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La luce di Salas
09 feb 2016
Tributo a Marcelo Salas, El Matador.
(articolo)
14 min
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Le parole palindrome sono quelle che si leggono allo stesso modo, sia da sinistra a destra sia in senso inverso. La loro natura bifronte ha un fascino sottile che attraversa le civiltà e il tempo, e che arriva a più livelli: da quello giocoso dell'enigmistica, fino al piano che tocca le corde della magia, del misticismo, della spiritualità.

Marcelo Salas è stato il centravanti del mio unico scudetto. Insieme a Vieri, la stagione prima, ha formato la coppia d'attacco più devastante che abbia mai potuto tifare. Si inchinava con un dito rivolto al cielo dei miei quindici anni. Non pretendo insomma di essere equilibrato quando si tratta di lui.

La sua carriera ha seguito un corso perfettamente simmetrico. Tre anni al Club Universidad de Chile in testa, altri tre anni in coda. Nel mezzo: due anni al River, cinque anni in Italia, altri due al River. Un palindromo, proprio come il cognome che gridavo fino a perdere la voce.

Tifare per la Lazio in quegli anni era come abbuffarsi dopo anni di pane secco. All'improvviso, tutti insieme, Verón, Nedved, Simeone, Boksic, Nesta, Vieri, Mihajlovic, Mancini. Non sapevi dove guardare. Tra i rimpiazzi c'era gente come Sensini, Almeyda e Stanković.

E c'era anche José Marcelo Salas Melinao, che avevamo preso nell'estate 1998. Melinao nell'idioma mapuchesignifica “quattro tigri”. Era l'attaccante del River Plate e della nazionale cilena. Lo avevamo visto ai mondiali di Francia '98, ci sfregavamo le mani: era fortissimo, e Cragnotti l'aveva acquistato già a gennaio. Tre gol nel girone, inclusa una doppietta all'Italia (come ricorderà Nesta: «Lui e Zamorano ci hanno fatto neri, a me e Cannavaro»), e un gol agli Ottavi nella sconfitta contro il Brasile.

Quella sarà la sua unica partecipazione a una Coppa del Mondo, ma continuerà a essere un protagonista della Roja a lungo. Aveva esordito, nel maggio 1994, segnando una doppietta in amichevole contro l'Argentina di Maradona («Mi piaceva, prima che si bevesse il cervello» dirà poi). Ancora oggi ha il record di gol realizzati con la nazionale cilena: 37 in 70 presenze.

I suoi gol a Francia '98. Una doppietta all'Italia, un gol all'Austria e uno al Brasile finalista.

El Matador per me resta lui, nonostante i Cavani che verranno nel tempo. Il soprannome lo riceve ai tempi dell'Universidad de Chile, ispirato dalla sua freddezza e all'omonima canzone dei Los Fabulosos Cadillacs, che nei primi Novanta imperversava in Sudamerica. Dal soprannome discende l'esultanza, un gesto da torero: inizia con un segno della croce, prosegue con l'inchino e finisce col dito alzato. Salas è un cattolico molto fervente. Tra le prime dichiarazioni dopo la formalizzazione del suo arrivo in Europa, ricordo quella in cui afferma che andare alla Lazio significa essere “vicino al Papa”. Riuscirà a incontrare Giovanni Paolo II addirittura in udienza privata. E più avanti spiega: «Con Dio mi piace parlare molto».

Durante il primo passaggio a Buenos Aires, tra il 1996 e il 1998, mette la firma sulla vittoria di due tornei d'Apertura, un torneo di Clausura e una supercoppa del Sudamerica. I Millonarios lo strappano al Boca Juniors, che non se la sentiva di prenderlo con una formula diversa dal prestito. Proprio contro il Boca, nel derby, Salas segna il suo primo gol in maglia biancorossa. Nel 1997 riceve il Pallone d'oro sudamericano: l'ultimo cileno a riuscirci era stato il mitico Elías Figueroa. Ma a ben vedere Salas ha alzato trofei ovunque è andato.

Nel '98 aveva lasciato il River in uno stadio che urlava “Cileno, cileno” e lo faceva piangere («Gli argentini non sono mai stati nostri buoni amici, eppure erano lì a gridare il mio nome»). Il suo rientro ai Millonarios e in generale in Sudamerica ha una forma curva, inevitabilmente rivolta in basso. Salas deve ancora compiere ventinove anni, ma le sue caratteristiche tecniche non lo aiutano a sostenere il peso del tempo. E i calci presi. Come spiegava il medico sociale della Lazio: «Lo massacrano, quando si toglie i calzettoni lo spettacolo è impressionante».

Una serie di infortuni tormenta i suoi mesi al River, ma questo non gli impedisce di mettere un ultimo Clausura in bacheca. In quella squadra c'è un ragazzino che gli ruba l'occhio, ha appena iniziato la carriera da professionista, si chiama Javier Mascherano, e anni dopo Salas lo ricorderà per l'impressionante maturità (“Un giovane vecchio”).

Uno degli ultimi gol pesanti, in Libertadores nel 2007, contro la Liga de Quito. Ancora c'è tutto il suo rapporto con lo spazio, la precisione, la forza.

Mancino, fisicamente compatto, esplosivo. Sven-Göran Eriksson lo paragonò a Gerd Muller. Il compagno di squadra Nedved lo chiamava “il Serpente”. Quando oggi gli chiedono chi vede come suo erede, Salas all'inizio si mantiene sul vago, poi fa il nome di Agüero.

All'arrivo a Roma, di se stesso disse: «Forse sul gioco aereo sono un po' debole». Forse no. Sul podio dei gol di Salas che preferisco, c'è quello di testa nel 4-4 finale contro il Milan, stagione 1999/2000.

Oltre alla combinazione di potenza e movimento, che lo rendevano una prima punta molto moderna, a me colpiva il suo rapporto con lo spazio, la lettura spietata che gli indicava sempre dove andare. E poi la capacità di non perdere contatto col pallone, anche quando era in aria, anche quando gli era sfuggito. Entrambi sono aspetti su cui non puoi lavorare, istinto e basta.

Il fatto che giocava bene sui campi pesanti, lui stesso lo giustificava così: «Il mio idolo è stato Juan Covarrubias, attaccante del Temuco, serie B cilena. Facevo il raccattapalle per andarlo a vedere, sui campi di terra e pietra, sui campi pesanti, avete visto come me la cavo bene sotto la pioggia?».

Non era un estroso. Forse per compensazione raccontava così l'ammirazione per Garrincha: «Di notte come tutti i ragazzi che giocano a pallone sogno. Di essere in un grande stadio, su un grande campo, in una grande partita. Sogno di prendere la palla, di scartare tutti e di entrare in porta. Con l'allegria e la pazzia di Garrincha però, non come Salas».

Il colpo di testa nel 4-4 contro il Milan, al minuto 2:43. Un gesto di bellezza estrema, nel quadro di una delle più belle partite che ricordi della Lazio. La vidi in televisione, nello stesso bar dove avrei visto poi l'ultima di campionato e lo scudetto del 2000.

Mi hanno insegnato che la partita si vede fino al fischio finale. Lasciare lo stadio prima, per evitare la ressa e il traffico, è come abbandonare la funzione prima che il sacerdote abbia mandato i fedeli in pace. Ho visto dal vivo decine e decine di partite, direi anche centinaia, ma solo una volta non sono rimasto dall'inizio alla fine.

Era Lazio-Torino del 1999/2000, terzo turno della stagione irrazionale che mi avrebbe fatto vedere lo scudetto. Andai con un amico e suo padre, era la prima volta e sarebbe rimasta l'unica. La Lazio vinceva due a zero, a cinque minuti dalla fine era evidente che non ci sarebbero state sorprese. Il padre del mio amico si alzò, il figlio appresso, come fosse del tutto ovvio. Non avevo la confidenza per chiedere di restare fino all'ultimo. Nello sbalordimento, nel dover obbedire a un sacrilegio, mi alzai e camminai rivolto al campo fin quando arrivai alle scale dei Distinti. Alla fine della rampa di scale ero sconvolto. Dopo qualche metro, ci investì un boato dall'interno dello stadio. Aveva segnato la Lazio. Aveva segnato Salas. E aveva segnato questo gol:

Da sdraiato, agli sgoccioli di una partita ampiamente chiusa, Salas inventa questo colpo dal basso. Uno dei suoi gol più belli in biancoceleste.

Di gol con la Lazio ne farà 43, in 106 presenze (considerando i minuti effettivi, in pratica diventa un gol ogni due partite), tra il 1998 e il 2001. Alla Juventus non andrà altrettanto bene. A causa di un brutto infortunio che gli fa perdere quasi tutta la prima stagione. Ma anche per un rapporto difficile con Lippi e per la concorrenza (oltre a lui, in rosa ci sono Del Piero, Trézeguet, un Di Vaio in stato di grazia e Zalayeta).

Ci rimasi male quando se ne andò alla squadra che era stata sul punto di prendersi il mio unico scudetto. Sì, erano anni di miliardi in giro per il calcio italiano, di Tanzi e Cragnotti, e non ci si affezionava ai calciatori. Eppure io, a Salas, mi ero affezionato, a lui che diceva di vedere nel calcio «troppo commercio, poca spiritualità».

E nonostante abbia sempre simpatizzato per il Toro, il famoso derby del 2001/02 non me lo sono goduto. La Juventus era avanti 3-0, fu rimontata fino al pareggio e nel finale le fu concesso un rigore. In quel caos, il granata Maspero scavò con gli scarpini sotto il dischetto, in modo da far alzare il pallone al momento dell'impatto. È una scena che sembra uscire da altri anni, o almeno da altre categorie. A battere quel rigore c'era Salas, fu lui a tirarlo in curva.

Complessivamente, nei cinque anni in Italia vincerà tre scudetti, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea, una coppa Italia, due Supercoppe italiane. «I migliori anni della mia carriera sono stati quelli alla Lazio» dirà al momento dei bilanci.

Tutti i gol in biancoceleste, nel triennio 1998-2001.

Tornando alle metafore religiose, lo scrittore cileno Antonio Skármeta ha riportato questo passaggio del giornalista sportivo Natalio Rabinovich: «Salas è un illuminato. L’angelo che l’accompagna per i sentieri della vita lo guida perché l’onere gli sia più lieve. Molti assicurano che, essendo nato la vigilia di Natale, c’è una stella che lo protegge. Il suo orizzonte si perde in un infinito invisibile».

Probabilmente lui avrebbe scansato quest'aura. Lui che diceva: «Non voglio essere un idolo, solo un grande giocatore». Lui che è un taciturno, un uomo concreto, restio a concedere decorazioni sulla sua figura. Uno che vuole silenzio sulla beneficenza che fa. Come quando vide un bambino disabile in televisione, negli anni alla Lazio, e si mise in contatto con la produzione per versare una grossa somma per curarlo, «a patto che non si sappia».

Che sia nato il 24 dicembre, però, è un fatto. Il 24 dicembre del 1974, l'anno del primo scudetto nella storia della Lazio. È un mapuche di Temuco, una città di quasi trecentomila abitanti nel Cile meridionale, dove si incontrano i lineamenti creoli e quelli indios. La città dov'è cresciuto Pablo Neruda, che però Salas ancora nel '98 spiegava di non aver mai letto: «Mi scuso per la mia ignoranza, ma non voglio sembrare quello che non sono».

Temuko significa acqua di temu, un albero medicinale, nell'idioma della popolazione amerinda che viveva in questi territori prima che le venissero strappati dai conquistatori europei. Salas ha spesso rivendicato le sue origini, ma senza farne una bandiera: «Di quello stile di vita a me resta poco, quindi non mi voglio mettere a fare l'elegia esagerata delle mie radici. Ci sono, contano, guai a chi le calpesta, ma non devono diventare uno stupido ritornello» ha detto. Una volta è stato accusato di riconoscere la propria identità mapuche solo per ottenere l'autorizzazione ad acquistare terreni in Cile destinati alla minoranza.

1998, Wembley. Il Cile batte l'Inghilterra, due a zero, a pochi mesi dall'inizio del Mondiale francese. Un segnale importante, un risultato prestigioso. Salas sembra presagire il futuro, suo e della Roja, anticipando il tempo della battuta a rete. Come ricorderà il commissario tecnico Acosta, tutto lo stadio si alzò per applaudire.

Proprio nella sua città, anzi nel suo quartiere, aveva iniziato a giocare a pallone. Prima al Santos Temuco FC come volante, addirittura nel suo barrio, Pueblo Nuevo. Poi nel Deportes Temuco, la squadra che andava a vedere allo stadio col padre e il nonno, e dove tornerà molti anni dopo e in altre vesti. È comunque nella sua città che supera il provino di una delle squadre regine del calcio cileno: l'Universidad. È da lì che parte per percorrere settecento chilometri. Si mette in strada come il padre, Rosemberg, che guidava camion e che non voleva facesse quel provino («Aveva paura»). Lo stesso Rosemberg che anni dopo gli consiglierà di non andare al River col rischio di fare panchina. E invece lui raggiunge gli Azules di Santiago, dove a diciott'anni apre la sua carriera da professionista, e dove poi l'avrebbe anche chiusa. Anni dopo, Salas userà parole dure sul calcio nel proprio Paese: «I cileni che hanno sfondato all'estero, a parte Zamorano, non esistono. Siamo gli ultimi della lista, i pezzenti del mondo. E per crescere dobbiamo fare da soli ed espatriare».

All'Universidad, si fa notare. In un derby vinto 4-1 contro il Colo-Colo, per esempio, mette a segno una tripletta. Due campionati vinti, i primi per il club dopo venticinque anni di buio. Gioca una prestigiosa semifinale di Libertadores nel 1996, ma gli Azules vengono sconfitti: a precludergli la gioia di giocare la finale del massimo trofeo sudamericano è il River Plate. Che in pochi giorni vince quella finale e acquista Marcelo Salas.

Giovanissimo all'Universidad, in una gara di Libertadores contro l'Atlético Nacional Medellín di René Higuita.

La sera del 27 agosto 1999 ero al mare, vicino Roma. Mancavano pochi giorni all'inizio delle superiori, non pensavo che alla finale di Supercoppa europea contro il Manchester United. Quella sera stavo in una rosticceria, davanti a un piccolo televisore, con un amico che non capiva niente di calcio, diceva di tifare per la Roma così da non avere rogne nella vita quotidiana. Lo United faceva paura, tra gli altri c'erano i fratelli Neville, Stam, Beckham, Scholes. Noi avevamo vinto la Coppa delle Coppe pochi mesi prima, eravamo all'inizio di un ciclo ma non lo sapevamo ancora.

Al Louis II di Montecarlo, Salas partiva dalla panchina. Entrò a metà del primo tempo, per l'infortunio di Simone Inzaghi. Ci mise dieci minuti a segnare. Il mio amico era indifferente, ma avevo bisogno di commentare con qualcuno. Uscii, chiamai mio padre da una cabina telefonica. Poi rientrai nella rosticceria. E vidi il secondo tempo, e poi Nesta alzare un altro trofeo europeo.

Il gol contro il Manchester United. La determinazione, la gioia rabbiosa subito dopo.

Le ultime tre stagioni all'Universidad sono più che altro un cameo. A un certo punto la società va in bancarotta, lui si allena con i Chicago Fire, poi gli Azules si riprendono e Salas firma il suo ultimo contratto, annuale. A convincerlo è Arturo Salah, il Ct della nazionale cilena negli anni Settanta, che ha preso le redini del club. L'ultima soddisfazione per il Matador è la convocazione di Bielsa a fine 2007 per le qualificazioni ai Mondiali sudafricani, che lui onora con due gol decisivi.

Si ritira un anno dopo, il 25 novembre 2008. Nell'estate seguente si gioca una partita d'addio. all'Estadio Nacional de Chile, che riunisce tanti compagni e protagonisti dei suoi anni, da Ortega a Vieri, da Trézeguet a Francescoli.

A questo punto, inizia una nuova vita. Il Matador va all'università, corso di Gestione e Marketing sportivo, studia anche di notte. Oggi è proprietario di un paio di impianti sportivi. E soprattutto è presidente del Deportes Temuco, la squadra della sua città, che gioca nella seconda categoria del calcio cileno.

Sull'appezzamento di terra che aveva comprato nel 1998, quello per cui lo avevano accusato di sfruttare l'identità mapuche, avvia un’azienda agricola con l'aiuto della sorella e di un amico agronomo: produce mirtilli, fino a seicentomila chili all'anno, rifornisce Stati Uniti, Asia ed Europa. Quando si occupa di questi affari, essere stato una leggenda del calcio sudamericano non ha un grande peso: «Mi vedono e fanno “Ah, Marcelo Salas”. Però dura poco. Nel commercio conta solo la calcolatrice». Non è un manager imbolsito dietro la scrivania, comunque, o almeno non vuole dare quell'immagine: lo dicono i video che ha messo di recente sul suo profilo Instagram, dove si allena con la stessa foga dei vecchi tempi.

Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di lui, per una rissa con la sicurezza del resort caraibico dove trascorreva le vacanze. Sembra che tutto sia iniziato da un confronto sul rugby. In autunno il suo nome è circolato per la presidenza della Lega Calcio cilena. Alla fine è stato eletto Arturo Salah, colui che lo aveva convinto a chiudere la carriera all'Universidad. E Salas ne ha gioito con un tweet.

Tra tutte le immagini di come Salas è oggi, preferisco questa. Nella tribuna di uno stadio, con gli occhiali sulla zip del giubbotto e i capelli lunghi come Mickey Rourke in The Wrestler.

Il calcio nella sua città e un appezzamento di terra che gli spetta in quanto mapuche: Salas ha davvero scelto di tornare alle radici. Mi chiedo però se scavare in questo modo sia un'azione progressiva o il tentativo di congelare quello che non c'è più. E lo stesso riguarda me, la scelta di ritrarre una leggenda della mia adolescenza.

“Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati o quasi intoccabili, immutabili, radicanti” ha scritto Georges Perec, uno che di palindromi se ne intendeva.

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