“Quel metro di neve sulle Lepontine Retiche, affrontato con una bicicletta al posto della slitta, vale quanto l'alpinismo estremo senza bombole d'ossigeno tra le inviolate vette del Pamir”.
(Offlaga Disco Pax, Tulipani)
Vincenzo Torriani passeggia nervosamente. Fra le labbra, di lato, stringe l’ennesima sigaretta della sua vita, certamente non l’ultima. La neve scende già da qualche ora, dalle primissime luci dell’alba. Ma non si può rinunciare al Gavia. L’ha inventata lui, quella montagna. L’occhio era caduto sulla strada sterrata che portava in cima durante una perlustrazione aerea effettuata con i giornalisti. Sorvolando la Valcamonica, il patron del Giro d’Italia aveva avuto il lampo di genio. E così, il 7 giugno 1960, aveva consegnato alla storia del ciclismo una salita dal sapore eroico, una mulattiera prestata per l’occasione alla carovana rosa. Quella mattina, sulla strada, regnavano neve, fango, detriti. Torriani valutò a lungo se cancellare o meno la tappa ma il lavoro degli alpini fu decisivo. Il protagonista fu il ventitreenne Imerio Massignan, partito come un pazzo sulla discesa del Tonale, fino a raggiungere van Looy. Nei diciassette chilometri di ascesa, con pendenze che toccano il 16%, scollinò per primo, fermato prima del traguardo soltanto da tre forature e da Charly Gaul, il lussemburghese che volava in salita e, per una volta, riuscì ad aggiudicarsi la vittoria con un assolo in discesa verso Santa Caterina Valfurva. Con il tubolare sgonfio e il morale sotto i tacchi, l’atleta della Legnano era stato il vincitore morale di una frazione destinata a sparire dalle mappe del giro per altri 28 anni.
È il 5 giugno del 1988, e Vincenzo Torriani deve affrontare gli stessi dubbi del 1960. Il giorno precedente, a Chiesa in Valmalenco, ha trionfato lo svizzero Rominger, con un’azione solitaria approvata silenziosamente dalla maglia rosa di quel Giro, Franco Coppino Chioccioli, ribattezzato così per la somiglianza con il Campionissimo Fausto Coppi. Secondo Curzio Maltese, inviato sulle strade in rosa per La Stampa, si era trattato di una sorta di «sciopero non annunciato […] e una tappetta di riposo dalle fatiche di Selvino, o meglio di allenamento al Gavia. Dalla vigilia del Giro, quella di oggi è la tappa più temuta. I dieci chilometri in salita alla pendenza media del 10,50%, con picchi del 18, rappresentano il sesto grado della corsa rosa. Lo sterrato di quattro chilometri disegna un tuffo nel passato epico, alla ricerca di un ciclismo perduto». Parole sinistramente profetiche. Sul Gavia sta per andare in scena un macabro ritorno al ciclismo dei pionieri. Torriani ci pensa e alla fine decide che sì, si può correre. Dopo una riunione fiume con i direttori sportivi, dà l’annuncio alle 9.45. La Chiesa in Valmalenco-Bormio, quattordicesima tappa del Giro d’Italia 1988, non subirà modifiche al percorso.
Le immagini della tappa trasmesse in diretta dalla Rai. I mezzi della tv di stato non furono in grado di fornire live l’azione di van der Velde sul Gavia a causa del maltempo, riuscendo a entrare in diretta soltanto nella discesa. Verso la fine del quarantesimo minuto di questo video, l’arrivo di Chioccioli a Bormio dopo lo svenimento. Il filmato relativo all’ascesa del Gavia parte a 1:01:54. Il fondo dello sterrato ridotto a fanghiglia, la neve che ricopre i ciclisti. Scene che sembrano provenire dalla preistoria del ciclismo.
Alla partenza da Chiesa in Valmalenco, Chioccioli è in maglia rosa con 33 secondi di vantaggio su Zimmerman, 55 su Visentini, che un anno prima si era visto soffiare la possibilità di vincere il secondo Giro d’Italia consecutivo dal tradimento del suo compagno di squadra Stephan Roche e che anche stavolta ha ingaggiato una guerra con un suo sodale alla Carrera (Zimmerman), quindi 1’10” su Giupponi, 1’18” su Hampsten, 1’26” su Bernard e 1’45” su Breukink. Coppino è il leader della Del Tongo, ha preso la maglia nella tappa di Selvino e non intende mollarla ora che la strada torna a salire, proprio lì dove può dare il meglio. Ma i direttori sportivi sottovalutano clamorosamente le condizioni climatiche. Si parte con l’equipaggiamento estivo, tipico di una giornata di giugno. Soltanto una squadra capisce che il Gavia può diventare un inferno. Mike Neel, d.s. della 7 Eleven, ha appena fatto una cosa di una banalità infinita, talmente banale da risultare decisiva. Ha telefonato al ristorante posto nei pressi della cima del Gavia, chiedendo le condizioni atmosferiche: nevica, nevica forte.
Quindi chiama a raccolta i suoi ragazzi. Vuole vincere il Giro, lo statunitense Andy Hampsten è ben messo in classifica, e questa è l’occasione che aspettava. Gianni Motta, trionfatore della corsa rosa nel 1966, la sera precedente ha preso da parte l’americano. «Andy, è lassù che si vince il Giro». Hampsten non lo prende in parola fino in fondo ma è in ballo come e più degli altri. Per la colazione del mattino trova sul piatto, così come i suoi compagni, una bistecca gigantesca. «Le condizioni erano terribili» ha raccontato a distanza di anni in una lunga intervista al portale viatoribus.com «ma il freddo e la tormenta c’erano per tutti. Insieme al gelo, la causa di molti sconfitti è stata la disorganizzazione. Tutti sapevamo cosa ci attendeva in vetta e nel mio caso è stata determinante la strategia di squadra e una serie di misure preventive che si sono rivelate poi decisive. Noi della 7 Eleven-Hoonved avevamo grasso di lanolina su tutto il corpo, a colazione abbiamo mangiato una grande bistecca, poco utile nelle prime tre ore di gara ma fondamentale nella parte finale».
Neel piazza su tutto il tragitto alcuni suoi uomini, un ruolo chiave lo riveste Jim Ochowicz, general manager del team, che a 1500 metri dallo scollinamento del Gavia è pronto a fornire ai ciclisti un passamontagna, dei guanti in gore-tex, una giacca impermeabile e un copri scarpe, materiale comprato a valle per l’occasione speciale. «Ero partito – prosegue Hampsten – con cappello di lana e manicotto per coprire collo, bocca e naso». La corsa si infiamma (per modo di dire, visto il clima) sul Gavia, già dai primissimi tornanti i ciclisti iniziano ad accusare il freddo. La strada è praticabile ma la neve scende senza sosta, si deposita sugli atleti impegnati nell’ascesa. E poi c’è un folle, vestito di ciclamino, che lascia tutti sul posto.
“Ci arrivò da stoccafisso a Bormio, l’olandese van der Velde”
Nella storia del ciclismo olandese, Peter Post fu ciò che Rinus Michels rappresentò nel calcio. La sua concezione di squadra ribaltò i punti di vista tradizionali: niente più formazioni piramidali, con un capitano e tanti gregari al suo servizio. Dopo una carriera scintillante da pistard, che gli valse il soprannome di Keizer van de Zesdaagse (L’imperatore delle sei giorni), nel 1974 riceve le redini della TI-Raleigh, rendendola in breve tempo una delle formazioni più vincenti a livello europeo. Raymond Kerkhoffs, responsabile delle pagine ciclistiche del Telegraaf, è stato tra i primi a motivare il paragone tra Post e Michels. «Post applicò al ciclismo quello che aveva visto fare a Michels nell’Ajax. La visione della TI-Raleigh era quella del “ciclismo totale”. Fu il primo a farlo, e il migliore. Nessun altro team ha mai raggiunto così tanti successi».
Con questo assetto trasversale, in cui tutti si mettono al servizio dell’uomo più in forma, emerge una generazione di fuoriclasse: Zoetemelk, Raas, Knetemann, Winnen, Lubberding, Kuiper. Nel 1978, l’ultima scommessa si chiama Johan van der Velde, talento scapestrato nato a Rijsberg, come Vincent van Gogh. Al primo anno nella TI-Raleigh si aggiudica il Romandia e il Delfinato, nel 1980 è miglior giovane in un’edizione del Tour de France dominata dal compagno di squadra Zoetemelk, con undici vittorie di tappa ad appannaggio della squadra e la passerella finale da dominatori sotto la Torre Eiffel.
Nel 1981, van der Velde vince la Liegi-Bastogne-Liegi, ma inizia a mostrare i problemi che ne fiaccheranno la vita dopo le corse: è positivo alle anfetamine e viene squalificato. Post cerca di inquadrarlo, vuole che sia lui il nuovo faro della squadra, ma Johan è un’anima inquieta, incapace di rispettare i rigidi dettami imposti dallo sport ad altissimi livelli. Le strade tra i due si dividono nel 1984, per poi incrociarsi nuovamente nel 1986, alla Panasonic: «Ho sempre trattato Johan come il figlio che non ho mai avuto», dichiara Post.
In un anno, van der Velde torna a brillare: festeggia il successo alla Freccia del Brabante e si aggiudica una tappa al Giro e al Tour. Valdemaro Bartolozzi lo convince a firmare per la Gis e nel 1987 si impone due volte nella corsa rosa: a Sappada, teatro del già citato tradimento di Roche ai danni di Visentini, e il giorno successivo, a Canazei. Johan è stregato dal Giro e nel 1988 decide di puntare alla maglia ciclamino, quella della classifica a punti. Nella tappa del Gavia, van der Velde è reduce da due giorni di sostanziale riposo: per avere libertà d’azione, ha scientemente accumulato minuti su minuti di ritardo. E parte come un pazzo all’altezza di Lagonero, più o meno a metà della scalata, ignorando tutto e tutti. Vuole la tappa e stacca gli uomini di classifica in una salita che ha già assunto i contorni di un inferno innevato. Ha addirittura gettato via la giacchetta impermeabile ai piedi della salita. «Ho pensato che nessuno mi avrebbe ripreso. Non potevo perdere quella tappa, ma la natura fu più forte di me». Visentini e Saronni sono in crisi nera. Johan passa da solo in cima al Gavia, gli organizzatori capiscono che la discesa può rivelarsi peggiore della salita. Decidono di interrompere la corsa e provano a fermarlo. Ma arginare van der Velde è impossibile. Si fa strada tra la folla e imbocca la discesa. Il tentativo di bloccare la quattordicesima tappa del Giro d’Italia 1988 termina prima di iniziare, con l’olandese che scende a mille verso Bormio. Mentre alle sue spalle gli uomini della 7 Eleven e il suo connazionale Breukink si scaldano lungo il tragitto, tra abiti protettivi e thermos di tè bollente, van der Velde non ha preso la minima precauzione.
Marco Andreola, fotografo appostato in cima al Gavia, ripercorre il dramma dell’olandese: «Quelli non erano ciclisti ma fantasmi bianchi congelati in un teatro surreale, dove si susseguivano scene di disperazione e pianti. Il primo a transitare sul passo fu l’olandese van der Velde: si succhiava le mani congelate, aveva lo sguardo assente e i processi mentali più elementari irretiti dal freddo. È passato senza fermarsi e senza coprirsi, la morsa del gelo lo ha strappato via dalla corsa. Ha trovato un po’ di conforto al secondo rifugio, incapace di risalire in sella». La discesa di Johan dura poche curve, giusto il tempo di realizzare che fermarsi potrebbe salvargli la vita. Ha un principio di assideramento e lascia che a prevalere sia l’istinto di conservazione. Arriva al traguardo con 46 minuti e 49 secondi di ritardo dal vincitore. Il suo folle tentativo di impresa è stato messo in musica dagli Offlaga Disco Pax, che nella canzoneTulipani raccontano proprio l’epopea del Gavia. Tulipani, al plurale. Perché al traguardo di Bormio fu un altro olandese a trionfare.
I 9’13” di “Pinkbloid”, rubrica curata da Maurizio Vallone, con immagini inedite dal Gavia e le accuse dei ciclisti a fine tappa.
I vincitori: Breukink e Hampsten
La Del Tongo cerca di fare una timidissima andatura a inizio Gavia, provando a proteggere la maglia rosa di Chioccioli. È una velleità che dura pochissimo, perché Hampsten si mette in testa al gruppo e detta il ritmo. Zimmerman fatica a reggere, anche se ormai è lui l’uomo di classifica della Carrera: Visentini è sprofondato da diversi chilometri. Delgado e Chioccioli arrancano, Andy capisce che può piazzare l’allungo della vita. «Mi sono detto: “Ehi Andy, oggi puoi combinare qualcosa di grande”. Il patto col mio direttore sportivo e con i miei compagni era chiaro: questo è un gioco, poco divertente, ma è sempre un gioco. E allora, giochiamo bene. Guadagno un po’ di vantaggio sul gruppo dei più forti e comincio a recuperare sul gruppetto sgranato che aveva provato una fuga capitanata da van der Velde. Spingo sui pedali ma sono al 90% delle mie possibilità, senza sapere e immaginare quale fosse il mio limite». Hampsten vede la figura di van der Velde, una sagoma totalmente fuori dal contesto in cui si trova: sale in maniche corte in mezzo alla tormenta. Non ha la minima intenzione di andare a riprenderlo. Lo statunitense si mantiene lucido nel delirio collettivo, sta combattendo una battaglia ben diversa dalla singola tappa del Giro.
«La mente si allontana dal contesto logico della gara e delle tattiche, degli avversari e dei distacchi, e comincia a esplorare l’anima di un uomo che sta cercando il suo limite in condizioni ambientali estreme. Potrebbe finire tutto qui, io sono arbitro di me stesso e posso decidere di fermarmi in qualsiasi momento. Ci sarebbero mille motivi per mettere il piede a terra senza essere rimproverato da nessuno, ma questo significherebbe fuggire, arrendersi prima di essere arrivato in fondo». In quel momento, vincere il Giro d’Italia è l’ultimo dei pensieri di Hampsten. «Mi passo la mano in testa per asciugare il sudore e avverto una goccia che mi taglia la schiena, come una lama ghiacciata. Non mi ero reso conto di avere uno strato di neve in testa e sulle spalle. Il freddo comincia a fare male. Ricordo benissimo i tifosi come impazziti, non era fanatismo ma incredibile partecipazione spinta da un entusiasmo incontenibile, che esprimeva la gioia di vederci passare dopo ore di insopportabile attesa gelata. Capivo poco l’italiano ma c’era un’energia fortissima negli occhi e nella voce di quella gente semicongelata che identifica il ciclismo con la capacità di elaborare la sofferenza».
A braccare Hampsten c’è l’altro tulipano, Erik Breukink. Scollinano a un minuto da van der Velde, e restano sotto shock quando vedono l’olandese alla ricerca di un rifugio. In discesa, Hampsten cerca di fare la differenza. Finché non butta un occhio sulle sue gambe. «Mi ripetevo che non avrei dovuto farlo, ma le guardai. Erano di un rosso acceso, con una piccola lastra di ghiaccio sulla pelle. Pensai di essere in grande pericolo, sapevo che non c’erano macchine al seguito a causa della troppa neve. Il direttore del Giro era già pronto a valle, incrociai soltanto un meccanico della Carrera che camminava nel bel mezzo della strada, imprecando e urlando perché era rimasto da solo: nessuno gli aveva detto che la gara non era stata cancellata, quando mi vide iniziò a dare di matto». Quando si vede ripreso da Breukink, Hampsten si mette a debita distanza. Non vuole rischiare di cadere, rimanere nella scia dell’olandese sarebbe un rischio in caso di errore di traiettoria. «Bormio era lontanissima, forse irraggiungibile. La gara ricomincia per me solo dopo Santa Caterina Valfurva. Corpo e mente tornano a una temperatura accettabile ma le energie sono al lumicino. Vedo Breukink davanti a me, solo sette secondi avanti.
Quel distacco rimarrà invariato fino a Bormio. Assolutamente impossibile cercare di recuperare persino un secondo. Una volta capito il mio limite, non mi interessa più arrivarci». Breukink procede spedito verso il traguardo di tappa. Il suo ricordo è differente da quello di Hampsten: squadre diverse, preparazioni diverse. «Non sapevamo cosa avremmo trovato in cima al Gavia. A inizio tappa stava piovendo, soltanto a metà della salita iniziammo a vedere la neve. Se avessimo saputo tutto, forse avremmo provato a cancellare la tappa. Dovevamo continuare, anche se a un certo punto è diventata durissima. Avevo diversi vestiti per proteggermi, degli scaldabraccia. In cima cercai di mettere l’impermeabile ma senza riuscirci, avevo le dita gelate». A differenza di altri, Breukink non si ferma in cima al Gavia. Qualcuno commette l’errore di versare del tè caldo sulle dita, provocando un sollievo iniziale e una sofferenza immane nel giro di qualche secondo. «Lassù era tutto bianco. Johan era passato per primo ma si fermò, cercando di scaldarsi e di mettere qualche vestito in più: fu un errore. In carriera ho corso spesso in situazioni di maltempo, ma mai su una montagna a 2.600 metri di altezza. Non ho mai sentito così tanto freddo nella mia vita. Continuavo a tremare anche dopo un’ora e mezza dall’arrivo. Mi ripresi soltanto dopo una doccia calda e un piatto di spaghetti».
L’estratto dalla lunga diretta dalla Rai, con le interviste ai protagonisti. Hampsten e Breukink, tramortiti dal freddo, faticano a rispondere alle domande di Giorgio Martino. Sfilano anche le immagini degli altri ciclisti che arrivano al traguardo riuscendo a malapena a rimanere in piedi.
Lo sconfitto: Franco Chioccioli
Breukink festeggia la vittoria della tappa, Hampsten la possibilità di vestire la maglia rosa: la porterà fino all’ultimo traguardo del Giro d’Italia 1988, la cronometro di Vittorio Veneto. Sarà il primo non europeo ad aggiudicarsi il Giro, nonché l’unico statunitense. Sul podio finale ci sarà spazio anche per van der Velde, capace di mantenere la maglia ciclamino nonostante la disavventura del Gavia. Ma sul traguardo di Bormio, tra i ciclisti in condizioni devastanti, c’è anche chi sentiva di poter vincere la corsa rosa. Franco Chioccioli sviene all’arrivo, si rimette faticosamente in piedi, capisce di aver perso l’occasione di una vita. Ha chiuso a 5’04” da Breukink (nulla rispetto a Visentini, arrivato dopo 30’54”, o Saronni, a 31’30”) e ha perso la maglia rosa. Nelle prime ore post-tappa, c’è una frase ricorrente nelle sue dichiarazioni: «Mi hanno rubato il Giro». Fatica a farsene una ragione e quando entra nel dettaglio è durissimo. «Ho chiesto quattro o cinque volte un cappello. Ho fatto tutta la discesa con una mano sulla fronte, per proteggermi dalla neve che scendeva. Alla fine mi si era formata una visiera di ghiaccio e non riuscivo più a muovere la mano destra. La corsa doveva essere fermata in cima al Gavia. Tutto quello che è avvenuto dopo è stato frutto della passione e dell’incoscienza dei ciclisti, ma non definiamola una corsa». Il direttore sportivo della Del Tongo, Pietro Algeri, è lapidario: «I magri come Chioccioli hanno perso anche l’anima».
Raccoglie la solidarietà dei francesi: da Madiot, anch’egli svenuto all’arrivo, a Bernard, prima maglia rosa di quel Giro dopo la cronometro individuale di Urbino. Il transalpino, al traguardo, butta giù come se nulla fosse cinque caffè roventi. Quando vede una bottiglia di whisky, ci si fionda e si attacca, pur di riscaldarsi dopo la tormenta di neve. Il suo bersaglio polemico è Torriani: «Oggi ci hanno fatto pagare dieci Giri facili disegnati per far vincere Moser. Se ci fosse stato Francesco, in questa tappa non saremmo nemmeno partiti». Ai microfoni di Telecapodistria, Visentini è ancora più duro: l’ormai ex capitano della Carrera spara a zero contro il patron del Giro, che non avrebbe interrotto la corsa pur di non perdere i 100 milioni di lire legati al traguardo di Bormio. Ma nessuno ha perso quanto Chioccioli, che ha visto sfumare il sogno di una vita. «Quella tappa non si doveva fare.
Fu una gara di sopravvivenza, c’era una bufera di neve. La cosa peggiore non fu il Gavia ma scendere verso Santa Cristina e poi a Bormio. Dopo la fatica del Gavia, scendere a Santa Cristina su una strada di due metri, con un freddo che non auguro a nessuno, fu difficilissimo. In quel momento, se qualcuno mi avesse detto “Oggi hai fatto la storia” e mi avesse preso da una parte, dandomi quella fiducia che mi ci voleva, forse avrei potuto comunque vincere il Giro nonostante quella tappa. Ma fu una sconfitta dopo un'altra, nessuno si preoccupò di come stessi. Arrivai quinto ma finito il Giro mi servirono due anni per recuperare tutto quello che avevo perso quel giorno. Fu una giornata brutta dall'inizio, mi ricordo solo che in cima passai con Giovannetti e dietro c'era solo la sua macchina, che mi passò un cappellino come unica protezione. Non ci furono motivazioni ufficiali per la mancata interruzione di quella tappa: da tanti anni non si arrivava a Bormio, forse si doveva arrivare per forza. Sicuramente è diventata una tappa storica». Alle porte c’è un’altra salita da tregenda, con lo Stelvio innevato, Cima Coppi designata di quel Giro. Stavolta i corridori si imputano, dicono no a Torriani e la frazione viene accorciata prima della partenza.
A Chioccioli sarebbero serviti tre anni per vincere il suo primo e unico Giro d’Italia, impresa centrata nell’edizione 1991. «Dovetti riorganizzare la mia vita, mi hanno ritirato su alcune persone fondamentali per la mia vita privata, fisicamente e moralmente. Un atleta da solo non può prendere tante decisioni, serve un amico, un aiuto, qualcuno con cui parlare. Il Giro del 1991 partiva dalla Sardegna e io non ero andato lì per vincere, i favoriti erano Bugno e Chiappucci. Nella testa, però, ero concentrato sulla vittoria. Mi serviva per prendere fiducia in me stesso. Arrivai addirittura terzo in volata a Olbia».
Problemi ben diversi da quelli affrontati da Johan van der Velde, strangolato dal vizio del gioco d’azzardo e dalla passione insana e smodata per le anfetamine. Ritiratosi nel 1990, a due anni dalla follia del Gavia, ha toccato con mano la profondità della sua disperazione quando è stato colto in flagrante durante una rapina in un ufficio postale, insieme al fratello Theo. Uscito dal carcere, Johan ha dovuto vendere praticamente tutto: la villa che aveva acquistato con la moglie Josée e parte dei suoi trofei. Ha partecipato all’edizione olandese del Grande Fratello Vip nel 1999 e poi si è trincerato nella religione. Il mondo del ciclismo gli ha riaperto le porte con una collaborazione nel team di pubbliche relazioni della Quick-Step, poi ha preso parte al lancio del Roompot Orange Cycling Team nel 2015.
Oggi ha il compito di aiutare i ciclisti nei trasferimenti: è il buschauffeur della squadra, l’autista del pullman. «Tutto quello che ho passato mi ha reso una persona migliore, mi ha rimesso a terra con entrambi i piedi». Nello staff dirigenziale del Roompot c’è anche l’altro tulipano, Erik Breukink, che ha lavorato a lungo nella Rabobank dopo il ritiro. «Quella vittoria fu speciale. Nel Tour de France del 1990 vinsi due tappe e arrivai terzo, ma quel pomeriggio scalando il Gavia in quelle condizioni fu incredibile. Ogni volta che viene inserito nel percorso del Giro, alla gente piace tornare con la mente a quel giorno. Nel ciclismo moderno, se vedono della neve in cima alla salita, si fermano: è giusto, è troppo pericoloso. Ma quando riesci a vincere in quelle condizioni, è qualcosa di unico». Andy Hampsten ha l’Italia nel cuore e si divide tra Boulder e Castagneto Carducci: dal 1998 organizza tour in bicicletta svariando dal nord al sud ma concentrandosi in modo particolare sulla Toscana, sua terra adottiva. A fine agosto ha in calendario unretake di quel Giro d’Italia che gli ha dato la gloria. Il suo portale ha un nome che è tutto un programma: cinghiale.com.
Sono passati trent’anni da quella tappa assurda, crudele, terrificante, leggendaria, immortale. E forse, nella sua lucida pazzia, ha ragione van der Velde, quando ci ripensa e fa il punto, noncurante del fatto di essere passato alla storia come il folle che ha rischiato di morire congelato per tenersi addosso una maglia ciclamino. «Trovo ancora un peccato il fatto di non aver vinto la tappa, ma rimane l’eroismo di quella giornata. Ovunque mi trovi, sono sempre ricordato per il Gavia. Qualsiasi conferenza, qualsiasi intervista, finisce per riportarmi lì. Al Giro, alla maglia ciclamino, alla salita in mezzo alla neve. Non ho vinto, è vero. Ma ciò che ho fatto è rimasto».