Che senso ha vedere una serie tv sulle MMA, uno sport che fatica a fare breccia nel grande pubblico italiano e che molti considerano respingente? Perché guardare una finzione televisiva di una cosa che ci attira (o respinge) soprattutto per la sua autenticità?
Dato che sto per trattare un argomento che rischia di non interessare a nessuno, forse neanche me stesso, proverò a fare una cosa che di solito non si fa e rispondere subito a queste domande semi-retoriche: io penso che, dato che c’è molta violenza là fuori, nel mondo reale, le MMA come messa in scena codificata ma vera e una serie tv come La Gabbia che usa della violenza finta, possano aiutarci a capire meglio cosa che c’è che non va in noi, nella nostra società teoricamente pacifica.
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Netflix ha prodotto in Francia una prima stagione di questa serie che in italiano si chiama La Gabbia - cinque episodi come cinque sono i round per gli incontri con una cintura in palio - e sorprendentemente la gente se l’è guardata e ne ha parlato bene. Per qualche giorno, è stata prima tra nella classifica dei più visti di Netflix anche in Italia. Il che sembra in linea con un trend di questi anni: le MMA stanno crescendo rapidamente anche qui, magari più lentamente che altrove ma crescono. Ho chiesto alla Federkombat i numeri dei tesserati nelle MMA: nel 2020/21 (al secondo anno di pandemia) i praticanti in Italia erano poco più di 21mila; l’anno dopo sono saliti a 29.600; la scorsa stagione, 2023/24, erano 39.960. Una crescita del 25% in due anni.
Adesso parliamo de La Gabbia, questo è il trailer che, se vi accontentate, mostra più o meno tutto quello che c’è nella prima stagione da cinque episodi.
No, non è vero, manca la parte più assurda in cui finiscono a fare combattimenti clandestini con i neonazisti.
La serie parla di Taylor (Melvin Boomer, che aveva già recitato in Reign Supreme, la serie Netflix sulla nascita dell’hip-hop in Francia), un giovane aspirante fighter con gli occhi grandi da anime giapponese e con l’aria “non pericolosa”, l’aria di uno con cui, anche nel caso in cui le cose si mettessero male, si può sempre parlare. E invece Taylor è coraggioso e ambizioso, spinto dai problemi economici della madre a sfondare nel mondo delle MMA. Quando un fighter sulla cresta dell’onda, Ibrahim Ibarra (interpretato dal rapper Bosch), entra nella sua palestra per fare il coatto, Taylor è l’unico che gli tiene testa e accetta di combatterci. Anche se Ibrahim è grosso il doppio di lui e all’inizio lo riempie di botte, come potete immaginare alla fine le cose non vanno poi così male per Taylor.
La Gabbia segue la strada tracciata da praticamente ogni film di arti marziali, o con scene di combattimenti a mani nude (per capirci: da Rocky a Super Mario Bros, mi riferisco alla scena in cui il piccolo Mario combatte contro Donkey Kong). Un protagonista outsider - in questo caso, se al pubblico non fosse chiaro, “the outsider” è il soprannome con cui Taylor viene annunciato prima dei combattimenti - che prende molte più botte di quelle dà, che incassa più di quanto sembra nei limiti dell’umano, sembra sempre sul punto di andare KO ma non ci va, cade ma si rialza, e alla fine contro tutto e tutti ce la fa.
Nessuno crede in Taylor, finché improvvisamente tutti credono in Taylor. Agli occhi dello spettatore è sempre uguale, ma il suo allenatore passa dal non farlo neanche allenare con quelli bravi ad andarlo a prendere in macchina sotto casa (una Porsche: non sapevo ci fossero tutti questi soldi nelle palestre di arti marziali) come se esistesse solo lui. Nel giro di un mese Taylor si allena con George Saint-Pierre e Jon Jones, entrambi terribili attori ma due dei tre o quattro potenziali GOAT delle MMA moderne. Di più, GSP e Jon Jones prendono a cuore la sua causa, lo allenano in privato e quando Taylor pensa di mollare lo convincono a continuare. Perché? Evidentemente hanno visto in Taylor qualcosa che noi proprio non vediamo.
Alla serie partecipano anche Cyril Gane, attuale numero 2 nel ranking dei pesi massimi UFC, e altri combattenti francesi più o meno conosciuti - Abdoul Abdouraguimov, Anissa Meksen, Morgan Charrière. Insomma, la serie fa di tutto per legittimarsi agli occhi del pubblico smart. Si vede che chi ci ha lavorato conosce quel mondo, al netto della differenza fisica tra Taylor e i suoi avversari, francamente ridicola, i combattimenti sono più o meno verosimili (forse anche ispirati ad alcuni incontri reali: Taylor manda KO un wrestler dopo pochi secondi con una ginocchiata, proprio come ha fatto Jorge Masvidal con Ben Askren) e le tematiche di fondo molto attuali: i social-network, il rapporto con i traumi e la salute mentale dei fighter.
Tra l’altro c’è un film del 2023, italiano, che si chiama sempre La Gabbia, con Aurora Giovinazzo. La fantasia nei titoli corrisponde alla fantasie nelle trame di questo tipo di film.
Ci sono, però, parecchie cose palesemente stupide e subdolamente pericolose. Anzitutto i pregiudizi di classe secondo cui Taylor avrebbe il combattimento come unica possibilità di “farcela” nella vita, perché non ha studiato, non gli piaceva, e adesso sa a malapena scrivere. Ci sono miliardi di motivazioni per fare MMA, i soldi però non possono essere una di queste. I primi combattimenti, anche in UFC, si fanno per poche migliaia di euro/dollari. La leva “McGregor” del successo economico e mediatico funziona anche nella realtà, per carità, ma è un inganno ormai fuori tempo: McGregor è stato da poco condannato per stupro, è diventato un personaggio talmente tossico che persino la sua marca di whiskey (che ha venduto nel frattempo) ha deciso di allontanarsi da lui.
Altre cose antipatiche di poco conto. L’antagonista di Taylor, il temibilissimo Ibrahim, sembra un cattivo da fumetto che si diverte a “spezzare le gambe” ai suoi sparring partner per far crescere il suo Instagram: idea davvero, davvero, scema. D’altra parte il suo allenatore, mentre Ibrahim fa sacco, gli dice «così, cattivo», anziché chiedergli, che ne so, di allungare i colpi o di alzare la guardia.
Adesso, non che non ci siano persone genuinamente schifose in questi ambienti, anzi, ma nella realtà delle MMA essere “cattivi” non aiuta molto. È uno sport troppo tecnico, i picchiatori spesso sono quelli che subiscono le punizioni peggiori. Che i fighter siano bestie assetate di sangue è un pregiudizio che coltivano in molti e che la serie prova a sfruttare in modo cinico - e un po’ razzista, dato che Ibrahim è nero, è grosso, e i commentatori più superficiali (che in Francia sono anche i veri commentatori della UFC e delle altre promotion trasmesse sull’emittente RMC) non fanno altro che sottolineare quanto sia “muscolare”.
L’ultima cosa scema, poi chiudo questo articolo con la cosa più importante. Taylor non è solo ignorante, è anche quasi del tutto cieco sulla realtà umana che lo circonda. La madre a cui vuole tanto bene e per cui si sacrifica, è chiaramente una manipolatrice. Dalla prima scena lo guarda con odio, il suo fidanzato (che ha più o meno l’età di Taylor) è chiaramente un altro stronzo, ma Taylor non se ne accorge e nessuno intorno a lui glielo dice. Il suo migliore amico Niko, anche, è uno stronzo, e qui provano anche a dirglielo, ma non c’è niente da fare, Taylor è semplicemente troppo scemo per accorgersene.
Ma ok, essere scemi non è la cosa peggiore possibile, per una persona e per una serie. Sapete cos’è peggio? Passare sottilmente il messaggio che se qualcosa non va nella tua vita devi passarci sopra come un carrarmato. E se non lo fai sei debole. Taylor subisce un trauma a un certo punto che ha delle ripercussioni forti, dei sintomi fisici. Va dallo psicologo ma mente, perché quello gli direbbe di prendersi del tempo, ovviamente. E il suo allenatore, per “guarirlo”, lo porta a combattere alla periferia di Stoccolma, in mezzo a neonazisti con le svastiche tatuate. Cosa meglio di un bel combattimento clandestino senza arbitro né regole, col pubblico che ti afferra e tiene fermo, può farti passare la paura di combattere? Bella idea, complimenti.
Nella realtà i fighter di MMA dopo gli incontri parlano dei loro amici morti suicidi e dicono: «C’è uno stigma in questo mondo secondo cui gli uomini non possono parlare. Per piacere, se avete troppo peso sulle vostre spalle e pensate che non ci sia altra via d’uscita che non sia il suicidio, parlate con qualcuno!».
La cosa davvero offensiva del La Gabbia è che perde tutte le sfumature di dolore e sacrificio che esistono nelle vere MMA, per farne una questione di solo coraggio, di sola voglia di combattere. Non c’è niente, apparentemente, che possa fermare Taylor. E se c’è invece una cosa che le MMA insegnano è che ci sono cose, situazioni, persone, momenti, più grandi di noi. Che ci sono dei combattimenti che è giusto non fare.
In un momento in cui i problemi di salute mentale nello sport, legati alle commozioni cerebrali ma non solo, sono diventati un tema universale, proprio per quello che lo sport rappresenta - competizione, miglioramento personale, un’idea condivisa di eccellenza - uno dei principali servizi di streaming produce una serie in cui, in sostanza, dice a chissà quante migliaia di ragazzi che dipende solo da loro, che devono solo andare avanti a testa bassa. A prendere altri cazzotti.