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La faccia di Federico Chiesa
30 giu 2021
L'espressività, il dramma, la generosità nelle sue partite di calcio.
(articolo)
8 min
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Intorno all’ora di gioco la pressione dell’Austria era diventata intollerabile. Il loro stile di gioco apocalittico, il modo in cui ci stavano rigirando contro una specie di versione distopica del sacchismo, sembrava aver improvvisamente cancellato l’Italia dal calcio piacevole e coraggioso. In quei minuti, mentre pregavamo che il VAR ci togliesse da situazioni scomode, dal divano di casa invocavamo un solo nome: Federico Chiesa. Lo bramavamo in campo con l’istinto tipico dei tifosi disperati, che mentre sentono il momento difficile sui polsi che tremano, cercano col pensiero il giocatore più talentuoso che siede in panchina che possa risolvere tutto, o almeno offrire una promessa di sollievo. Se dobbiamo perdere, non lasciamo nulla di intentato.

Il bello è che Chiesa sembra nato per questo tipo di situazioni. Nato per provare a salvare il mondo una giocata alla volta, a prendersi tutte le responsabilità che gli altri hanno voglia di affidargli. Ha bisogno che la pressione che gli viene buttata addosso sia all’altezza della sua ambizione. In più, molti notavano, questa era proprio la sua partita, intendendo che la sua capacità di cavare fuori qualcosa da contesti sporchi e ruvidi - come quello a cui ci aveva incatenato l'Austria - poteva essere importante. E così, Federico Chiesa, a 7 minuti dalla fine - troppo tardi, dicevamo - ha preso il posto del deludente Domenico Berardi. Gli ci è voluto circa un quarto d'ora per risolvere, in effetti, la partita.

Il cambio di gioco di Spinazzola ha preso un rimbalzo troppo alto, che sembra poterlo scavalcare, lui la controlla in qualche modo, e poi fa due grandi giocate di seguito: un guizzo improvviso con la suola, con cui prende in controtempo Laimer, e poi un tiro di collo sinistro dritto sul secondo palo, eseguito riacquistando un controllo del corpo da lanciatore del peso. Come per tutti i gol di maggior importanza, i replay rivelano dettagli preziosi: la stanchezza di Alaba, che si rende conto che non riuscirà a contrastare quel tiro e cerca di fermarlo con lo sguardo, il portiere Bachmann, che volta la testa per guardare la palla finire in rete.

Quello di cui avevamo bisogno: un ragazzo spavaldo che raccoglie una palla poco promettente, e con tutta l'astuzia e la determinazione del mondo la mette in porta. Ma c’è un dettaglio di questo gol che sfugge a prima vista, lo ha notato Rory Smith in un articolo sul New York Times. È un dettaglio che lo rende ancora più speciale, e che soprattutto appone la firma d'autore di Federico Chiesa. Sul lancio di Spinazzola, prima che la palla lo scavalcasse, non controlla la palla con la testa ma con la faccia. Quale giocatore se non Chiesa, poteva trasformare la sua faccia in una parte tecnica del suo corpo?

La faccia di Chiesa col naso un po’ adunco, le labbra grandi e gli occhi sempre spiritati. Un insieme che ci sembra di aver già visto in qualche ritratto rinascimentale, forse nel giovane dipinto da Vincenzo Catena. La faccia di Chiesa la conosciamo bene e ci parla più di altre: pochi giocatori la usano in maniera così espressiva durante una partita di calcio.

Poco dopo il gol, Chiesa si è scontrato con Hinteregger, difensore gigante dell’Austria che si è detto favorevole alle risse fra ultras nei boschi. Non sembra esserci niente di falloso, ma Chiesa cade in terra e si mette le mani sulla faccia con l’enfasi di chi ha preso uno spigolo in bocca. Poi è rotolato un po’ su sé stesso, in attesa del fischio dell’arbitro, e quando quello non è arrivato ha battuto le mani a terra gridando: Federico Chiesa in purezza.

Le sue partite sono commedia dell’arte. Federico Chiesa che giunge le mani, palmi verso il cielo, ingobbito a urlare un po’ in direzione di tutti; Chiesa che dopo i contrasti salta staccando tutti e due i piedi da terra, come i tuffatori; Chiesa che salta il portiere con un pallonetto ma si allunga troppo la palla, e mentre il difensore ormai è in vantaggio, scalpita da dietro pestando i piedi a terra. Federico Chiesa che steso a terra si mette le mani nei capelli, bocca spalancata, incredulo di fronte alle ingiustizie. Oppure Chiesa che rosica e non ci può credere, che un difensore avversario si sia frapposto esattamente tra il suo tiro e la porta, tra sé stesso e la gloria che gli spetta. Allora non può che mandarlo a quel paese.

O anche Chiesa che non crede a quello che ha appena visto, quando il suo tiro di sinistro da posizione angolata, finisce docile tra le mani del portiere. Al termine di un’azione perfettamente Chiesa, un primo controllo sbagliato di metri, da cui ha recuperato con un dribbling improvviso, proseguito con un tiro troppo ambizioso. Un giocatore che non fa altro che mettersi in situazioni sbagliate per poi uscirne dando fondo alle sue possibilità tecniche e atletiche.

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Quando protesta - con l’arbitro, con un avversario, con un compagno, con sé stesso, con l’ingiustizia del mondo - la sua mimica assume i caratteri eccessivi che le persone all'estero attribuiscono agli italiani con ironia caricaturale. E forse è anche per questo non ci piace, o che almeno fino a ieri non ci convinceva del tutto: perché è uno specchio di come siamo, e soprattutto di come viviamo il calcio. La faccia sconvolta di Chiesa pare aver assorbito il nostro modo estremo e serissimo di viverlo. La nostra mancanza di leggerezza, il nostro nervosismo, come i corpi dei dipinti espressionisti di Egon Schiele comunicavano la repressione morale della Vienna di fine ‘800.

Non è però solo una questione di espressività, ma di stile di gioco. Chiesa, come anche altri talenti italiani - Barella, Zaniolo, Insigne - sembra sentire la responsabilità di dimostrare il proprio talento a ogni palla che tocca. È raro che si conceda passaggi interlocutori; attraverso ogni giocata, invece, il tentativo di salvare il mondo con qualcosa di decisivo: un dribbling, un tiro, una palla sbucciata che in mezzo alla ruota del caos può tornare utile. Le sue partite sono infarcite di uno contro uno, di scontri fisici con i difensori ingaggiati col coltello tra i denti, e da cui è disposto a uscire usando tutti i mezzi e i trucchi a suo disposizione.

Ama il contatto fisico, non si fa problemi a chiamare falli continui, a manipolare il regolamento a suo vantaggio. Per questo in Italia si è guadagnato la fama di simulatore. Siamo un paese che esalta la furbizia in modo religioso, ma che è capace anche di usarla come stigma morale se per qualche ragione passi per antipatico (le ragioni: l'hype che lo circonda da quando è ragazzo, il passaggio alla Juventus dai rivali della Fiorentina, un allenatore che voleva crocifiggerlo, altro?). Nel 2019 Daniele Manusia si chiedeva Perché non ci godiamo il talento di Chiesa, e la risposta forse stava in un atteggiamento troppo moraleggiante verso i giovani italiani.

Ma Chiesa siamo noi, o per lo meno è il frutto perfetto del nostro modo ansioso di vivere il calcio, e anche del nostro amore per l’escamotage. È così strano che non lo riusciamo a riconoscere. E non sto dicendo che Chiesa sia un giocatore scorretto, ma che è uno a cui piace giocare sul limite dei contatti, dei regolamenti, delle possibilità che il suo talento potrebbe o non potrebbe permettergli. Il suo gioco è inscindibile dalla dimensione emotiva con cui vive le partite, e che lo porta a gioca sempre su un filo sottile tenuto in piede dall’adrenalina.

Questo stile è anche ciò che lo rende così generoso in campo, che lo porta a non risparmiarsi su nessuno scatto in pressing, se c’è da fare un ripiegamento difensivo o scattare dietro la difesa avversaria, in uno di quei movimenti in profondità di cui l’Italia, a volte, sembra avere un bisogno enorme. Guardate appena entrato contro l’Austria qual è stata la prima cosa che ha fatto.

In questo senso Chiesa è la massima espressione delle contraddizioni di questa Nazionale italiana: una squadra che ambisce a controllare le partite ordinandole col pallone, ma che al contempo è ricca di giocatori caotici e precipitosi, che resistono poco a seguire il proprio istinto. Se Berardi, per esempio, ha giocato più di Chiesa finora, è anche perché assicura un minimo di controllo in più nel palleggio. Si muove di più nel mezzo spazio, gioca meglio spalle alla porta, è un tantino meno burrascoso nelle scelte.

Poter poi schierare la volontà di potenza di Chiesa a partita in corso, contro sistemi difensivi più disordinati, potrebbe essere un’arma a cui non rinunciare. Ormai però Chiesa è entrato nel filone delle invocazioni popolari dell’Italia, da Cassano a Baggio, e Mancini dovrà davvero fare un atto di coraggio per lasciarlo in panchina contro il Belgio dal primo minuto.

Chiesa è reduce da un anno in cui il suo desiderio sfrenato di essere decisivo ha coinciso per una volta con la capacità di riuscirci. Ha segnato 12 gol stagionali, quasi tutti importanti, e servito 8 assist. Pare aver raggiunto una maturità diversa, un modo per rimanere più lucido e di prendere solo i lati positivi della sua elettricità. Lo ha detto anche dopo la partita, che quando gli è arrivata la palla di Spinazzola ha pensato per un attimo a tirare al volo per spaccare la porta (non si sa bene come, di faccia?), ma che è stato bravo a "rimanere calmo". Una dichiarazione che racconta il conflitto interiore che vive Chiesa durante le partite, la fatica che fa a gestire le sue energie in eccesso.

Dopo il gol la faccia di Chiesa, per paradosso, è rimasta impassibile. C’è una foto in cui altri esseri umani lo abbracciano e le loro facce sono trasfigurate dalla gioia. Quella di Chiesa invece è imbalsamata, è il busto di cera di Chiesa.

Una volta fatto gol Chiesa ha indicato a terra un punto del prato, e ci è scivolato sopra spalancando le braccia e lasciando che lo sguardo si perdesse in un punto imprecisato del cielo. Forse si sente veramente baciato dal Signore, ma chi siamo noi per fargli credere il contrario?

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