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La leggenda di Massimo Testa
10 nov 2016
Abbiamo intervistato il presidente del Tor di Quinto, uno dei settori giovanili migliori d’Italia.
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Qualche settimana fa ho intervistato Massimo Testa, presidente del U.S.D. Tor di Quinto, per un articolo uscito su “la Repubblica” di lunedì 24 ottobre. L’intervista è andata per lunghe e molto è rimasto fuori da quanto pubblicato. La sua è una storia interessante e mi sembrava un peccato non venisse letta per come me l’ha raccontata lui. Questa è la versione integrale.

Alcune informazioni necessarie prima di leggere. Il Tor di Quinto è una delle squadre più importanti del panorama romano e laziale, la prima squadra che gioca in Promozione ma è conosciuta soprattutto per il suo settore giovanile. Nella sua storia ha vinto 5 titoli nazionali Juniores, oltre venti tra regionali e provinciali, e ogni anno cede giocatori alle società professionistiche: l’esempio più illustre è Marco Materazzi, un esempio più recente è Luca Antei.

Il Tor di Quinto è stato fondato nel 1946 da Vittorio Testa con l’aiuto di Palmiro Togliatti e del Partito Comunista. A Vittorio Testa è succeduto il figlio Massimo, e qualche tempo fa Massimo aveva abdicato al figlio Paolo. Alla scomparsa prematura di Paolo quattro anni fa, Massimo Testa ha ripreso le redini del Tor di Quinto. Ogni giorno siede alla sua scrivania ingombra di carte societarie, con un mazzo di napoletane e il telefono a portata di mano, tra le fotografie che lo ritraggono in compagnia di Arafat e Fidel Castro e una bandiera rossa appesa al muro.

A settantadue anni, Testa è una di quelle figure tipicamente romane al confine con la leggenda metropolitana, contraddittorio e elusivo, al di là del bene e del male nel senso che è impossibile farsene un’idea precisa mettendo insieme le cose che si dicono di lui. Né parlandoci in prima persona, se è per questo.

Diciamo che quest’intervista può piacere a chi ama i personaggi forti, oltre a chi, come me, è cresciuto sentendo storie con Massimo Testa come protagonista. Per comodità del lettore è divisa in quattro parti. Sentitevi liberi di leggerle in ordine sparso.

Prima parte. La storia incredibile di Massimo Testa.

Mi interessava la sua storia, oltre a quella del Tor di Quinto.

Io non sono uno speciale, io sono un uomo normale. È che la vita mi ha fatto trovare di fronte ad un sacco di cose particolari, ma mica le ho cercate. Non sono neanche ambizioso, non ho mai cercato niente…

Quanti anni aveva quando è diventato presidente del Tor di Quinto?

Quarantanove. Da quando è morto mio padre, dal 1994. Ma c’è stato anche mio figlio, che è morto a 42 anni. Mi aveva già sostituito, già era diventato la persona più importante del Tor di Quinto. Anche perché aveva capacità tecniche, come mio padre, cosa che io non avevo. Io non sono mai stato né un grande allenatore, né un grande giocatore.

Suo padre aveva giocato nella Lazio?

Sì. Io ho giocato anche con la Roma, ma non ho mai avuto una carriera… perché avevo un caratteraccio. Poi il calcio è una cosa strana. Io non ho ci ho mai puntato, non avevo nemmeno questa grande passione.

A che livello è arrivato a giocare?

Alle riserve, campionato De Martino. Io penso che non mi hanno fatto giocare per motivi politici. Tutta la mia squadra ha giocato in Serie A, tranne me. Non penso perché ero più scarso, penso perché ero più rompipalle. E poi ero uno scomodo. In quell’epoca, nella Roma di Evangelisti e Andreotti, ero un comunista militante, e penso che gli dava un po’ fastidio. Ma io sono stato bene uguale. Sono simpatizzante, tanto, voglio bene alla Roma.

Poi ha finito di giocare nel Tor di Quinto.

No, ho finito di giocare nel Banco Roma, quando siamo andati in C, e poi sono venuto al Tor di Quinto perché avevo promesso a mio padre che gli ultimi due anni l’avrei fatti qui. Ho giocato anche al Sora, poi a Castellammare…

Quindi ha fatto una piccola carriera?

Una carriera da “scarparo". Menavo tanto, ma tecnicamente non mi sono mai dato un voto. Non mi piace parlare di me, per quanto riguarda il pallone. Non sono stato un buon esempio: litigavo, ero uno cattivo. Di esempi cattivi ce ne stanno tanti, se uno ne può fare a meno… Parlo malvolentieri di me come giocatore. Poi è uno sport che non mi piace.

Non le piace?

No, non mi piace. Mi piace il pugilato, il rugby, non il calcio.

Non le piace il gioco o l’ambiente che lo circonda?

Aggrega bassa cultura, aggrega figure che io combatto socialmente. Perché i procuratori sono i sensali, quelli che sceglievano chi portavano a lavorare.

Prima ha detto che lei non ha doti tecniche. Invece suo figlio Paolo ne aveva eccome (in 11 anni di carriera da allenatore, Paolo testa aveva vinto 3 Scudetti nazionali e 9 titoli regionali).

Lui non avrebbe mai accettato niente, però è stato chiamato dalla Roma, dalla Lazio. Aveva delle capacità che ha solo gente che è portata. Lui poi aveva questo carattere così mite, che lo rendeva ancora più credibile. Mai aggressivo, non diceva parolacce, una persona per bene, insomma. Forse questo sport ha bisogno di persone per bene, ce ne stanno poche. Lui era una persona per bene e ha ottenuto grandi risultati.

Gestiva tutto lui?

Sì, io ormai facevo pochissimo. Tant’è che il mio problema, oltre al fatto di aver perso un figlio, era aver perso il collaboratore più stretto. Tante persone ci hanno abbandonato perché pensavano che io non ce l’avrei fatta a creare un’altra idea di Tor di Quinto, come quella di Paolo. Ma io sono una persona caparbia, un guerriero, un lottatore, ho fatto uno sforzo grosso e ho riportato tutto quanto come prima.

Perché ricominciare? A quel punto poteva benissimo ritirarsi, chi glielo ha fatto fare?

Io penso questa predisposizione a stare in mezzo alla gente.

Devo confessarle che quando ho chiesto a Repubblica di fare questa intervista mi hanno messo in guardia dicendo che lei è una figura delicata. E mi sembra di capire che lei è consapevole di essere una figura divisiva.

Sono delicato perché dico quello che voglio e bisogna scrivere quello che dico.

Però ha anche molti nemici.

Tre quarti delle persone che mi conoscono sono dei nemici. Il mio limite è stato quello di non aver mai chiesto niente, per cui non mi puoi abbinare a nessuno.

Una delle storie che gira su di lei…

…è che menavo gli arbitri.

Eh. È vero?

Sì, ma c’era un motivo. Che poi è stato chiarito con la Federazione.

Qual era?

La vigilia della finale del campionato del 1990 c’era la festa degli arbitri a Via Appia. Durante la festa un responsabile degli arbitri, il designatore regionale, girava per i tavoli salutando tutti, e dice a un arbitro: “Arbitri tu domani il Tor di Quinto? Mi raccomando fagli un culo così a quei comunisti”. E fanno passare questa cosa come una battuta. In mezzo a quel tavolo c’era un compagno, un ragazzino comunista arbitro di Ostia. E a mezzanotte meno un quarto mi ha chiamato e me l’ha raccontato.

Ed effettivamente poi hanno arbitrato male?

No, aspetta, è successo un macello. Lì è cominciata la faccenda di menare agli arbitri tutte le domeniche. Io sono stato radiato, menavo tutti gli arbitri.

Tutte le domeniche?

Ma pure il sabato. Ho menato a arbitri, dirigenti, disegnatori… ho menato a tutti. Eh, ma io ero uno che menava tanto.

Però non ho capito… cosa è successo dopo la festa?

Il giorno dopo io chiamo il presidente del comitato, che capisce la gravità e cambiano l’arbitro. Però il fatto rimane, lo stato d’animo. Il giorno che andiamo al campo, arriva il nuovo arbitro, ma noi non lo sapevamo che l’avevano cambiato, e io lo prendo di petto. Quello si mette paura e se ne va, perché io l’avevo aggredito. E hanno chiamato un altro arbitro a caso a Ostia per fare la finale.

E le altre domeniche?

Arriva un arbitro contrario? Io quando usciva, botte, lo gonfiavo. Alla fine gli arbitri si rifiutarono di venire qui.

È vero che una volta ha liberato i cani da guardia chiudendo l’arbitro nello spogliatoio?

Otto cani. L’arbitro l’ho chiuso dentro lo sgabuzzino. Il padre dell’arbitro aveva un ristorante in cui faceva mangiare tutti i dirigenti federali gratis per far fare carriera al figlio. I cani lo hanno circondato. Io gli ho dato l’Unità e gli ho detto: “Tieni, imparati l’Unità, fascistone”. Ho preso a calci i dirigenti, gli arbitri davanti alla gente. Alla fine non volevano più venire e dopo due anni di grandi botte mi dicono: “Guarda è un peccato, gli arbitri non vogliono più venire, siamo costretti a levarvi dai campionati. Dobbiamo fare un patto di non belligeranza”.

E poi effettivamente ha notato che hanno cambiato arbitraggi?

Sono cambiato io. Poi gli arbitri piano piano… Adesso si allenano qui vicino, perciò, è nato un rapporto buono.

E se adesso un suo allenatore se la prendesse con un arbitro?

No, gli allenatori miei sono tutti buoni, manco le parolacce dicono.

Però come fa a dire queste cose ai dirigenti, o anche ai ragazzi, col suo passato?

Il passato mio era un atto dovuto, di difesa. Il Tor di Quinto non era una società che aveva altre difese. Noi oggi vinciamo le coppe disciplina, a tutti i livelli. Questo è un ambiente serenissimo. Qui devi vincere se sei forte, se non sei forte non è colpa di nessuno. Noi quella fase l’abbiamo superata.

Seconda parte. Il legame tra il Tor di Quinto e il Partito Comunista, tra Testa e i grandi personaggi della sua epoca.

Riguardo un’altra storia che gira su di lei, è vero invece che ha iniziato come autista del Partito Comunista?

No, io facevo parte della sicurezza. Con Berlinguer. Non ero organico, ero quello che lo guardava.

Che vuol dire organico?

Organico vuol dire che ti individuano. Io ero uno di quelli nascosti.

Ma che rapporto c’era tra il Tor di Quinto e il P.C.?

La squadra è nata col Partito, con Togliatti e mio padre Vittorio, subito dopo la guerra. Una delle poche cose che funziona a sinistra, il Tor di Quinto. È rimasta la matrice di sinistra, non è sparita mai. Adesso sono filo PD per cui…

C’entra qualcosa con il fatto che il Tor di Quinto ha avuto questo terreno?

Il Tor di Quinto ha avuto il campo Lipartiti, poi il campo Berti, poi mio padre ha venduto tutto, quando io ho smesso di giocare, per non farmi impicciare nel calcio, perché secondo lui non ero idoneo. E io quattro anni dopo, nel 1984, l’ho rifatto qui.

In che senso ha venduto tutto?

Ha venduto tutto il complesso. Abbiamo continuato solo con la prima squadra andando in giocare in un impianto in affitto. Quindi abbiamo passato quattro anni senza campo. Poi nell’84 ho fatto questo.

Perché proprio qui? Che c’era prima? (La sede del Tor di Quinto è a via del Baiardo, una strada senza uscita lunga un paio di chilometri con una decina di circoli sportivi. In una zona semi-abbandonata di Roma in cui di notte fanno i fuochi le prostitute e dove sostano le grandi produzioni circensi: andando a giocare a calcetto tra la vegetazione selvatica si possono vedere le tigri camminare nella gabbia o in lontananza le teste delle giraffe.)

Era del demanio. L’ho occupato. Sono venuto qua, ho messo un po’ di bandiere rosse e ho fatto il campo. Sessanta bandiere, con falce e martello. Non mi hanno detto niente e ventisei anni dopo mi hanno regolarizzato.

Come ha scelto quanto campo prendersi?

Io ho occupato tutto, se ne avevo di più ne occupavo di più. C’era una rete, se no occupavo tutto. E in fondo c’era un fosso e allora lì mi sono fermato. Erano cinque ettari, quattro ettari e sei.

E poi che avete fatto?

E poi abbiamo cominciato subito. L’abbiamo spianato, abbiamo fatto il campo, tutti zitti sono stati. C’era tolleranza perché era intervenuto anche il segretario, Berlinguer.

Però il partito non vi ha dato una mano economica.

No, io non ho mai preso soldi pubblici. E nemmeno il partito mi ha mai dato soldi. Solo una volta Occhetto mandò due uffizi a pagare una rata dell’affitto abusivo del terreno.

Che è un affitto abusivo?

Ci hanno segnato come “occupanti abusivi”, però ci hanno registrato. E una volta ci hanno chiesto otto milioni di lire, nel 1995. Erano gli arretrati che dovevamo dargli per pagare il canone. E Occhetto mandò due uffizi e pagò. Gli unici soldi che qualcuno ha cacciato fuori, che il Tor di Quinto non ha prodotto.

E poi dopo avete continuato a pagare?

Sempre come abusivi, fino al 2006. Nel 2006 la sinistra ha vinto le elezioni regionali e ci hanno regolarizzato. Mi hanno chiamato dicendomi: “Mettiamo a posto questa situazione”. Mi hanno fatto il canone e sono andato avanti.

E prima come pagavate?

Una tantum, con un vaglia. Eravamo abusivi buoni perché gli mandavamo i soldi ogni tanto.

Come si stabilisce l’affitto di un terreno occupato dove non c’era niente? Chi decideva quanto dovevate pagare?

Io! Quello che avevo. Avevo poco. Siamo gente abbastanza povera.

Ok. Se non le dispiace torniamo indietro a quando ha detto che il Tor di Quinto è una squadra di sinistra. In che senso?

Il calcio è politica, tutto è politica. Il calcio è sociale, la Serie A è una cosa effimera. Noi stiamo in mezzo a un guado. Noi mandiamo avanti uno sport che a livello governativo, per vari motivi, non è mai pesato. È tutto spirito di volontariato. E noi dal ’45 siamo stati bravi. Siamo bravi da 70 anni.

Ok ma che significa che il calcio è politica?

Il ragazzino deve identificarsi in qualche cosa, e io riesco ad essere credibile. Io sto a sei chilometri dal primo palazzo di Tor di Quinto, mica sto a Tre Teste o al Prenestino. È una scelta di vita questa, già in partenza: chi viene qui accetta una filosofia, chi va al campo sotto casa accetta una comodità. Noi siamo la società che ha vinto più in Italia, tra titoli regionali, Scudetti… siamo anche la società che ha mandato più giocatori in Serie A. Anche campioni del mondo, come Materazzi. Io ho giocatori all’estero, come Napoleoni, come Groppioni.

A me però interessa il rapporto con i ragazzi.

I ragazzi lo sanno che io sono comunista…

Perché entrano qui, vedono le foto, le bandiere?

No, qui non c’entrano perché questo è un museo.

Un tempo c’era una bandiera con falce e martello sul tetto, c’è ancora?

No, l’abbiamo tolta. Perché è caduto il comunismo e pensavamo fosse finita la fase storica.

Quando l’avete tolta?

Nel ’92. Un ragazzo di dodici, quattordici anni che entra dentro e ti vede con Fidel Castro potrebbe crearsi dei problemi. Io li faccio venire… Fidel Castro me lo tengo per me.

In che modo sente di veicolare un messaggio politico?

Col comportamento. Io mi ritengo una persona normalissima, quando vedo le partite non strillo. Però quando strillo o dico una cosa, io dò un ordine. Sono ancora credibile a 72 anni, cosa che nel calcio è riuscita a pochi. Nel calcio ho visto passare tutti, tutti i ricchi scemi di Roma. Si sono mangiati le fortune, le aziende, hanno messo sul lastrico le famiglie. Questo è un gioco bello se tu hai un fine bello. Ma se lo abbini a qualche altra paraculata… questo è un paese di paraculi, ce ne stanno tanti. Altrimenti non si spiega come tante persone rispettabili si siano rovinate con questo gioco. Quando si può fare benissimo tranquillamente.

Terza parte. Massimo Testa il rivoluzionario.

Era già attivo politicamente quando giocava a calcio, a vent’anni?

Io sono comunista proprio, non per scherzo. Fin da piccolo, quando avevo cinque anni. Alla prima presentazione a scuola la maestra mi ha chiesto come mi chiamavo e io ho risposto: “Massimo Testa comunista”. La maestra ha chiamato mio padre e mia madre. Mia nonna ha chiesto: ma che dice? E che dice, sente parlare solo di quello e si penserà che è il nome suo.

Suo padre ha fatto la Resistenza?

No. Mia nonna, mia madre e mia zia. Sono morti tutti, poi. Mio nonno è morto a Mauthausen, mia zia è morta a Via Guido Reni perché faceva la diffusione dell’unità clandestina a ventotto anni. La nostra è una famiglia che ha pagato. Abbiamo dato.

Suo padre come l’ha vissuta la guerra?

Mio padre era calciatore. Poi, quando hanno sospeso i campionati è entrato in aeronautica, con l’aria si è salvato. Però non era un grande combattente che aveva il piacere di rischiare. Era un giocatore.

Suo padre, però, è vissuto in un’epoca ancora pericolosa per essere comunisti.

Sì ma mio padre non è che si è messo a portare i fucili, le bombe. Si è messo a giocare con l’aria. Io mi ricordo Lazio-Bologna che aveva anche la mano tesa e salutava il Duce dalla tribuna. Perché mio padre ha giocato pure in prima squadra. Io il saluto fascista non l’avrei fatto manco se mi tagliavano un braccio.

E perché lei a cinque anni era già comunista?

Perché io avevo mia nonna che era molto influente. Mia nonna era una grande resistente. Si chiamava Lucia, lei ha fatto proprio la Resistenza. Mio nonno è morto a Mauthausen, deportato politico, triangolo rosso. Abbiamo dato parecchio però era una scelta di vita, non ce l’abbiamo con nessuno.

Invece il contatto con il Partito com’è avvenuto?

Il Partito è una passione mia. Io sono un acritico. Un po’ perché sono abituato a vedere un insieme di uomini e di donne. Io questo momento lo vivo male, pur capendo le esigenze politiche di tutti. Io voto sì perché è la linea del partito. E ti dirò: io ancora non l’ho letta la riforma costituzionale. Non l’ho letta apposta perché io intendo che un partito che viene da quella storia doveva avere qualcuno con un po’ più di tolleranza.

Questo contrasta con la sua figura di uomo di calcio, no?

Ma nel calcio sono io che devo dare una linea. Nel partito che la dò io la linea? La linea la devono dare quelli che oggi stanno litigando. Pensa che sofferenza uno a settantadue anni, che ha visto i comitati centrali con Togliatti, con Berlinguer, con Natta, subire una cosa del genere. Io ho visto ragazzino Walter, ho visto ragazzino Massimo D’Alema. Io me lo ricordo che correva a Botteghe Oscure che aveva vinto un concorso dell’ACI, che era un ragazzetto. E uno gli vuole bene, li vorrei più perfetti di come sono.

Qui ci sono le foto con Fidel Castro, Arafat e Gorbachov.

Sono quelle fortune che ti capitano. Di andare con Arafat, ho anche portato Brezhnev al funerale di Togliatti.

Allora faceva anche da autista?

Giocavo a pallone e avevo qualche soldo. I comunisti non avevano davvero i soldi e la macchina più bella del partito era la mia. Avevo il 1300, arriva Gorbachov, e loro avevano tutti la 1100 grigia. Era il 1964, avevo preso la patente da un anno. Dovevamo portare Brezhnev al funerale e allora i compagni mi hanno detto: “Portalo te”.

E invece Castro?

Tutta la permanenza a Roma di Fidel Castro è stata organizzata da me. Dalle macchine all’albergo. Era il 1996. Vado io da Renucci a prenderlo in albergo, vado io da Mondo Auto a prendere quattro Maserati per fare il corteo.

Come si ottiene una responsabilità del genere?

Perché ero più affidabile degli altri. Questo secondo la visione dei cubani. Per i cubani ero più affidabile di qualcun altro che non gli piaceva tanto.

E di che parlava con Fidel Castro?

Di pallone. Aveva pure l’album Panini. Hai visto tutte le interviste con la tuta Tor di Quinto?

Quante volte è andato a Cuba lei?

Dodici.

Ho letto che ha incontrato anche Che Guevara.

Sì. Ho visto pure Agostinho Neto, Daniel Ortega. Quando io vedo Ernesto Guevara, vedo una persona normalissima. Gli piaceva il pallone, mezzala destra. Il Che viene enfatizzato dal ’68 in poi. La prima sera che l’ho visto stava in un locale in Piazza della Rivoluzione, dove si ritrovavano tutti i cantanti cubani più famosi. Io stavo lì e ad un certo punto è arrivata la Jeep con Guevara e Raul Castro. Ci ho giocato a calcio al Varadero. Il rapporto con Cuba è un rapporto complesso. L’addetto politico dell’ambasciata mi invita a casa sua. Le ambasciatrici vengono qui come si portano le referenze al governo, eh. C’è un rapporto buono. Cuba è nel cuore, è una cosa che esula. Cuba è una bella storia, di rivoluzione, di persone. L’unica cosa per cui devo ringraziare è che ho avuto tanto di più di quello che ho dato. Essere stato un uomo di sinistra, in Italia, mi ha dato opportunità, e le ha date pure al Tor di Quinto. Io mi ritengo gratificato in una maniera incredibile. E questo mi ha aiutato a superare delle fasi difficili della mia vita. A me è morto un figlio che aveva 42 anni, una moglie che ne aveva 49…

È felice quindi di quanto ha fatto nel mondo del calcio?

Sono felice di stare in mezzo alla gente.

Invece quando dice che non le piace il calcio a cosa si riferisce?

Io non avrei mai immaginato di diventare un bravo dirigente di calcio. Io pensavo di diventare bravo come Fidel Castro, a fare il rivoluzionario. Ma l’opportunità di fare la rivoluzione come Fidel Castro al Tor di Quinto non me l’hanno data. Perché non l’abbiamo fatta la Repubblica libera di Tor di Quinto. Sono rimasto alla sezione, alla battaglia del quartiere per il giardinetto, queste cose qui. Però rivoluzionari ci si nasce, e io ci sono nato. Mi ritengo fortunatissimo ad aver avuto queste occasioni di stare a contatto con questa gente, di un’altra categoria. Uno se ne rende conto solo quando gli sta vicino. Una volta stavamo andando in Bulgaria, cioè in Russia, con Pajetta e l’aereo ha preso un vuoto d’aria. Andava giù e lui stava tutto tranquillo. Alla fine, quando si è ripreso, mi sono un po’ allineato a lui e ho fatto finta di non avere paura. Lui ha fatto una battuta incredibile: “Mica è un autobus che alla fermata scendi”. Lo spirito di questa gente che si è fatta 17-18 anni di carcere per delle idee, come Pajetta… ti rendi conto di aver avuto a che fare con gente speciale. Io sto pure in una foto bella con Sartre alla Sorbona. Lì purtroppo ho imparato a fumare. Non avevo mai fumato fino al ’68. Se non fumavi dove c’erano le riunioni di Sartre, morivi di cancro uguale perché era un batuffolo di fumo. Poi c’erano le ragazze francesi, io mi sentivo pure carino, ero pure un po’ stronzo. Allora fumavamo, facevo finta.

Con Sartre di che parlava?

Di politica, di politica illuminata. Di tutto ciò che è successo 30 anni dopo. Ma scusa giovanotto, questo è il partito che ha caratterizzato un secolo. Io sono cresciuto e la cosa più bella che m’è potuta capitare è che ho incontrato il Partito Comunista. Per me è così. Poi quando muoio, facciamo i conti: chi è stato meglio e chi ha fatto meglio.

Quarta parte. Il modello Tor di Quinto

Come ha fatto il Tor di Quinto, partendo da un campo occupato, a diventare così importante?

Se tu in ogni azione metti gente competente, i risultati alla fine sono buoni. Poi c’è la passione. Io non tanta, però c’era chi ne aveva.

Già dall’inizio c’era questa voglia di investire sui giovani?

No, solo io ce l’avevo. A mio padre non piacevano, lui faceva la prima squadra.

È stato lei il primo a puntare sul settore giovanile?

Sì, mio padre non voleva e ha iniziato a mollare, si è interessato di meno.

Qual era il conflitto?

Mio padre era una persona mite, meno aggressiva di me, non gli andava di affrontare quattrocento persone al giorno come i cubani a Guantanamo, con i fucili puntati.

Che sarebbero i genitori?

Tutta gente montata, che vive chissà quale sogno irrealizzabile. Che poi basterebbe venire qui e domandare, uno ti dice: “Guarda, fallo stare sereno perché giocatore non ci diventa”. Ma non ci viene nessuno a domandarmelo. E coltivano questo sogno da scemi, quando invece potrebbero divertirsi e basta. Qui è diventato campione d’Italia uno che portava l’aereo della Finanza.

Non ho capito.

Un ragazzo che è diventato generale, e che guidava gli aerei d’intercettazione della Finanza. Io penso si sia divertito a giocare, sia stato bene. Un ragazzo realizzato… era giocatore ed è diventato generale. Il Tor di Quinto è una scuola di vita. Sono ragazzi importantissimi per la Nazione. Abbiamo anche magistrati. Erano forti a giocare, ma hanno scelto di studiare. È una cosa molto più complessa, che guarda più ai rapporti sociali che non ai rapporti calcistici.

Però il Tor di Quinto è famoso perché da qui sono usciti giocatori veri.

Certo, abbiamo fatto giocatori di Serie A: Sini, Frascatore, Antei, Materazzi. Una cosa è certa, e la dico oggi che non devo fare nessuna carriera: io sono forte. Io ancora oggi vado in giro per i campi e sento scemi in tribuna che dicono del Tor di Quinto: “Questi stanno ancora col libero staccato”. Ma il libero staccato è quello che di meglio possiamo fare noi per far crescere i ragazzini. Per giocare a calcio devi marcare a uomo. Ci siamo battuti 50 anni per mantenere questa cosa, a sentirci deficienti perché non facevamo melina. Ma puoi fare melina con la gente con i bozzi sui piedi? Oggi hanno tutti la “cantera", sono tutte “academy"… Accademie tenute da certi allenatori che se ti faccio i nomi c’è da vergognarsi. Il Tor di Quinto non è niente: il Tor di Quinto è un’unione sportiva di persone che cercano di capirci qualcosa, se ci riescono. Tieni conto che noi non abbiamo nessun rimborso, né i giocatori di prima squadra, né gli allenatori.

Neanche in Promozione?

Nemmeno 100 lire. L’ultimo intervento sulla promozione sono state le salsicce e le bistecche che hanno portato loro l’altra sera. Dopo i 22 anni, se vuoi giocare, devi fare l’amatore.

A Roma quasi tutte le squadre dopo la Prima Categoria pagano.

Io non mi prendo nessun vanto. Io porto avanti il mio modo di vivere e di pensare, paragoni non ne faccio. A chi dà soldi ai giocatori io dico: “Sono contento, bravo”. La nostra continuità sta in questo: non si possono distrarre somme da altre attività lavorative, senza intaccare la solidità dell’azienda. Non si può fare, il calcio è una piovra. Poi quando hai due lire, nel calcio, si sparge la voce e diventi come il miele per le api. Arrivano quelli che non hanno un cazzo da fare e girano per rimediare due, tre cento euro. Diventando tutti consulenti, procuratori, portano giocatori. Poi se paghi una cena sei finito, è meglio che apri un ristorante e li fai mangiare col ticket: ti conviene.

Quando vi arrivano delle richieste per un giocatore, voi le accettate senza condizioni?

Sì, io non lavoro con nessuno, non faccio distinzioni. Poi non facciamo prove, non partecipiamo a niente, siamo un po’ gelosi. I giocatori nostri di seconda o terza fascia se ne vanno, magari vanno per dispetto a una concorrente. Ma io, se sei giocatore, ti vendo. Se non ti ho venduto è perché non sei giocatore. Guarda che pacco di richieste di giocatori dalla Serie A che ho. E queste sono solo quelle di questi primi mesi.

(Mi mostra un fascicolo con una ventina di fax provenienti da squadre di Serie A e B). Quindi riesce a vendere una percentuale piccola di giocatori?

Non è piccola, è grande rispetto al totale. Di solito la proporzione qual è? Uno a mille? Qui è uno a trenta. Il Tor di Quinto è una società grossa, importante, che ha conoscenze. C’è gente che ci crede.

Ma come fa il Tor di Quinto ad avere giocatori così buoni? È solo una questione di preparatori?

Io penso che se una società si basa sui preparatori, l’appartenenza, l’impianto sportivo a disposizione…

Torniamo indietro a quando ha occupato il campo e deciso di puntare sul settore giovanile. Dopo quanto tempo avete venduto i primi giocatori?

Nell’87 abbiamo venduto un sacco di gente all’Atalanta.

Tre anni dopo.

Subito. Ma io sono il più forte di tutti.

A scegliere quindi? Perché in tre anni puoi solo scegliere.

No, è la gente che ha scelto noi. E chi ci ha scelto sapeva che metteva i figli in buone mani.

Ok, ma perché?

Per una tradizione come quella di mio padre. La gente si affida a me, o a mio figlio… perché siamo bravi. Artigiani: c’è quello che sta fermo e quello che si sa muovere. Noi siamo stati artigiani bravi. Io credo che il fascino discreto fa muovere cose… Credo anche che c’è gente, però, che non viene perché ha paura a venire.

In che senso?

Hanno paura. Qui affronti una realtà dura. Uno che ti dice: “Ma chi mi hai portato? Porta via ‘sto capoccione”. Una volta una signora mi porta un cicciottello, e io le ho detto: “Signora, ma questo come fa a giocare a pallone?”. E lo sai che m’ha risposto? “Ma come, a noi ci corrono appresso tutti per farci iscrivere a scuola calcio e voi ci cacciate?”. E io gli ho detto: “A noi i soldi non ci servono, noi siamo poveri, a noi servono i giocatori”. Noi vorremmo diventare autosufficienti lavorando e vendendo il prodotto. Ci siamo riusciti, ci ha detto bene. Siamo stati fortunati. C’è la componente umana che è importante… non lo so, io non sono una persona comoda.

Vogliono tutti una carriera per i loro figli?

Sì, tutti quanti pure quelli che sanno che è impossibile. Ma lo sai qual è il problema? Io riesco a domarli questi sentimenti, a controllarli, nei confronti dei miei figli e dei miei nipoti. Io non ho nessuna voglia di averci un altro giocatore in famiglia. E sono tutti appassionati di pallone. Io in famiglia non ho gente che sa giocare a pallone. Sono tutti mezze pippe. Quello che mi mette in difficoltà è che non si capisce che questo non è uno sport dove emerge una massa. Lo studio dovrebbe essere la cosa per far emergere la massa. Questo è uno sport dove emergono pochi. I ragazzini quando li vedi ti accorgi che sono a livelli differenti.

In un’intervista lei dice: “Ho dimostrato grande integrità morale eppure c’è sempre la percezione di averci a che fare con un bandito”. Perché bandito?

Perché quando tu non dai spiegazioni su come ho potuto fare questo, tu vai subito a pensare all’illecito. Il fatto che io non ho mai preso un contributo pubblico scandalizza. Nessuno è riuscito a capire chi sono io.

Perché non spiega come ha fatto?

Io so imporre una linea. Io sono un leader, è da ragazzino che sono un leader. Ma io non l’ho sfruttato come di solito fa chi ha quelle caratteristiche. Perché se sei uno che ha caratteristiche da leader, per salire, devi andar a mettere d’accordo. E puoi metterti d’accordo con uno che oggi ti dice una cosa, domani ti schiaccia un piede? Io ti mando affanculo e ti metto pure le mani addosso. Il limite mio è anche il limite di un carattere brutto, duro. Io sono un uomo che non è mai andato in villeggiatura.

Non è mai andato in vacanza?

No, io ho visto due film in tutta la vita mia. Sono un uomo che non ha mai portato i figli a spasso, che non va a casa dei figli, non so nemmeno dove abitano.

Ha sempre e solo lavorato.

Sto solo. E questo probabilmente mi gratifica, ma a me i riconoscimenti non me li ha dati mai nessuno. Io ho fatto campagna elettorale, ho fatto eleggere gente, e non mi hanno manco ringraziato. Io non partecipo a niente. Non vado da nessuna parte. Se mi vogliono vedere io sto qua.

Perché non va in vacanza?

Non vado in vacanza perché non sono stato abituato così. Vengo da un uomo che esce dalla guerra, i mezzi non c’erano. Sono abitudini che se non prendi, poi da grande è difficile. Poi non sono amante del mare.

Non va al cinema.

No, al cinema non ci vado perché io sono cresciuto dentro alla Titanus. Io ho visto mentre facevano i film dell’orrore. E il vampiro prima di fare la scena si sta mangiando un panino con la mortadella. Come faccio ad avere paura?

In che senso è cresciuto alla Titanus?

Gli studi della Titanus stavano alla Farnesina, io stavo tutto il giorno là. Quando ero ragazzino. C’era Totò, De Sica, Aldo Fabrizi, la Magnani. Andavo a prendergli la pasta e ceci da Naso Storto, un ristorante davanti alla sezione del partito comunista. Rimediavo 100, 200 lire. Totò per darti 100 lire si inventava che dovevi andargli a prendere le sigarette, le Mercedes bianche. Totò era fenomenale. Il cinema non mi ha mai affascinato, vedendolo fare, vedendolo montare.

Quindi che fa con la sua famiglia?

Non faccio niente. Vengono loro qui, io non vado neanche a Natale. Che poi non siamo cattolici, quindi i rituali sono differenti. Io però ho 72 anni e devo dire che, se fai un bilancio… qui vengono molti personaggi famosi, vengono a vedermi, mi visitano. Devono venire qua. Tutti devono venire qui. Io non vado da nessuna parte.

L’intervista è finita. Prima di andarmene avrei avuto voglia di chiedergli se si ricorda ancora di me, di quando da piccolo ho giocato, per un mese soltanto, nel Tor di Quinto. Avevo dodici anni, mi ero appena rimesso da una tallonite che mi aveva impedito di giocare per un anno intero praticamente, e Testa mi aveva visto giocare sul campo da calcio in erba che affittava d’estate. “Perché non ti vieni ad allenare qui?”, mi disse, e alla ripresa della stagione mi sono presentato al campo. All’inizio ho faticato ma piano piano ho ricominciato a divertirmi, dopo un allenamento particolarmente positivo Testa, che aveva guardato da bordo campo, mi disse: “Mi sa che ho fatto male a farti venire. Mi sembri una mezza pippa”. Ci sono rimasto male e da quel giorno non sono più andato ad allenarmi con il Tor di Quinto. In compenso mi sono divertito molto con la squadra in cui giocavano i miei compagni di classe. Dopo più di vent’anni, stavo quasi per ringraziarlo per quel giorno in cui mi ha detto che ero una mezza pippa.

Invece, ho preferito mettere le mani avanti e dirgli che non avrei cercato di abbellire l’intervista. “Io sono famoso perché mi accusano e non mi difendo”, ha detto. “Per me l’importante è l’azione, tu agisci. Poi ti prendi le responsabilità di come hai agito”.

Sono andato via senza capire se aveva voluto darmi un'ultima massima di vita o se la sua era una velata minaccia. Probabilmente entrambe le cose.

Questa intervista è citata in parte nel profilo su Massimo Testa pubblicato su Repubblica lo scorso lunedì 24 ottobre.

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