos. Siamo, cioè, “tra i 10 e i 20 km/h” sopra la media dei “colleghi”, come ratificato dal giudizio impressionistico, sul campo, di Taylor Fritz. Per il rovescio, invece, a lungo ha fatto fede il dato-base di Craig O’Shannessy, che vedeva la velocità media di Jannik inferiore al bimane di Rafa (111, 21 km/h versus 112); poi si è a lungo imposto il dato che vede Jannik secondo assoluto dietro Ofner (73/74 miglia=118,9 km/h); e infine, ultimamente, si parla di una media oltre i 119 km/h e con punte oltre i 130 (nettamente più veloce del rovescio di Carlitos, su cui comunque i dati latitano).
Lo snodo-chiave, però - la “camera dei segreti” harrypotteriana del tennis di Jannik - consiste nel rapporto fra quelle velocità, le traiettorie e gli spin.
Il vero differenziale rispetto a chiunque è il colpo che viaggia sopra la rete a 2 centimetri. di media più basso (di media, quindi a volte anche 5 o più centimetri in meno): tratto che si traduce sia in maggiore forza motrice sia in una specie di “schiacciamento” gravitazionale, con quelle palle radenti reiterate che unite alla precisione pressoché assoluta, sia in diagonale che in lungolinea, diventano le coordinate implacabili di quel cappotto spaziotemporale. In questo, il Sinner di Vagnozzi-Cahill contravviene radicalmente a uno dei mantra di Riccardo Piatti, che insegnava a “colpire alto quanto più si è distanti da rete e ad abbassare la traiettoria man mano che ci si avvicina”: no, per Jannik ogni punto e ogni momento sono funzionali a quella scoccata radente, di dritto e di rovescio. Non si deve pensare, però, che quel tennis radente sia a base di colpi flat (torna Flatlandia), privi di spin, ovvero di rotazioni: al contrario - anche se a livello di percezione immediata, in tv più che dal vivo, il tratto è poco avvertibile - quei colpi sono carichi di spin, per il semplice motivo che altrimenti finirebbero contro i giudici di linea o tra il pubblico.
Inciso necessario. Nelle scuole-tennis, di norma, si insegna a colpire intorno ai 70/80 cm. sopra la rete, usando l’overnet - anche attraverso lo spin - sia per diminuire il margine di errore che per generare angoli. Nel circuito, quel canone viene disatteso e deformato, in un senso o nell’altro.
Su un versante, abbiamo naturalmente il parossismo-Rafa: il suo topspin di dritto che enfatizza il tratto costitutivo e in parte controintuitivo del topspin stesso: se la palla flat atterra prima, quella in topspin atterra dopo, ma più velocemente. In termini più tecnici, enfatizza l’effetto Magnus, cioè la rotazione della palla su sé stessa, che, inciso nell’inciso, può essere “retrograda” - come nel “cucchiaio” del calcio o nel backspin-slice del tennis- o appunto “in avanti”, nella stessa direzione del tiro o del colpo, come nelle punizioni a giro o a foglia morta nel calcio, nella battuta con salto nel volley o nel topspin del tennis. Ora, la “Nadalada” di Rafa (che peraltro nel training veniva eseguita un 20% più marcata, con lo swing più basso, per limitare poi il margine di errore in partita) viaggiava ben oltre i 70-80 cm sopra la rete, anzi ben oltre il metro, con un rimbalzo così elevato e veloce da costringere l’avversario a rispondere a un’altezza media di 64 pollici (162 cm.), creando così un handicap soprattutto per tennisti sotto i 185 cm di altezza e /o con rovescio monomane. Corollario da manuale; il topspin alla Rafa rende soprattutto su clay, perché sull’erba non grippa ma scivola, depotenziandosi: sull’erba - come ricorda spesso Martina - “a nessuno piace vedere arrivare uno slice…”.
Su un altro versante, abbiamo proprio Jannik, con le sue palle radenti, ben al di sotto dei 70-80 cm e anzi di sotto dei 50, e col suo dritto che sembrerebbe avvicinarsi al dritto filante di “Pistol Pete”Sampras o al dritto-laser di Maria Sharapova, che Simon Briggs contrappone per antitesi proprio al topspin di Rafa, connotando il primo (“più tagliente ma più selettivo”, a tasso di errore molto più alto) come diretto “alla fessura di una cassetta della posta in cima alla rete”; e il secondo, invece (col suo effetto Magnus in avanti, molto più sicuro) come diretto “alle doppie porte di una stalla, con la metà superiore aperta”. Sembrerebbe, appunto, perché tutto viene chiarito dalla valutazione delle rotazioni: se il topspin di Rafa (3400 rpm- rotazioni ovvero rivoluzioni per minuto- di media, oltre 5100 di picco, tutt’altro che infrequenti) è in effetti agli antipodi di “Pistol Pete” (1850 rpm di media, 3400 di picco=la media di Rafa), i colpi di Jannik, come si accennava, sono molto meno flat e molto più arrotati delle apparenze. Il dritto ha una media superiore alle 2800 rpm e picchi addirittura di 4180 (misurazione a Roma ’25): il dato-chiave è il primo, come mostrano i raffronti con l’Apollo Federer (2700, ai tempi il secondo in assoluto), e, oggi, col Djoker (idem 2800), con Fils (3330, tra i top) e con lo stesso Carlitos (3208). Quanto al rovescio, è senza dubbio il più arrotato del circuito: primeggiava già nel 2020 (1858 rpm di media), ma dati più recenti salgono a 2235 rpm, del 24% superiori alla media dei competitor, peraltro a sua volta salita intorno alle 1977 rpm, secondo schema di evoluzione-competizione costante.
La sintesi è inequivocabile. Nel tennis di Jannik lo spin adempie a due funzioni: a) come si accennava, è il mezzo costitutivo per “tenere in campo” (spesso a fil di riga) le sue traiettorie a fil di rete, altrimenti ingestibili; b) aggiunge alla velocità del colpo flat (che arriva prima) quella del colpo rotato (che cade dopo ma più velocemente), in una mediazione inedita tra i due modi di colpire, pareggiata- ma in una chimica diversa- solo dai colpi di Carlitos.
Corollario solo in parte opposto a quello per il topspin di Rafa: è vero che questo mix inedito di flat e spin è più efficace su cemento, dove il rimbalzo accorciato diminuisce i millisecondi disponibili per il colpo avversario; ma proprio Roland Garros ’25 ha mostrato come i discrimini tra le superfici, nella dimensione Sinner-Alcaraz - e forse nel circuito in genere, v, l’”erba battuta” di Wimbledon- si stiano rimodulando.
I DIFFERENZIALI DI VELOCITÀ DI JS (2): CINETICO-CINESTETICA E BIOMECCANICA, TRA SPIDER-MAN E SCORPION
Uno dei tratti più stupefacenti del “cappotto spaziotemporale” in cui Jannik rinchiude l’avversario è la sua capacità di muoverlo senza (quasi) farsi muovere da lui.
E una sorta di dominio che parte da una sorta di presidio: la posizione- ben descritta da tanti ex top players - prossima alla baseline, da cui sembra monitorare ogni variabile possibile, come una torre di controllo aeroportuale o un portiere sweeper keeper alla Neuer, che protegga la porta e insieme decida la fase offensiva del team. Ma una simile “intelligenza posizionale” - in cui molti movimenti propri e avversari vengono prevenuti anziché letti a posteriori - non basta a spiegare quella dominanza: ci vogliono qualità cinetico-cinestetiche e biomeccaniche per cui in tanti hanno evocato Spider-Man, dal solito Wilander ad Anna Kalinskaya, un cui post iconico mostra Jannik e il supereroe in un perfetto calco posturale.
A esser precisi, molte delle super-qualità di Spider-Man, e per proprietà transitiva di Jannik (forza, velocità, agilità) non appartengono ai ragni: la velocità, in particolare, non è così spiccata rispetto alle dimensioni, specie se paragonata a quella di altri artropodi, come il coleottero tigre, che viaggia a 2,4 metri al secondo: in rapporto alla taglia, è come se Homo corresse a 730 km/h. Vi rientrano, invece, il grip e soprattutto il “senso di ragno”, un particolare insieme di percetti sensoriali (di informazioni) mandati al cervello da un insieme di strutture unicellulari piliformi dette setae, siti ovunque ma soprattutto lungo le zampe. È grazie a quel “senso” - per via di segnali biochimici e spaziali - che il ragno rileva, specie sulla tela, anche minimi spostamenti d’aria prodotti dal movimento di una potenziale preda, o la sua eventuale commestibilità, Per analogia, il “senso di ragno” di Jannik è la sua capacità - di nuovo, tra “innato” e appreso” - di processare l’informazione ambientale - di nuovo - con letture anticipatorie (ci torneremo nel differenziale 3).
In compenso, tra le qualità ignorate dai creatori Marvel di Spider-Man (come la capacità di salto, di circa 40 volte la lunghezza del corpo, equivalente di un nostro jump di 70 metri), una su tutte, in particolare, farebbe molto comodo a Jannik: la resistenza-monstre ovvero il controllo delle proprie riserve metaboliche, che permette a certi aracnidi di “sopravvivere per periodi incredibili senza nessun tipo di nutrimento”. Se JS avesse un simile superpotere, risolverebbe uno dei suoi limiti costitutivi più lesivi, su cui pure è già progredito: i crash o i cali al quinto set.
Al di là di Spider-Man e per tornare alla velocità-agilità, il presidio dinamico di Jannik è dovuto a una qualità condivisa con altri tennisti, ma da lui raggiunta con tratti anomali, quasi unici: una facoltà di “slittamento-scivolamento”, più che di spostamento, dovuta alla falcata nel senso dell’ampiezza (pur con una frequenza non trascurabile), laddove Carlitos o Auger-Aliassime ci arrivano soprattutto per la frequenza. Tutti tennisti, in ogni caso, che eccellono nel cadenzare/preparare gli spostamenti coi caratteristici split-step, i balzelli velocissimi e coordinati dei piedi uniti e paralleli, con Auger che ne fa anche tre al secondo. Particolarmente impressionanti, in Jannik, sono i momenti in cui gli scivolamenti di gamba si prolungano nell’estensione del braccio (del sistema braccio-racchetta) per arrivare a tirare un contro-vincente (per esempio un diagonale di dritto su un diagonale di dritto avversario) o - in modo più vicino al cesello che al colpo di spada- nell’arpionare un drop shot per un contro-drop shot, col polso decontratto che “taglia” un angolo estremo nel campo avversario. Lì, sembra che il corpo di Jannik abbia per estensioni delle chele (o le tenaglie di un nemico-villain di Spider-Man, Scorpion): delle terminazioni chitinose, tuttavia meno rigide e più flessibili di quanto imponga la chitina. Il tutto in una velocità esecutiva che è prodotta soprattutto dalla coordinazione; che ci ricorda come la coordinazione sia in sé una forma di velocità.
Chiosa non scontata: proprio per acuire-affinare la sua mobilità-ubiquità (i celebri “allunghi in ogni direzione”), Jannik si sottopone da tempo, come e più di altri atleti, a un training altamente specifico. Già lo faceva con Riccardo Piatti (v. i riscontri sui dati biometrici) e oggi il sunto è dato da test come quello svolto a Roma indossando in certi incontri (con Navone o De Jong) un top nero sotto-maglia, contenente una scatoletta intra-scapolare con sensori molto più sofisticati che in passato (operano a 50 hertz, cioè a 50 dati al secondo). Nello specifico: un magnetometro per registrare la direzione degli spostamenti; un accelerometro triassiale per seguire le accelerazioni in orizzontale, verticale, diagonale; un sensore per la frequenza cardiaca; e un particolare Gps per descrivere i movimenti al dettaglio, decisivo in uno sport, quale il tennis, basato su “intermittent work patterns” ovvero sulla caratteristica sintassi composita di strappi e pause lungo il fondu della resistenza. Spezia ulteriore, gli unguenti/balsami da polso, da annusare: forse stimolanti del sistema neurovegetativo, utili di prammatica nell’avviare il training mattutino. Ma qui siamo già in ambito specificamente neurale.
I DIFFERENZIALI DI VELOCITÀ DI JS (3): NEUROBIOLOGICA E NEUROPSICOLOGICA, TRA I POTERI DELLA PREDIZIONE E…
Indissolubile dal differenziale -2 - ma abbiamo già detto come tutti e tre i differenziali, o discrimini, siano legati tra loro in un continuum, in un insieme interattivo - il differenziale di velocità-3 concerne il rapporto tra “innato” e “appreso” in Jannik nello specifico neurobiologico-psicologico della performance.
Abbiamo scritto più volte nei dettagli su come le neuroscienze e la statistica aiutino a illuminare uno snodo aperto una volta per tutte da David Foster Wallace: quello sul “tempo insufficiente” - in tante azioni specifiche del tennis - per il “gesto deliberato”, quando è evidente che “siamo più nella sfera operativa dei riflessi, delle risposte puramente fisiche che travalicano il pensiero consapevole”.L’esempio-principe addotto da DFW è la “risposta al servizio”, il cui intervallo tra il momento in cui la palla lascia la racchetta del battitore e l’impatto sul campo è oggi riconducibile per una prima (a volte anche per una seconda) a non più di “un terzo di secondo”. Un intervallo per cui non bastano più i surplus canonici dei “grandi risponditori”, quali l’“estremo controllo del corpo” che Roddick ammirava-detestava in Federer (e che permetteva all’Apollo di muoversi all’ultimo microsecondo, come un grande portiere davanti a un rigorista) o le variazioni postural-cinetiche, come il “passo orientato” del Djoker per rubare il tempo all’esecuzione (qualcosa di simile ha provato Jannik quest’anno a Parigi). Oggi, come ha ricordato Carlitos in una conferenza-stampa a Wimbledon ’23, “bisogna andare oltre”.
E “oltre” significa letture apriori, anticipate e proiettive, come le letture bayesiane (il riferimento è al settecentesco reverendo Bayes, uno dei padri della statistica) legate al concetto di “probabilità condizionata tra un evento a e un evento b”; la probabilità, cioè, “che si verifichi a sapendo che si è verificato b”. Si tratta di una sorta di “apriori basato sull’esperienza”,che alcuni neuroscienziati hanno applicato proprio alla risposta al servizio,mostrando come i tennisti- specialmente i migliori - non si affidino in quel caso solo alla valutazione sensoriale, fatalmente approssimativa, specie rispetto allo spin, al vento che devia la pallina, etc.etc;ma anche, appunto, a una proiezione circa il“vederla rimbalzare in un punto atteso”, in base a un’esperienza che integri memorie generali (sui tanti atleti affrontati e il loro modo di far interagire postura, cinetica e tipologia di servizio) e specifiche, ovvero sull’atleta da affrontare in giornata, di cui si sia studiato al dettaglio il servizio in tutte le sue varianti direzionali e di tocco: flat, kick, etc.etc.
Ma non è tutto. In un libro recente (L’inibizione creatrice), il grande neurofisiologo francese Alain Berthoz dedica molti sketches proprio al tennis, e uno dettagliato proprio alla risposta al servizio, individuando un altro tassello nelle elaborazioni “non deliberate”: il collicolo superiore, struttura del mesencefalo chiamata in gergo “retina interna”, che cattura le informazioni visive della retina oculare - e di altri sensi - senza passare per la corteccia, come succede invece per l’informazione più complessa da processare. È una sorta di “mappa visiva del mondo” che risponde a molte funzioni: coordina le saccadi verso bersagli “latenti” nell’ambiente e i movimenti dei nostri occhi con la testa e gli arti; ma soprattutto “è il collicolo che permette alla lucertola di fiondarsi con la lingua verso una mosca e catturarla, o a Nadal e Federer di raggiungere la pallina di un servizio, poiché è capace di anticipare la posizione futura di un oggetto in movimento”. Berthoz cita - per questa risposta “anticipata e adattata” - due dei Big Three, ma basta metterci il Djoker più Jannik e Carlitos (di gran lunga, al momento, i tre massimi “risponditori”) perché l’esempio si aggiorni da sé. Il punto è che, di fatto, questa scoperta neuroanatomica evidenzia l’incidenza di un ulteriore strumento previsionale, ovviamente legato a tratti genetici individuali, ma comunque allenabile con le opportune sollecitazioni a livello di training.
…DELL’”INIBIZIONE CREATRICE” DI JS
Questa complessa, stratificata capacità di auscultazione dei “segnali dal futuro” si estende naturalmente, in un grande tennista, all’intera dinamica di uno scambio, come per uno scacchista che giochi tre, cinque, anche più mosse e contromosse mentalmente in anticipo. E qui emerge un altro dei tratti-chiave del Sinner maturo (post-autunno 2023): quello di portare la sua impostazione super-proattiva- la sua aggressività parossistica, la calotta spaziotemporale in cui “incappotta” l’avversario- al punto da orientare, incanalare il match, costringendo l’avversario stesso a giocare su opzioni previste, lungo i circuiti di “logica interna” stabiliti e imposti da Jannik stesso.
Ogni fondamentale tecnico e ogni passaggio tattico sono decisivi: il servizio (migliorato per velocità e varietà sulla prima ma soprattutto sulla seconda, suo antico tallone d’Achille che ogni tanto torna a riesporsi) crea la prima pressione; il primo colpo dopo la risposta tende già incanalare la logicadelloscambio , come succede in ogni vero attaccante da fondo, con Jannik subito dominante e l’avversario succube; e lo sviluppo - che sia breve, medio o lungo - deve mantenere questo rapporto di dominanza/sudditanza, fino a risolversi con un vincente di Jannik (di dritto o rovescio, incrociatoo lungolinea, a rete o in passante… ) o in un errore del competitor, indotto o gratuito poco importa -a questi livelli il confine è arruffato.
Questo tennis spoglio, essenziale, a volte quasi brutale, dai tratti Bauhaus (in cui la forma è espressione diretta della funzione) comporta in Jannik un’altra “quest” esasperata, quella - ecco la parola - del controllo, inteso come riduzione al minimo possibile di tutto ciò che può turbarlo: l’incidenza del caso, la situazione unfamiliar, e in generale tutto ciò che possa rovesciare la dominanza a favore dell’avversario. In posizione offensiva, infatti, Jannik ottiene il 73% dei punti; anche se non è trascurabile la sua capacità atletico-tecnica - come abbiamo visto - di convertire un colpo difensivo direttamente in offensivo, virare un potenziale vincente avversario in un proprio vincente. Ed è un tennis che corrisponde, come pochi altri, alla semina e alla forma del training, che lo rispecchia molecolarmente: un training in cui Jannik esercita su tutto un lavoro di selezione/limatura che richiama proprio processi di “inibizione creatrice”.
Secondo il senso comune, l’“inibizione” ha valenza puramente passiva, schiacciata com’è verso correlati psicologici come la rinuncia o la frustrazione. Mentre, nella logica o meglio nell’orchestrazione del vivente, a ogni livello, è un co-fattore decisivo nei processi creativo-costruttivi. Lo è per esempio nell’embriogenesi, quando, lungo la gerarchia del genoma, i geni architetti operano su specifici geni esecutori - attivandoli o silenziandoli in una complessa sincronia- in modo da innescare o arrestare nelle cellule i processi di replicazione e specializzazione, così trasformandole da indifferenziate (come le staminali) in cellule del fegato, dei muscoli, del cervello. E lo vediamo proprio a livello neurale, come documenta riccamente proprio il testo di Berthoz: se già il collicolo superiore - che abbiamo visto risolutivo nella risposta al servizio - obbedisce a dinamiche inibitorie (per poter selezionare e sintetizzare l’informazione sensoriale), l’inibizione neurale agisce poi a più livelli; l’esempio standard è quello dell’azione dei recettori GABA, interneuroni inibitori di un neurotrasmettitore eccitatorio come il glutamato (sono recettori stimolati, com’è noto, dalle comuni benzodiazepine); mentre un’inibizione più sistemica è esercitata dal controllo delle aree corticali su quelle limbiche,cioè affettivo-emotive, in primis l’amigdala. Il punto- sintetizza Berthoz- è che l’inibizione è un processo dai risvolti altamente ambivalenti: inibire (controllare-incanalare) la rabbia e l’aggressività impedisce a tutti noi reazioni violente, anche estreme; mentre inibire, al contrario, l’empatia e la pietas, produce il comportamento patologico di killer, psicopatici o autocrati.
Nello specifico di Jannik, l’inibizione agisce almeno in due paesaggi-chiave. Il primo è proprio quello del controllo corticale sulle emozioni, ricordato di recente da lui stesso: “Non sono così tranquillo. Quando gioco dentro di me c’è una tempesta. Però il tennis è anche uno sport molto mentale, per cui cerchi di non mostrare le tue difficoltà”. Un progresso acquisito unitamente al suo opposto simmetrico (appreso dal Djoker) cioè l’identificazione con l’Altro: “osservo spesso i mie avversari, cerco di capire cosa stanno passando”. Il secondo paesaggio - in cui la continuità tra training e match è capillare - è quello dei processi selettivi sovrastanti a quel tennis-Bauhaus che abbiamo descritto. All’opposto di Carlitos, ancora in larga parte afflitto dal problema dell’esuberanza delle soluzioni tecnico-tattiche, condiviso col giovane Roger (l’Apollo arrivava in origine fino a 15 opzioni per risolvere uno scambio, coi conseguenti, paralizzanti amletismi agonistici), Jannik è arrivato da un paio d’anni a un tasso di necessità della giocata ineguagliabile: esito, appunto, di un lungo lavoro di inibizione creatrice, che gli ha permesso di silenziare soluzioni esornative o portatrici di dissonanze cognitive. Una scultura “per via di levare”, proprio come nelle dinamiche del vivente.
Tutto, però- come vedremo tra poco- ha un costo: non esistono pasti gratis nell’universo.
“PERCHE NON L’HANNO CHIESTO A EVANS?” (ALCARAZ 1: L’ATTRITO, LA RESISTENZA-RESILIENZA)
C’è un solo tennista, per ora, che possa adattarsi, più o meno stabilmente, all’atmosfera e alla gravitazione di Ragnarok senza (quasi) scomporsi: Carlos Alcaraz. E non solo perché è il co-fondatore della “nuova fisica” (e nuova neurobiologia) del tennis che stiamo imparando a decifrare.
Per venirne a capo, potremmo partire da lontano, chiedendo lumi a Evans: non l’Evans incognito evocato dal moribondo, disteso sul fondo della scogliera, nell’incipit del grande racconto di Agatha Christie; ma semplicemente Daniel Evans da Birmingham, buon giocatore oggi 35nne e n°170 del ranking (al top era 21°), famoso anche, se non soprattutto, per un video dal titolo sintomatico: Why Everyone Hates Playing Carlos Alcaraz (Pure Tennis Torture). Come in altri video che accostano la loro biochimica (v. quello sugli US Open 2023), anche questo vede Evans disunirsi e accanirsi spesso contro la racchetta: ma è forse interessante notare come a frustrarlo - oltre al fatto di perdere (6-7, 4-6) un match tra i più sfolgoranti della carriera per coraggio e resa tecnica - non siano tanto i vincenti e le prodezze di Carlitos (scontati), quanto l’attrito che gli oppone, una capacità difensiva-monstre, ancora troppo sottaciuta, forse perché velata dalle sue qualità di giocatore iper-offensivo (il più offensivo da fondo dopo Jannik). Scorre nel video, infatti, un repertorio sconfinato: recuperi su volée profonde e angolate; diagonali di dritto di Evans, all’incrocio, “ribaltati” da CA con dritti in corsa con spin o rovesci lungolinea bloccati; diverse difese a oltranza (con colpi di controbalzo) che a volte Evans vince e a volte no. Apoteosi, nel tie break, un doppio recupero di dritto di Carlitos su due potenziali vincenti di Evans, seguito da un gelido passante incrociato.
Questo attrito, questa “densità” difensiva - nel senso dell’opposizione alla forza motrice dell’avversario - li ritroviamo spesso, in ultimo proprio nella fina di RG ’25, dove nei primi due set, davanti a uno Jannik in versione-Ragnarok (ma in parte anche nei seguenti), Carlitos si produce in lunghi momenti di “arrocco”: parossistiche, una difesa a oltranza sul 5-5 del secondo set, o una sul primo 15 del quarto set, in cui Jannik capisce definitivamente che dovrà dannarsi su ogni colpo. Uno scenario simile - oltre e più che all’US Open ’22 -si era già prodotto nei primi due set di qualche mese prima agli ottavi di Wimbledon (vittoria di Jannik 6-1, 6-4, 6-7, 6-3), altro match utile a fare chiarezza con pattern che emergono dal rumore di fondo dei loro scontri. Anche in quel caso, infatti, Jannik va a servire sul 5-3 del quarto (a servire, come all’Arthur Ashe): e lì - unico caso, peraltro con game a zero - chiude il match.
È un precedente che introduce un tema - una domanda - cruciale: JS, per battere CA, deve chiudere in tre-quattro set ed evitare a ogni costo il quinto, in cui tra l’altro, rischia di emergere il conto per quei punti faticati? E ribaltando il punto di vista, CA deve invece, per battere JS, andare a ogni costo oltre il quarto, in modo da incassare il vantaggio long distance anche di quell’attrito esasperante che ha esercitato? E una domanda cruciale che impone una sotto-domanda cruciale. Secondo diverse statistiche - che vanno a formare una sorta di andamento tendenziale, ma non univoco - sia Jannik che Carlitos sono più efficaci nei punti ottenuti tra 0 e 4 colpi; ma quando si incontrano, spesso quel differenziale viene fagocitato da Jannik. Anche a Parigi, infatti, su un totale di 385 punti (193-192 per Jannik, secondo canone che privilegia i punti “pesanti” al numero in sé), JS ha prevalso proprio in quelli assegnati sotto i 4 colpi (108-95) e CA, a perfetto rovescio simmetrico, in quelli oltre quel limite (97-84) in una gara, per inciso, che ha avuto solo il 20% di scambi oltre i 9 colpi - col più lungo a 24 - a conferma di come si stia parlando di due tennisti diversamente iper-offensivi. Molto significativi, nel dettaglio, i dati su inizio e fine match: all’inizio, quando il “cappotto spaziotemporale” è sigillato, Jannik soffoca Carlitos, portandosi 38-14 nei punti sotto i 4 colpi già al terzo game del secondo set; nel quinto, man mano che l’atmosfera di Ragnarok si allenta e gli scambi sopra i 4 colpi crescono, Carlitos ne vince 27 vs.17. Oltre metà di quello iato, peraltro, si crea nel super tie break, in cui Carlitos vince 7 degli 8 scambi (su 12 complessivi) sopra i 4 colpi. Traduzione: oltre a evitare match oltre il quarto set, Jannik dovrebbe insistere, con Carlitos, sugli scambi brevi, in cui gli è superiore e quasi soverchiante? Probabile, anche perché le due dinamiche per lui si saldano perversamente, dato che gli scambi oltre i 4 colpi spesso aumentano di numero con l'avanzare del match.
Ma torniamo al macro-snodo decisivo dei match al quinto. Il raffronto complessivo tra JS e CA, infatti, è spietato: su 16 match, Jannik ne ha vinti 6 e persi 10; Carlitos, su 14, è 13 a 1, con l’unica sconfitta che risale agli ottavi dell’Aus Open ’22 contro Matteo “The Hammer”. Tra le eccezioni eclatanti: la finale all’Aus Open ’24, da 0-2 a 3-2 contro Medvedev. A complemento, un altro dato-chiave: Jannik ha perso finora tutti i match (6 su 6) andati oltre le 3h e 50’.
Sono dati che hanno prodotto biblioteche sul suo “deficit organico” rispetto ad altri tennisti, a Carlitos in particolare. In effetti, in teoria, vale tutto: che la sua complessione e il relativo metabolismo (l’apparato osteomuscolare, il consumo di ATP, l’eventuale accumulo lattacide, etc.etc.) si adattino meno, rispetto ad altri tennisti, ai citati“intermittent work pattern”, che pure lui allena come pochi (a quell’alternanza massacrante di scatti-arresti-apnee-pause); o che abbia più difficoltà di altri a reidratarsi e/o a reintegrare le perdite in corso di zuccheri, sodio e potassio, per le quali in molti, Carlitos per primo, usano ad esempio l’ormai arcinoto “succo di sottaceti”, un complesso elettrolitico che sembrerebbe far regredire i crampi quasi in metà tempo rispetto all’acqua (ancora sotto studio la dinamica, che sembrerebbe legata più che altro a una risposta neurofisiologica-neuromuscolare indotta dal sapore acido dell’aceto). Soltanto il suo team, al riguardo, può avere dati risolutivi, giustamente blindati.
Ma qui vorremmo affiancare una nuova ipotesi. Tra le statistiche-chiave che riassumono i differenziali di Jannik, c’è quello sul suo strapotere nei “key” o “pressure points”, sui “momenti-braccio di ferro” o “sliding doors” del tennis. Al 30 novembre 2024 (ultimi dati), colpiscono tutte le percentuali relative: palle break vinte 42,3 %; palle break salvate 73, 7 %; tie break vinti 75%; set decisivi vinti 68,4%. Aggiungiamo, come spezia non secondaria, dati recenti da cui emerge come Jannik incrementi potenza (velocità) ed efficienza (angoli) del servizio proprio nei “pressure points”. E aggiungiamo, a contrasto, come Carlitos in questa classifica sia lontanissimo, addirittura nono; dato che conferma, insieme ad altri, la sua vocazione più “da Champions” che da campionato, da giocatore che si accende e offre il meglio - anche nei “pressure points” - solo coi pari grado, Jannik in primis.
Il fatto spesso trascurato, però, è come quel rendimento dipenda anche da un’altissima “soglia d’attenzione” e da una “concentrazione decisionale” che sollecitano circuiti neurali estesi e metabolicamente dispendiosi, dalla corteccia prefrontale ai correlati neurali specifici dell’attenzione (lobo parietale posteriore, campi oculari frontali…). Una “soglia d’attenzione” e una “concentrazione decisionale” che Jannik sollecita molto anche nei momenti “ordinari”: perché è vero che nel suo gioco molto è automatizzato, ma non lo è la modulazione contestuale dei suoi costituenti, specie quando l’avversario crea situazioni unfamiliar. A tacere, va da sé, del controllo corticale esercitato sulle emozioni, che lui stesso ha descritto e spiegato. Tutto questo, ricordando come il cervello del Sapiens, pur pesando appena il 2% dell’organismo in media, ne consumi il 20% dell’energia.
In sintesi, il tennis “dell’economia” di Jannik - opposto per sintassi e stile a quello “del dispendio” di Carlitos, come un edificio Bauhaus sta a un’architettura flamboyant di Gaudì - possiede a sua volta un contrappasso dispendioso, un costo dissimulato. Ma non si esauriscono qui, evidentemente, le difficoltà della sua interazione con Alcaraz.
“LA LOGICA TI PORTA DA A B: L’IMMAGINAZIONE TI PORTA DAPPERTUTTO” (ALCARAZ 2: IL SUBLIMINAL, LA RADIANCE).
C’è qualcosa non solo di avvincente-esaltante, ma quasi di commovente, nell’interazione tra Sinner e Alcaraz, nel modo in cui la loro competizione-coevoluzione trascina non solo il loro sport, ma certe tensioni del Sapiens, verso paesaggi nuovi.
C’è qualcosa di profondamente commovente nel vedere come Jannik si sia trasformato da un (presunto) eterno adolescente - ibernato in un’incompiutezza che pareva cronica - in un giovane uomo che mura i propri tormenti nel silenzio, come fossero dei “sepolti vivi” nei racconti di Poe, e insegue con ostinazione accanita l’utopia del controllo assoluto: di un tennis esatto come la “nuova fisica” di cui lui stesso sta tracciando le leggi, e che vorrebbe (quasi) escludere dall’orizzonte degli eventi il caso, l’accidente, l’unfamiliar. E c’è qualcosa di profondamente commovente nel vedere come Carlitos - che della sua naïveté infantile sembra non aver perso ancora nulla, forse perché è un borghese col volto e il sorriso di un ragazzo “pasoliniano” - ribellarsi con tutto sé stesso a quella camicia di forza deterministica, che Jannik vorrebbe allacciare anche intorno al suo corpo.
DFW opponeva Federer a Nadal come “la maestria clinica e intricata del nord” al “machismo passionale del Sud Europa”. È una polarità antropologica che in parte si ripresenta anche qui, ma con contenuti tecnico-estetici molto diversi e mescolati. La “quest” per il controllo, in Jannik, tende a un tennis della modularità e della riproducibilità: quella di Carlitos è una sorta di auscultazione in progress del proprio (smisurato) talento, che non solo non teme sconfinamenti nel caos, ma quasi li cerca, come una forma di esorcismo e di liberazione dall’ordine come condanna, come fosse l’incombere di un tribunale kafkiano. Solo così, in fondo, è possibile spiegare davvero come davanti a tre match point in una finale di RG non solo continuasse a pensare di vincere, ma guardasse Juan Ferrero con una fiducia inspiegabile: per lui, tre match point sono solo una variabile statistica, un bivio tra i tanti in una grande città, un sentiero in un paesaggio molto più esteso. Questo non significa che se avesse perso non avrebbe avuto un down simile a quello di Jannik (basti pensare alla lunga, lunghissima convalescenza post-olimpica, dopo lo “scherzo” del Djoker); ma semplicemente che quel mood è uno dei tesori nascosti nella sua harrypotteriana “camera dei segreti”.
Dopo di che, dietro e dentro quel mood, si distendono precise ragioni tennistiche.
Tutto dipende - inutile girarci intorno - dalla tecnica e dal touch di Carlitos. Che non avranno forse la prensilità molecolare dell’Apollo o (specie sottorete) di Mac o Edberg, ma rappresentano comunque la miglior mediazione possibile in rapporto alla sua potenza da attaccante da fondo. Chi mai - non solo oggi, ma in prospettiva storica - ha associato a quei colpi dalla baseline (il letale, pietrificante dritto incrociato) un repertorio così vario di voleé e demi-volée, lob radiocomandati, a tacere dell’inconfondibilità dei drop shot e dei tweener? Ecco, i tweener sono forse una summa del suo brand stilistico, come dimostra, tra i tanti possibili, quello di quest’anno contro Altmaier, ottavi di Montecarlo). È un tweener-manifesto lungo una scambio-manifesto: il tweener, specie se osservato da una - rara- inquadratura dal basso, è un prodigio in cui si armonizzano un recupero atletico-monstre per il footwork e una stoccata di lievità mozartiana- all’ultimo microsecondo possibile-, qualcosa a metà tra il lob e il passante;lo scambio, che si articola tra il contro-drop-shot di rovescio tagliato-felpato (in angolo strettissimo), il tweener stesso e il rovescio diagonale squassante che inchioda lo scambio, è invece un sunto perfetto non solo della prossimità tra momenti difensivi e offensivi (in modalità diversa rispetto a Jannik), ma soprattutto tra i diversi gradi di intensità materiale del vastissimo range di soluzioni del tennis di Carlitos.
Abbiamo già scritto- ma va qui ripetuto- di come CA posa declinare in un match- o appunto entro uno scambio- la pietra e la seta, la clava e il violino: e questo spesso velando all’avversario la modulazione dell’intensità in arrivo, come se i suoi colpi avessero la dualità onda/particella descritta dalla fisica quantistica. Prendiamo un altro dei brand stilistici, il drop shot: negli altri tennisti - anche i più tecnici - è una dissolvenza, un colpo coerente con la logica interna dello scambio; in lui è uno stacco, un abruption, un cambiamento di scena improvviso. E questo in larga parte ancora adesso, dopo che in tanti cominciano ad addomesticarlo (e lui a farne un uso più mirato e contestuale).
Questo range estesissimo di soluzioni, maturato all’incrocio, al solito, tra l’“innato” e l’“appreso”, non è esente da effetti collaterali, a partire da un’ambivalenza di fondo. Per un verso-come abbiamo accennato - CA patisce ancora, come il Federer dei primi anni, gli amletismi paralizzanti di quell’esuberanza, di quel tennis “del dispendio”, delle troppe opzioni (anche contrastanti) per risolvere uno scambio. Per un altro, però, quel range va ad alimentare- per lo più a livello subliminal- un serbatoio, un repertorio di soluzioni pressoché infinite, a seconda dei diversi contesti tecnici e agonistici che ne sollecitano l’emersione/modulazione. Non che il tennis di Carlitos - come si legge a volte - sia “tutto istinto”, tatticamente primitivo o analfabeta (nemmeno sarebbe possibile, con un nonno grande scacchista e un coach-savant- e finissimo tattico- come Juan Ferrero); è che il disegno tattico-strategico, a differenza che in Jannik, è un canovaccio che si appoggia alle tante variazioni/improvvisazioni, secondo una logica fuzzy, sfumata, polivalente e “aperta”. In definitiva: a differenza di Sinner, che vorrebbe eliminare l’unfamiliar, lui nell’unfamiliar ci vive stabilmente, al punto quasi di non riconoscerne più i tratti.
Tutti i tennisti - specie i più grandi, il che vale per molti altri sport - giocano in realtà con la mente in modo anfibio, tra terra e acqua, tra scena cosciente e un inconscio “giocare senza pensare”, per richiamare la felice espressione coniata dal grande Timothy Gallwey nel Gioco interiore del tennis, poi ripresa dallo psicologo del Max Planck Gerd Gigerenzer. Eppure, sono molto diverse le coesistenze-prevalenze tra i due livelli. A dirla tutta, Carlitos, in molti momenti, sembra proprio eseguire con la massima naturalezza l’insegnamento-principe di Gallwey: lasciar giocare il cosiddetto Sé2 - quello più libero, fluido, appunto subliminale - senza che il Sè1, tirannico e castrante come un super-io freudiano, lo intralci con ingiunzioni volontaristiche e sanzionatorie.
Quanto il subliminal soccorra Carlitos in certe, precise circostanze - o in lunghe sequenze - è emerso in modo sfolgorante, purtroppo per Jannik- proprio nell’ultimo tratto della finale di RG ‘25; fase in cui - ha sintetizzato lo psicologo dello sport Jamil Qureshi - è stato chiaro a tutti come “his subconscious mind knows more about tennis than his conscious mind ever will”.
Le “crune dell’ago” sono soprattutto due: i tre match point e lo scambio del quinto con Jannik avanti 6-5, 30-30 sul servizio di Carlitos e di nuovo a due punti del match, oltretutto dopo un contro-break a sua volta prodigioso, in controtendenza rispetto al Sinner in scioglimento di altri quinti set.In quel 15- come ha scritto Emanuele Atturo - JS risponde con dritto incrociato “che sarebbe stato punto contro tutti”, ma “quello [Carlitos] allaccia la palla con un chop che viaggia in aria teso e piove sull’incrocio delle righe opposto”; un absurdum che crea “un vuoto, un intermittenza” con Jannik che “reagisce stranamente in ritardo” perché “non se lo aspetta, non è un colpo che esiste”. L’ ultimo tentativo di imprigionare Alcaraz nella gravitazione di Ragnarok, fallisce. E lì, di fatto, il match finisce, col “giocare senza pensare” di Carlitos che si irradia lungo il super tie break attraverso una catena di colpi fantastici, tanto lucidi quanto in apparenza slegati da ogni ratio. È difficile, in quell’epilogo, non collegare il tennis di Carlitos - quella radiance - a un potente aforisma di Einstein: “La logica ti porta da A a B; l’immaginazione ti porta dappertutto”.
VERSO WIMBLEDON E OLTRE: LA “QUADRATURA” DI ANTIFONTE
Cosa potrebbe aggiungere al proprio tennis, Jannik, per addomesticare Carlitos? Probabilmente, non molto più di quanto già non abbia fatto e stia facendo. In generale - riassumiamo - vale l’imperativo di accorciare/accelerare, nel ricordo esemplare di Wimbledon ’22. Accorciare il match e gli scambi, anche perché i due livelli temporali sono connessi. Prevenire, alla fine, l’emersione del genio dalla lampada: tenere la gravitazione di Ragnarok - il “cappotto spaziotemporale” del proprio tennis - così costante da impedire che CA cominci a sbrecciarla, a lacerarla, fino a scomporla, trattandola come qualunque altra “fisica del tennis”. Anche perché, altro corollario non trascurabile, non è improbabile che il tennis subliminal di Carlitos - bypassando la “concentrazione attenzionale e decisionale” - comporti un minor consumo a livello di metabolismo cerebrale e alla lunga ne preservi la lucidità-reattività.Si tratterebbe di un’altra inversione di fondo: il tennis “del dispendio” a livello tecnico-tattico si rivelerebbe un “tennis dell’economia” a livello neurobiologico.
Certo, poi non si lavora mai abbastanza sui dettagli: in prospettiva-Wimbledon, JS dovrà pensare a incrementare - ora e sempre - l’efficienza e la continuità del servizio, di prima e di seconda; o a variare ulteriormente il gioco, anche perché a Parigi ha realizzato una volta di più quanto CA riesca a controbattere da fondo, specie col progredire del match: “Tiro forte, ma lui mi torna forte, cazzo”, urla Jannik al player box al quarto gioco del quinto set. E anche perché Carlitos sta provvedendo a sua volta: al Queen’s appena (ri) vinto, ha operato proprio sull’incidenza della battuta (10 ace di media a match al limite dei tre), sulle discese a rete (frequenti e taglienti) e sulla varietà del rovescio, con lunghe fasi da monomane in slice, secondo i suggerimenti di Martina. Ma forse, in prospettiva Wimbledon, la priorità è un’altra, più sul versante del recupero neuropsicologico. Il passaggio a vuoto a Halle vuol dire tutto e niente, per giunta contro un Bublik in “stato di grazia”. Molto più rilevante è come JS abbia impiegato i dieci giorni successivi; non tanto o non solo nel training, ma nell’elaborazione del crash di Parigi.
A inizio percorso, abbiamo evocato un film Pixar (Monster & Co.) a proposito del leap di Jannik: qui ne evochiamo un altro (il meraviglioso Inside Out) col suo toccante finale, in cui la protagonista - la teenager Riley Andersen - vince il suo grumo di ansia e disadattamento quando nell’ inside cerebrale - nel suo subliminal - Gioia e le altre emozioni cedono la console all’emozione fino a quel momento più impacciata e incompresa, Tristezza (geniale il design a forma di lacrima), che porta Riley al pianto e all’attraversamento-condivisione del dolore. Può sembrare un accostamento indebito, stonato: ma l’adolescenza, a volte, torna a trovarci, non come un’età della vita, ma come una sua espressione metatemporale. Nel racconto pudico ma lacerante di Darren Cahill - l’unico “autorizzato” da Jannik - la mezz’ora successiva alla sconfitta di RG, negli spogliatoi dello Chatrier, è stata proprio un down di tristezza culminata in un lungo pianto. Il punto è che elaborazioni simili necessitano di un tempo fisiologico, altamente soggettivo, al di là di ogni supporto familiare o terapeutico.
JS potrebbe rispondere, per dire, come Mac dopo il crash a RG ‘84, quando - avanti di due set vinti con un tennis paradisiaco - va in autocombustione e cede a Lendl al quinto. Un’esperienza traumatica: tanto che ancora oggi, dopo quarant’anni- lo ricorda Mac stesso - ogni volta che torna sulla Senna come commentatore passa in albergo nottate madide, perseguitato da larve di quei ricordi; eppure, in quello stesso ’84, subito dopo Parigi vince sia il Queen’s che Wimbledon (Jannik ha floppato Halle, ma Wimbledon è lì…). Oppure, al contrario, Jannik potrebbe proseguire nel down e avere bisogno di passaggi ulteriori per assorbire l’ematoma. Lui stesso - lui solo, al di là del team appena rinnovato - dovrà auscultarsi via via lungo il torneo.
Un torneo che resta, comunque, impronosticabile. Ma che arrivino in finale sia Jannik che Carlitos (è possibile, per la configurazione dei tabelloni), o uno solo dei due, o addirittura nessuno (magari con un’ultima planata del Nazgŭl Djokovic), la questione di fondo non cambia. Vincitori degli ultimi sei Slam, gli artefici della “nuova dimensione” del tennis hanno imposto nuovi parametri di performance destinati non solo a durare, ma a evolvere ulteriormente.
Ogni volta che si assiste a un leap del genere, viene naturale pensare ad analogie che rispecchino lo slancio intrinseco in ogni processo di competizione-coevoluzione. Una delle meno evocate - ma tra la più efficaci - è il tentativo di “quadratura del cerchio” proposto da Antifonte, un sofista greco celebre per le sue letture simboliche dei sogni e- si narra- per la capacità di sedare il dolore con la “terapia della parola”. In quel tentativo, Antifonte inscriveva in un cerchio un poligono regolare (un triangolo equilatero o un quadrato, secondo le fonti) considerando poi in successione una serie di poligoni ognuno dei quali col numero di lati raddoppiato rispetto al precedente, ipotizzando che a un certo punto il perimetro un poligono con un numero elevatissimo ma finito di lati avrebbe coinciso con la circonferenza. Anche se filosofi successivi, come Alessandro di Afrodisia, l’hanno giustamente smentito (ricordando come “i lati del poligono, per quanto piccoli, non potranno mai coincidere cogli archi corrispondenti”), l’immagine prodotta da Antifonte resta una metafora ipnotica di quella che Kant definiva “utopia regolativa”: un impossibile a cui tendere, in grado di spostare sempre in avanti i confini del possibile. Nel tennis, in ogni sport, nella stessa conoscenza umana.
Limitandoci al tennis, non possiamo sapere “in che punto” di quell’approssimazione del poligono al cerchio si situi la “dimensione Sinner-Alcaraz”. Ma quando guardiamo giocare Jannik e Carlitos, come a Parigi - pur restando coscienti di essere le vittime di un’illusione o di un’iperbole che si rinnova ad ogni generazione coi propri contemporanei - a noi sembra che lì il numero di lati del poligono sia così elevato da farne risultare il perimetro molto, molto vicino a coincidere con la circonferenza che lo contiene.