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La metamorfosi di Gallardo
07 apr 2017
Da "Bambolina" a "Napoleon": in pochissimo tempo Gallardo è diventato un grande allenatore e un monumento del River.
(articolo)
14 min
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Il suo apodo da calciatore, “El Muñeco”, la bambolina, Marcelo Gallardo ha sempre dimostrato di saperlo indossare con classe, intelligenza e anche un po’ di malizia. È evidente che nessuno, nel concepirlo, stesse pensando a un giocattolo per bambine di buona famiglia: l’accostamento più immediato è a quel tipo di bambole che popolano l’immaginario collettivo horror dei b-movie.

Fedele al ruolo che la commedia delle parti gli ha destinato, e pronto a interpretarla con coerenza, Gallardo ha perennemente dissimulato il suo soprannome portandolo ai limiti dell’inganno.

Cinque minuti in slowmotion di Gallardo contro i giocatori del Boca, scene da cavallerie rusticana bonaerense.

Il mondo di Marcelo Gallardo è popolato da un costante contrasto degli opposti fin da bambino, quando a Merlo – sua città natale – preferiva far volare gli aquiloni invece che giocare a calcio, la grande passione di tutta la sua famiglia; quando un suo cugino lo portò per la prima volta a giocare una partita organizzata, Gallardo dovette abbandonare il campo dopo pochi minuti, perché vagava senza capire il senso di quello che gli accadeva intorno. Qualche ragazzino lo schernì, e andò a finire che già volavano piñas.

Questo è da sempre, Gallardo. Lo scherzo più grande ce lo ha fatto nel passaggio dal campo alla panchina: ci aveva fatto credere di essere un meraviglioso solista del pallone, e invece adesso sappiamo che nascondeva l’impeto e l’autorevolezza di un condottiero. Da Muñeco si è trasformato in Napoleón.

Fino alla prossima Waterloo, ovviamente.

Metamorfosi

Gallardo è un monumento del River Plate: l'unico nella storia del club ad aver vinto la Copa Libertadores sia da giocatore che da allenatore. Ma per evolversi, completarsi e diventare il punto di congiunzione fra le due epoche d’oro vissute dai “Millonarios” negli ultimi trent’anni ha dovuto compiere un cammino di crescita ed espiazione fuori da Nuñez, il quartiere di Buenos Aires dove affondano le radici del River.

Lontano dal Monumental ha cercato di raffinare la propria preparazione, abbinare una conoscenza tattica all’avanguardia con il bagaglio di valori che fanno parte del DNA di ogni prodotto riverplatense.

Come uno chef sperimentale ha esplorato diversi angoli del mondo alla ricerca di tre ingredienti fondamentali: ha viaggiato in Europa e negli Stati Uniti per guadagnarsi una visione d’insieme sull'evoluzione moderna del calcio. In Francia ha recepito i nuovi trend strategici; negli USA quelli dell'allenamento atletico. E poi c’è stato l'Uruguay, il suo personalissimo modo di riportare (quasi) tutto a casa: lì ha trovato la mistica e il proprio personale punto di partenza.

Con la maglia del PSG.

Si è trasformato da calciatore ad allenatore in dieci giorni, durante l’estate del 2011: una metamorfosi repentina, nella quale ha trovato il compimento di un processo che incubava da anni. Ha definito l’ultima partita con il Nacional di Montevideo «il giorno più bello della mia vita»: non perché fosse l’ultimo, evidentemente, ma per essere il primo di una nuova era.

Di voler diventare allenatore lo aveva capito almeno da sei, sette anni. Cioè da quando la sua mente di calciatore, occupata perlopiù dal pensiero di se stesso in campo e di come impiegare il tanto tempo libero fuori, ha cominciato a interessarsi maggiormente al perché delle cose calcistiche. Sorgevano domande da rivolgere agli allenatori e ai preparatori, che spesso però - intimoriti o forse semplicemente incapaci di restituirgli le risposte che avrebbe voluto sentire - non sapevano sfamare la sua curiosità. Chiedetegli quale sia il suo unico rimpianto nella fase di formazione: vi risponderà che gli sarebbe piaciuto lavorare con Bielsa a trent'anni.

Marcelo Bielsa è la scintilla che ha appiccato l’incendio, alimentato poi da tutta una ridda di fonti di combustione: Sacchi, Guardiola e Jorge Sampaoli. Come lui esponente di quella generazione di tecnici argentini nati negli anni ‘60 e '70 che stanno mettendo timbri indelebili sul grande calcio europeo, e che hanno nel “Loco” una fonte d’ispirazione, o un feticcio.

Quando Gallardo e Sampaoli si sono incrociati per la prima volta, nel 2011, nel secondo turno della Copa Sudamericana, la gara d’andata in Cile è andata al santafesino. Al ritorno Gallardo non fa neppure in tempo a pianificare la rimonta: con due fiammate in una manciata di secondi a inizio match, la “U” stecchisce il Nacional e le sue velleità di ribaltare il risultato.

Nel post-partita Gallardo si dice enormemente impressionato dal gioco dei cileni e pronostica per loro un futuro sorprendente nella competizione. In Uruguay sorridono pensando all'alibi di un giovane tecnico alla prima sconfitta della sua sua carriera, e invece si tratta di una precoce dimostrazione di lungimiranza. L’Universidad de Chile quella Sudamericana la vincerà.

Le cosiddette sconfitte edificanti: due minuti devastanti. Per comprenderne la portata, focalizzarsi sulla faccia di Gallardo dopo il secondo goal.

Il talento di gestire il tempo

Tra le doti del Gallardo allenatore, la precocità è tra le più sorprendenti. Nel giro di tre anni è stato in grado di dipingere, nel grande arazzo della storia del River, il dettaglio di un biennio - quello 2014-15 - emozionante, caratterizzato da un gioco così peculiare e brillante da far gridare molti al ritorno de “La Máquina”.

Con Gallardo in panchina, il River ha saputo riportare il livello del calcio sudamericano vicino a quello europeo, proprio nel momento storico di maggior divario. Il River ha affrontato a testa alta il Barcellona della MSN, e se il lanciatissimo processo di crescita si è arrestato - o ha almeno rallentato vistosamente - è solo perché le disastrose condizioni economiche del calcio argentino rendono ormai praticamente impossibile, a quelle latitudini, il concetto di ciclo duraturo.

Un’azione che illustra l’importanza delle fasce nel gioco delle squadre di Gallardo.

Gallardo è un allenatore a cui basta veramente poco tempo per trasmettere le sue idee e la sua metodologia alla squadra. Ma il tempo è comunque un bene che guarda con bramosia, specie dopo essere passato dall'averne da vendere (quando era ancora un calciatore) al doverlo rincorrere. Il mestiere dell’allenatore, oggi, è sempre più stretto tra impegni extra-campo e il tempo per lavorare con la squadra è sempre di meno.

È attorno al concetto di tempo che ruotano le motivazioni per le quali Gallardo ha scelto di prendersi due anni di pausa. Non fra la fine del calcio giocato e l'inizio di quello allenato, ma fra la prima e la seconda esperienza, nel 2012.

Aveva bisogno di tempo per sé, ma quando il Nacional gli ha offerto la panchina ha capito subito che non poteva perdere l'occasione di cominciare in un club che conosceva perfettamente, con strutture di buon livello e in un ambiente ideale come il calcio uruguagio. È stata una scelta ripagata dal successo: ha vinto il campionato già nel suo primo semestre, e dopo altri sei mesi ha firmato il bis. Una partenza bruciante, dopo la quale era impensabile concepire uno stop. Non così impensabile se l’obiettivo reale era quello di prepararsi all’inevitabile destino di ereditare la panchina del River Plate.

Volver.

Rivoluzioni copernicane

Con tempismo, arriva all’Antonio Vespucio Liberti nel momento più adatto: è il Giugno del 2014, e l'ambiente è scosso per la brutale fine dell'ennesima era Díaz. La squadra però è ben congegnata, e ha recuperato l'abitudine alla vittoria grazie al titolo conquistato a maggio, il primo dopo la retrocessione del 2011.

Rispetto al calcio furbo ma datato di Don Ramón, Gallardo opera una rivoluzione totale portando modernità e organizzazione a tutti i livelli. Per la prima volta, nello staff tecnico del River Plate trova spazio una signora, la mental-coach Sandra Rossi: professionista di alto profilo e allo stesso tempo storica tifosa millonaria. Nel contesto machista del calcio argentino è un moto copernicano più significativo di quanto possa sembrare.

Ma anche in campo, il cambiamento è radicale: Gallardo, che pure ha condiviso quell’ambiente, vuole qualcosa di diverso dalla vecchia concezione di accomodarsi sul terreno di gioco, far valere i gradi del “Más Grande” e aspettare il momento in cui qualcuno risolva la questione.

Il River Plate di Gallardo parte dall’imperativo di essere offensivo, come da tradizione del club, ma anche – dettami appresi in Europa, e in qualche modo estranei alla visione della Primera - in grado di adattarsi all’avversario. Dall'Uruguay invece, il neo tecnico si porta la convinzione che il carattere sia importante tanto quanto la tecnica o la tattica, concetto probabilmente appartenente più all’universo immaginifico bostero, cioè degli arcirivali del Boca, che a quello de las gallinas.

L'internazionalizzazione del River Plate si traduce in un dominio continentale mai visto prima d'ora dalle parti del Monumental, con la conquista in serie di Copa Sudamericana, Recopa e Copa Libertadores. Tutto nel primo anno di gestione.

Della Sudamericana 2014, vinta senza nemmeno una sconfitta, l’istantanea più memorabile viene dalla semifinale contro il Boca. Una vendetta sentita, giunta a dieci anni dal dolore del Superclásico perso in semifinale di Libertadores nel 2004. Per Gallardo la vittoria aveva in qualche modo anche un valore personale: due giorni prima della gara di ritorno era mancata sua madre e ancora oggi è piacevole rivedere tutti i giocatori della Banda abbracciarsi attorno al proprio tecnico, dopo il gol di Pisculichi.

«Una notte cinematografica per Gallardo»

Nella Recopa strappata al San Lorenzo, l’uomo immagine è per forza di cose il giocatore autore dei due gol decisivi, il “Pato” Sánchez. Il “Pato” è il vero simbolo archetipico del River di Gallardo, non il calciatore più dotato tecnicamente né fisicamente, ma sicuramente il più importante sul piano strategico per un motivo molto semplice: fa tutto, alla massima velocità e con il massimo della concretezza.

La posizione di mezzala destra è solo un puntino sulla lavagna tattica, perché Carlos Sánchez è in realtà anche un’ala aggiunta, un lucido mediano che recupera palloni, un prolifico incursore: tutto nella stessa partita, a seconda delle fasi di gioco.

L’aspetto interessante è che Sánchez rappresenta, in qualche modo, una delle fotografie più nitide dei meccanismi che regolano l’orologio calcistico “gallardiano” pur essendo l’estremo opposto del Muñeco: il manifesto del suo calcio da tecnico è la sua nemesi da giocatore. Gallardo era inventiva, estetica spinta oltre i limiti. Il pallone come dogma per la creazione del gioco.

Il Gallardo allenatore vuole invece quell’intensità, verticalità e sincronismo nei movimenti che hanno permesso al maestro Bielsa e all’ammirato collega Sampaoli di esportare la nouvelle vague argentina in Europa. La differenza sostanziale è che Gallardo lo fa nel fútbol latinoamericano, quindi con interpreti che lo rendono ancora più puro, e con avversari che, per la maniera in cui fronteggiano certe situazioni, ne sublimano persino la resa artistica.

Rispetto alla corrente bielsista, Gallardo dimostra di essere molto meno ancorato a dettami incrollabili: la sua idea di calcio trascende dal legame compulsivo e maniacale a un modulo perché ne è superiore, e poggia, piuttosto, su alcuni capisaldi non del tutto scontati. Il primo, eredità dei suoi trascorsi da calciatore, è l’importanza della tecnica: «Se in una squadra non c’è tecnica, tutto il resto diventa complicato» scrive su Twitter a cavallo tra la fine dell’esperienza al Nacional e l’inizio dell’avventura al River. In quel periodo i social network diventano il diario sul quale snocciolare aforismi che, raccolti in florilegio, ci restituiscono il suo manifesto da DT: l’importanza del possesso della palla e delle pause, antitesi della vertiginosità delle manovre bielsiste ma anche rimedio all’imprecisione, la necessità di essere sempre offensivi e di sprimacciare la manovra in ampiezza e profondità, perché anche un passaggio sulle fasce aiuta a pensare: «Per pensare c’è bisogno di un tempo». L’ennesima dimostrazione di come il tempo sia non solo centrale nella sua concezione del calcio ma anche la costante attraverso la quale interpretare la sua carriera.

La metamorfosi dei suoi schieramenti non prescinde mai dal doble cinco, un assetto in cui il cardine è Ponzio, forse il suo giocatore feticcio più importante, per il quale ha ritagliato un ruolo su misura, capace di fondere le sue vite professionali (ha giocato, in passato, anche al centro della difesa): a lui sono demandati compiti di rottura del possesso avversario e prima impostazione, nell’ultima stagione addirittura da difensore aggiunto, quando scala sistematicamente, in salida lavolpiana, a fianco dei due centrali. Così come in una squadra veramente gallardista non può venire meno la propulsione sulle fasce di laterali bassi capaci di attaccare la profondità come Milton Carrasco o Moreira.

Gallardo chiede estrema mobilità e aggressività ai terzini ma anche alle mezzali, che educa all’uscita in pressione sul portatore di palla avversario; anche per questo, con l’affinamento della sua concezione di gioco, è scomparso dal campo la figura di un enganche puro senza compiti di pressione come Pisculichi, sostituita da calciatori dotati di una spiccata propensione atletica a un dinamismo esasperato, capaci di garantire una pressione costante altissima sul campo, come il Pity Martínez o lo stesso Driussi (che pur avendo i crismi della seconda punta è stato spesso utilizzato da mezzala o esterno a centrocampo). Contingentemente, però, il Pity e Driussi sono anche giocatori molto tecnici, con una grande sensibilità nella gestione del possesso e ottima tecnica di passaggio, che sa portare su livelli snervanti i tentativi di recupero avversari.

Il Pity e Driussi, entrambi poco più che ventenni, con Gallardo hanno saputo farsi impersonificazione di un’evoluzione della scuola tattica argentina che, col “Muñeco” al timone, cerca di combinare tratti salienti del futbol albiceleste, imperniato sulla gestione del ritmo con la palla tra i piedi, all’atletismo e all’intensità fisica richiesta dal calcio contemporaneo.

La più grande tela dipinta dal Marcelo Gallardo allenatore si trova nel corridoio in cui sono esposte le opere della collezione Libertadores del 2015, dove si trova l’acquaforte del suo personale Mineiraço.

Sono i quarti di finale, il River incrocia il Cruzeiro e ha l'obbligo di andare a Belo Horizonte a rimontare lo 0-1 subito in casa nella gara di andata. Una sconfitta pesantissima, la prima casalinga in ambito internazionale per Gallardo, arrivata nel finale di una partita dominata dagli argentini. È un River che ha cambiato qualcosa rispetto al semestre precedente: non gioca più con il 4-3-1-2, a causa dei problemi di Pisculichi, figura centrale ed insostituibile. Si presenta invece con un 4-4-2 più lineare, che gli garantisce superiorità numerica sulla linea difensiva e a centrocampo, e in cui l'interruttore della luce tecnica non è più affidato a un fantasista, ma a una seconda punta tanto folle quanto geniale: Teofilo Gutierrez.

Sul campo del Cruzeiro, il River Plate mette in mostra tutti gli effetti rivoluzionari apportati da Marcelo Gallardo. Non fa la partita che la tradizione, la filosofia millonaria e le convinzioni storiche suggerirebbero: fa la partita che serve per passare il turno. E la fa nel modo più bello, completo ed elevato possibile, tanto che nessuno può stracciarsi le vesti se la prestazione messa in atto dai “Millonarios” la notte del 27 Maggio 2015 viene considerata la partita di più alto livello giocata da una formazione sudamericana negli ultimi anni. È un River allo stesso tempo lucido e intenso, cinico e dominante, generoso con chi guarda e spietato con chi affronta. E i tre gol sono un compendio delle due vite calcistiche di Gallardo.

La raffinatezza della sua essenzialità si vede nel primo gol, al ventesimo minuto: il terzino sinistro Vangioni si alza per fornire appoggio al regista Ponzio e verticalizza con immediatezza, mettendo il pallone fra i due centrali brasiliani, che vengono ingannati dal movimento di Teo Gutierrez: il colombiano prima sembra voler venire incontro alla palla, poi scatta come una molla per raccogliere la sponda perfetta di Rodrigo Mora e controllare il tempo, che congela finché non si realizza l'inserimento vincente del “Pato” Sánchez.

La capacità di Gallardo di insegnare alle proprie squadre a piegare il tempo a proprio favore è invece la chiave di lettura secondo la quale interpretare il secondo gol, che arriva quando il cronometro dice 44:50 e all'avversario non resta ormai più spazio di reazione. Nasce da una palla inattiva, un bagaglio indispensabile per le squadre vincenti di questa epoca. E dimostra ancora una volta che il “Muñeco” ha capito che gli allenatori devono essere al passo coi tempi.

Reminiscenze della vis più artistica di Gallardo, invece, echeggiano nel terzo gol di Gutierrez, quello della gloria. È il gol più bello della Libertadores 2015. Cercare aggettivi per definire il controllo, il palleggio, la coordinazione, la definizione è un esercizio stilistico e retorico inutile. Osservarlo a loop significa trovarci ogni volta una sfumatura nuova.

Conquistare ancora, conquistare altro

Sono passati quasi due anni da quella notte di Belo Horizonte: Napoleón ha fatto altre conquiste storiche, ha perso inevitabilmente qualcosa per strada ma ha anche lasciato numerose altre tracce (tra cui l’affinamento di talenti del calibro di Alario e Driussi, entrambi a segno nell’esordio in Libertadores a Medellin).

Quella appena iniziata è una Libertadores completamente nuova, che dura di più, che ha cambiato formato e che porta sfide inedite. Ma Marcelo Gallardo, timore delle sfide nuove, ha dimostrato di non averne mai avuto: per lui sembra essere solo questione di adattamento. E dopo aver vinto la metà biancorossa di Buenos Aires e tutta l’America Latina, Napoleón sembra potrebbe anche partire alla conquista di un nuovo continente: l’Europa.

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