Pubblichiamo un estratto del libro “Guida NBA 2016-17” curato da Mauro Bevacqua ed edito da Baldini & Castoldi. Qui il capitolo sui Los Angeles Lakers scritto dal nostro caporedattore dell'area basket Dario Vismara.
Il 18 febbraio del 2013 si è spento nella sua stanza d’ospedale uno dei proprietari più vincenti della storia della NBA, vale a dire Jerry Buss. «Dr. Buss», come era conosciuto da tutti a L.A., se ne è andato a 80 anni lasciando il 66% della sua creatura prediletta, i Los Angeles Lakers, in mano ai sei figli in parti egualmente divise, dando i maggiori poteri alla figlia maggiore Jeanie per la parte finanziaria-amministrativa e al terzogenito Jim per la parte sportiva. Da quel giorno in poi, i Lakers guidati da questa banda di fratelli – una situazione pressoché unica nel panorama NBA, visto che tutti sono stati preparati e cresciuti in previsione di ricoprire prima o poi un ruolo in società – non sono più riusciti a occupare il posto nell’aristocrazia che la loro storia meriterebbe. Una spirale verso il basso che nell’ultimo triennio li ha portati a vincere la pochezza di 65 partite a fronte di 181 sconfitte, fino a crollare al 17-65 con cui hanno chiuso la scorsa stagione – la peggiore della storia della franchigia.
Una situazione insostenibile per un ambiente abituato a vincere come quello dei Lakers, che non era mai rimasto fuori dai playoff per tre anni consecutivi e, anche in caso di sbandata, era abituato a rimettersi velocemente in carreggiata, sfruttando l’allure della città delle stelle per attirare i nomi più grossi sul mercato e ricostruire in fretta una squadra da titolo. Forse è proprio questa fiducia sconsiderata nella propria storia che ha fatto dire a Jim Buss nell’aprile 2014 che, se non fosse riuscito a riportare i Lakers a competere per il titolo o quantomeno in finale di conference in un lasso di tempo previsto «tra i tre e i quattro anni», si sarebbe fatto da parte volontariamente, ammettendo il proprio fallimento.
Una presa di posizione pubblica piuttosto inconsueta per un personaggio abituato a rimanere nell’ombra della squadra più riconoscibile della NBA, pur facendone parte già dal 1998 (dopo aver fatto il presidente di una squadra di calcetto e l’allevatore di cavalli – due attività entrambe fallite per le troppe perdite finanziarie). Jim però è sempre stato il figlio prediletto di papà Jerry, che vedeva in lui un animo fragile e segnato da due lutti traumatici – la morte del miglior amico e di una fidanzata – che ne hanno segnato il carattere introverso, come simbolizzato da quel cappellino che tiene sempre schiacciato in testa, quasi a nascondere viso e sguardo dal resto del mondo. Gli altri fratelli e gran parte dell’opinione pubblica invece vedono in lui uno scansafatiche – leggenda vuole che perfino a Dr. Buss si illuminassero gli occhi ogni volta che veniva a sapere che Jim si era presentato in ufficio… – e un cocco di papà che non è mai riuscito a trovare il proprio posto nel mondo.
Di certo c’è comunque che lui e Jeanie nemmeno si parlassero, prima della morte del padre. Il motivo è risaputo: nel novembre 2012 Jim Buss e il general manager Mitch Kupchak decisero di licenziare coach Mike Brown a seguito di una pessima partenza (1-4) alla guida di una squadra che durante l’estate pensava di essersi rilanciata con le acquisizioni di Dwight Howard e Steve Nash. Con un superteam che contava anche su Kobe Bryant, Metta World Peace e Pau Gasol, nell’ambiente losangelino erano tutti convinti che sarebbe bastato affidare la panchina a Phil Jackson per far funzionare quella squadra con un colpo di bacchetta magica. Coach Zen, da par suo, aveva dato un iniziale benestare al ritorno in prima persona, con la sola richiesta di avere parola anche sulle scelte del roster, agendo al fianco della propria fidanzata, vale a dire la stessa Jeanie (non è mica Hollywood per niente). Jim e Kupchak, invece, decisero improvvisamente di dare l’incarico a Mike D’Antoni e sebbene Jeanie, come più alta in grado nella gerarchia di famiglia, avesse diritto di veto sulla scelta, per quieto vivere decise di lasciare libertà decisionale agli uomini di basket, proprio come avrebbe voluto suo padre – a quel tempo ancora vivo ma già su un letto d’ospedale. La quiete, però, durò poco, solo fino alla pubblicazione della nuova edizione dell’autobiografia della signora, Laker Girl, dove raccontava per filo e per segno come erano andate le cose dal suo punto di vista. Dall’intero incontro con Jackson svoltosi a casa sua (dimora che Jim non aveva mai visitato prima…) fino all’incomprensibile scelta di non richiamare un interessato coach Zen.
I toni sono quelli del melodramma: «Quella sequenza di eventi – il quasi ritorno di Phil per poi sentirsi dire che qualcun altro era meglio qualificato di lui per quel posto – praticamente mi distrusse. Era come se mi avessero pugnalata alle spalle. È stato un tradimento. Ero devastata. Mi sono sentita presa in giro. Perché lo hanno dovuto fare? Perché Jim ha coinvolto Phil se non era sincero nelle sue intenzioni? Phil non glielo aveva chiesto, non era certo andato lui alla ricerca di quel lavoro. Ha sprecato 36 ore della sua vita per preparasi a tornare quando mai, neanche tra un milione di anni, lo avrebbero assunto. Come puoi fare questo a tua sorella? Come puoi farlo a Phil Jackson?».
Il quadro dipinge alla perfezione la tranquilla situazione interna con cui i Lakers hanno dovuto convivere per altri due anni, almeno fino a una chiacchierata riunione di famiglia del 2014 durante la quale lo stesso Jim – messo di fronte alla richiesta sempre più pressante di assumersi piene responsabilità per il suo lavoro – ha fatto scattare sulla propria testa un timer di due anni (poi diventati, come detto, tre o quattro) che oggi si avvicina sempre più rapidamente allo zero. E per quanto in cuor suo possa essere fiducioso l’erede del Dr. Buss – è stato scritto che Jim fosse convinto di portare a Los Angeles LeBron James nel 2014, certo di arrivare a Carmelo Anthony nel 2015, a Kevin Durant nel 2016 e di seguito a Russell Westbrook nel 2017… – è semplicemente impossibile che i Lakers siano pronti a competere per il titolo in questa o nella prossima stagione. Anzi, non sarebbe nemmeno nel loro interesse esserlo, quantomeno nel breve periodo.
La primavera passata ha portato con sé l’ultima annata dell’inimitabile carriera di Kobe Bryant, forse il giocatore più amato di sempre della franchigia, sicuramente la figura che più ha segnato i destini (almeno sul campo) della grande famiglia gialloviola negli ultimi venti anni. Avere una presenza tanto influente, però, ha finito per essere per certi versi ingombrante, e non solamente per colpa di Kobe. Nelle ultime due stagioni i Lakers non hanno costruito nulla, ripartendo ogni volta da zero con progetti senza capo né coda e aggrappandosi al totem Bryant per dare qualcosa in pasto ai propri tifosi, tipo un ultimo giro di valzer a tratti ridicolo durato l’intera stagione passata e ribattezzato «Kobe Farewell Tour». L’ultimo campionato gialloviola si è trasformato in fretta in un lungo tributo al cinque volte campione NBA, che ha finito per fagocitare la maggior parte delle attenzioni fuori dal campo (facendo registrare il tutto esaurito ovunque andasse), dello spazio salariale (con 25 milioni di dollari era il giocatore più pagato dell’intera NBA) e dei palloni sul parquet (per dire: solo Cousins, Harden e Curry hanno utilizzato più possessi di lui). L’ultimo giro di giostra di Kobe ha avuto l’effetto di rimandare di un anno l’inizio della nuova era a L.A., ma è stato anche utilizzato per nascondere sotto al tappeto le magagne di una dirigenza che negli ultimi tre anni ha sbagliato davvero di tutto.
L’errore più grave è stato probabilmente la scelta di Byron Scott per la panchina. L’ex leggenda dei Lakers degli anni Ottanta ha avuto un ottimo inizio di carriera da tecnico, prima guidando i New Jersey Nets di Jason Kidd alle finali NBA per due volte a inizio anni Duemila e poi gestendo lo sviluppo di un giovane Chris Paul a New Orleans, vincendo il premio di Allenatore dell’Anno nel 2008. Altrettanto vero però che, in un modo o nell’altro, era finito licenziato in ogni sua tappa da head coach ed era reduce da un triennio alla guida di Cleveland (minus-LeBron, ovviamente) durante il quale non aveva mai superato le 24 vittorie stagionali. Pur presentandosi all’opinione pubblica come allenatore old-school di stampo difensivo, le sue squadre nelle ultime cinque stagioni hanno sempre chiuso nella top-5 delle cinque peggiori difese NBA, senza andare tanto meglio neppure in attacco, vista anche una certa conclamata idiosincrasia verso i tiri da tre punti («che ti portano ai playoff, ma non ti fanno vincere i titoli», convinzione pesantemente smentita dai fatti). Non bastasse solamente quello, Scott ha anche tenuto un atteggiamento intransigente nei confronti dei giovani a roster, su tutti D’Angelo Russell e Julius Randle – le due scelte più alte in lottery dai tempi di James Worthy – più volte puniti e messi in panchina quando alle prese con ovvi problemi ed errori da rookie, mentre il suo unico obiettivo sarebbe stato quello di svilupparli e aiutarli a crescere.
L’intransigenza di Scott ha finito per irritare i giovani facendogli perdere la loro fiducia, ed è per questo che l’arrivo in panchina di Luke Walton – dopo che i Lakers avevano pensato anche al nostro Ettore Messina, già parte del coaching staff di Mike Brown nel 2011-12 – è stato salutato dai giocatori con un entusiasmo quasi eccessivo. Il più contento è stato Russell, la point guard del futuro dei Lakers, scelto con il numero 2 al draft 2015. Il talento di Ohio State ha vissuto una stagione da rookie fatta di alti (un career-high da 39 punti contro Brooklyn con esultanza dopo il canestro decisivo già culto – «I got ice in my veins!», indicandosi il braccio sinistro con cui tira) e bassi (niente batte la pubblicazione online di un video in cui il compagno Nick Young ammetteva di aver tradito la sua fidanzata Iggy Azalea). Poco in sintonia con Scott, Russell ha vissuto come una liberazione l’arrivo di Walton, arrivando a definirlo «una delle migliori persone che conosco e un allenatore che non fa mai un passo indietro, che non lascia altri allenatori ad occuparsi dei suoi giocatori, ma è sempre coinvolto, sempre sul campo». Come a dire: rispetto a quello che c’era prima…
La capacità di Luke Walton di arrivare ai giovani è uno dei tratti distintivi del 36enne figlio d’arte, che ha alle spalle solo una mezza stagione – la scorsa – da capo-allenatore, avendo guidato ad interim i Golden State Warriors a un record di 39-4 (di cui le prime 24 consecutive, nuovo record NBA) mentre Steve Kerr recuperava da un’operazione alla schiena. Coach Kerr aveva scelto Walton proprio per il rispetto che era riuscito a guadagnarsi tra i suoi giocatori, per il suo essere giovane, sempre sorridente, amichevole, una persona «che piace alla gente che piace». Tutte qualità che singolarmente non fanno necessariamente un allenatore, ma di sicuro aiutano a connettere con un gruppo che conta ben otto giocatori sotto i 26 anni, tra cui la seconda scelta assoluta dell’ultimo draft, Brandon Ingram, che inizia la stagione come il secondo giocatore più giovane di tutta la NBA.
L’idea della dirigenza dei Lakers è quindi di far crescere questo nucleo di giovani insieme al suo allenatore, a cui è stato allungato un contratto da 25 milioni di dollari per cinque anni con l’idea di pianificare un lavoro a lungo termine e ricominciare a costruire, dopo un triennio sostanzialmente buttato. Per far crescere un gruppo giovane, però, servono anche i giusti veterani per guidare lo spogliatoio. Per questo durante l’estate la dirigenza dei Lakers – una volta realizzato che i grandi nomi non sarebbero certo arrivati, realtà resa una volta di più evidente dal fatto che Kevin Durant non abbia nemmeno concesso loro di potersi sedere al suo tavolo delle offerte – ha utilizzato buona parte dello spazio salariale a disposizione su due veterani in grado di dare una mano subito dentro e fuori dal campo, come il trentunenne Luol Deng e il trentenne Timofey Mozgov. Una veteran leadeship pagata però a carissimo prezzo, visto che sui due sono stati investiti 136 milioni di dollari per i prossimi quattro anni – e se l’importo annuale tra i 16 e i 18 milioni è ancora in qualche modo giustificabile visto l’innalzamento del cap e dei valori dei contratti, è la durata degli accordi a far alzare più di un sopracciglio. Su Mozgov, in particolare, i Lakers si sono mossi immediatamente – il russo è stata una delle primissime firme della free agency – con l’idea di anticipare il mercato, finendo per fare la fine di chi pensa di aver fatto un affare a prendere presto un attaccante decente nell’asta del fantacalcio per poi veder sfilare ancora disponibili giocatori comparabili a prezzi più contenuti, e finendo per mangiarsi le mani.
I due, al momento, sono infatti i giocatori più pagati a roster e anche per questo motivo partono in quintetto insieme alla coppia di guardie formata da Russell e Jordan Clarkson (rifirmato con un quadriennale da 50 milioni, ma almeno inizialmente usato da sesto uomo in uscita dalla panchina) e a uno tra Julius Randle e Larry Nance Jr., che già dalla scorsa stagione si sono divisi il posto da 4 titolare. Sembra partire in vantaggio il primo, che offre uno skillset più articolato rispetto al secondo (sostanzialmente un lungo di energia e atletismo con un discreto tiro dalla media) grazie a ottime doti di passaggio, un’eccellente presenza a rimbalzo difensivo e maggior talento nel creare il proprio tiro, pur risultando prevedibile nella sua continua ricerca della conclusione mancina. La conformazione fisica e le doti nel passaggio hanno fatto pensare a molti (ottimisti) tifosi dei Lakers che la maturazione di Randle lo possa avvicinare a una sorta di Draymond Green, del quale però non ha neanche lontanamente l’impatto difensivo né il tiro dalla lunga distanza.
I cinque formano un quintetto piuttosto standard, che può essere sparigliato e reso più moderno dall’inserimento di Brandon Ingram. Inizialmente l’ala da Duke uscirà dalla panchina per abituarsi lentamente ai ritmi e soprattutto alla fisicità della NBA, ma è chiaro che i Lakers si aspettano di vedere più di un lampo da un giocatore potenzialmente in grado di essere determinante su entrambi i lati del campo. Ingram deve iniziare a costruirsi un futuro da creatore di attacco, non solo cioè realizzatore in proprio ma anche palleggiatore e passatore in grado di spaccare le difese e creare per i compagni – cosa che dovrebbe risultargli facilitata dall’altezza (ufficiosa) di 2.06, da cui svetta sugli avversari nel suo ruolo di giocatore perimetrale. La condizione fondamentale è quella di irrobustirsi, ma soprattutto di farlo nel modo giusto, un processo che richiede anni per essere effettuato a dovere e verso il quale i Lakers non devono avere troppa fretta, visto che l’obiettivo di questa stagione non è vincere ma crescere.
Con una coppia di ali come Ingram e Deng (a suo agio come 4 ancor più che da 3 in questa fase della carriera) Walton ha quindi la possibilità di mettere in campo un quintetto piccolo che migliori la fluidità e la velocità di gioco, magari azzardando Randle da 5 in modo da schierare contemporaneamente tutti i giovani migliori a disposizione nel roster. Il resto della panchina, però, non offre alternative particolarmente intriganti. La batteria di guardie di riserva è formata da José Calderon (veterano arrivato da New York via Chicago), Marcelinho Huertas (confermato con un biennale dopo un’annata da rookie con trentadue primavere) e Lou Williams (realizzatore istantaneo che pensa principalmente al proprio tiro e a guadagnarsi liberi). Gli ultimi spiccioli di minuti rimanenti in posizione di ala sono da spartirsi tra l’eterno Metta World Peace e il confermato Thomas Robinson, mentre Nick Young — nonostante un ottimo training camp e la partenza in quintetto alla prima stagionale — sembra ormai lontano dai progetti a lungo termine di Walton, pur vantando un contratto garantito per le prossime due stagioni. Tra i centri alle spalle di Mozgov invece trovano spazio il sottodimensionato Tarik Black, il rookie pescato al secondo giro Ivica Zubac e soprattutto il cinese Yi Jianlian [poi tagliato prima dell’inizio della stagione, ndr], di ritorno nella NBA dopo un’estate olimpica trascorsa con la propria nazionale che gli ha fruttato un curioso contratto da 8 milioni: solo 250.000 dollari sono garantiti, mentre gli altri sono da conquistare in base a bonus vari dopo 20, 40 e 58 partite disputate. Un roster profondo, quello sì, ma che non sembra in grado di poter arrivare oltre le 30 vittorie soprattutto per una mancanza di talento a livello difensivo, visto che Deng è la miglior scelta sul perimetro e Mozgov nell’ultima stagione – contrassegnata da un’operazione estiva al ginocchio – è apparso ben lontano dallo standard di rendimento visto nel 2014-15.
Per concludere occorre ricordare anche la spada di Damocle che ormai da tre anni pende sulla testa dei Lakers. Nell’accordo siglato nel 2012 per arrivare a Steve Nash, i Lakers hanno ceduto ai Suns i diritti sulla loro prima scelta al draft 2015, con la sola protezione nel caso in cui fosse finita in top 3. In altre parole: solo conquistandosi uno dei primi tre posti nella lottery (conquista che coincide con pessime annate nei risultati) la scelta sarebbe rimasta a L.A. Eventualità che si è prontamente verificata nelle ultime due stagioni (grazie alle quali sono arrivati Russell e Ingram) ma con la quale i Lakers si troveranno a fare i conti anche nella prossima: se il loro ordine di scelta li vedrà di nuovo in top 3 potranno tenere la scelta anche nel Draft 2017; in caso contrario la prima finirà a Philadelphia (che nel frattempo ha acquisito i diritti da Phoenix) già dall’anno prossimo oppure lo farà sicuramente nel 2018, quando non avrà più protezioni. Ad aggiungere ulteriore beffa, se i Lakers perdessero la scelta 2017 vedrebbero svanire anche quella del 2019, inserita nella trade per arrivare a Dwight Howard con gli Orlando Magic nel 2012. E anch’essa sarebbe senza protezione, quindi di fatto i Lakers stanno “combattendo” per tenere due scelte nello stesso anno.
Anche alla luce di questo tutt’altro che secondario dettaglio, lo scenario ideale per i Lakers 2016-17 è quindi quello che li vede iniziare a costruire una cultura del lavoro e a mettere contemporaneamente in vetrina i propri giovani, da far crescere sotto la guida di coach Walton. Allo stesso tempo, però, non sembra sbagliata l’idea di perdere il più possibile per poter aggiungere in estate un’ulteriore pedina da un draft che si preannuncia molto interessante, per poi tornare a cercare di vincere il più possibile dalla stagione successiva. Il tutto aspettando di capire se Jim Buss manterrà fede alla parola data facendosi da parte e dando così inizio a una nuova era sotto il sole di Los Angeles. Perché a volte perdere, per quanto sia doloroso, può rivelarsi l’unica possibilità per tornare alla vittoria.