Dopo la rottura del contratto con la Lazio a luglio, due giorni dopo il comunicato ufficiale che lo annunciava come il nuovo allenatore biancoceleste per la stagione in corso, Marcelo Bielsa somiglia a uno spettro che tormenta gli allenatori in difficoltà in giro per il mondo. La lista di panchine a cui è stato accostato negli ultimi mesi è davvero lunga: l’Inter in Italia; la Nazionale “Tricolor” e il Cruz Azul in Messico; la Nazionale statunitense; l’Olympique Marsiglia e più di recente il Lille in Francia.
Le dimissioni di Bielsa hanno rappresentato il primo spartiacque dell’annata laziale e, probabilmente, la sliding door della carriera di Simone Inzaghi, subentrato a Stefano Pioli a 7 giornate dalla fine dello scorso campionato e promesso alla Salernitana (la seconda squadra di Claudio Lotito) prima di essere confermato come allenatore della Lazio. Non sapremo mai quale sarebbe stata la traiettoria della carriera di Inzaghi se Bielsa non si fosse dimesso e lui, come da accordi, si fosse seduto sulla panchina della Salernitana: col senno di poi, avrebbe meritato da subito la riconferma, anche se la velocità con cui si sta imponendo ad alti livelli, guidando la Lazio alla miglior partenza in campionato dell’era Lotito, era davvero inaspettata.
Continuità e pragmatismo
Se Bielsa avrebbe segnato una rottura netta con il recente passato, nella comunicazione e nei rapporti con società, stampa e tifosi, nella rosa e nello stile di gioco; con Inzaghi si è scelto invece di dare continuità al finale dello scorso campionato, pur con gli ovvi cambiamenti nella rosa dopo il calciomercato estivo.
Da un allenatore dogmatico e inflessibile nei princìpi di gioco, che avrebbe di certo costruito una struttura tattica elaborata, si è così passati a un allenatore concreto e flessibile, che ha adattato il modo di giocare della Lazio alla rosa a sua disposizione, privilegiando le caratteristiche e le qualità dei propri giocatori a una struttura tattica organizzata e riconoscibile. Intervistato dal Corriere dello Sport, Inzaghi si è schierato apertamente al polo opposto rispetto a Bielsa: «Faccio fatica io a conoscere le idee di Sampaoli e Bielsa, non capivo come potessero fare tanto presa».
Svanito in fretta l’hype per Bielsa, i biancocelesti hanno vissuto un’altra estate dimessa: il grande colpo di mercato, Ciro Immobile, ha bilanciato la partenza di Antonio Candreva, mentre il record negativo di abbonamenti dell’era Lotito è stato ritoccato al ribasso (addirittura sotto le 10mila unità). Per il resto alla rosa sono stati aggiunti due difensori dominanti dal punto di vista fisico (Bastos e Wallace), un terzino sinistro veloce e potente, ma tecnicamente rivedibile (Lukaku), due giocatori tecnici a centrocampo e sulla trequarti che però hanno visto pochissimo il campo (Leitner e Luis Alberto, 40 minuti in due). A completare la squadra sono stati così aggregati, promossi dalla Primavera o al rientro dai vari prestiti, diversi ragazzi cresciuti nel settore giovanile, due dei quali, Lombardi e Murgia (sul quale Inzaghi si è sbilanciato, prospettando un grande futuro), si sono tolti la soddisfazione di segnare il primo gol in Serie A.
Inzaghi si è finora dimostrato un gestore piuttosto che un allenatore di princìpi e prima di infilare la striscia di risultati utili che hanno portato la Lazio al quarto posto ha dovuto aspettare di avere a disposizione i tre giocatori ai quali ha deciso di legare in maniera indissolubile i destini della sua squadra: Felipe Anderson, Ciro Immobile e Keita Baldé. I tre hanno giocato insieme da titolari per la prima volta contro l’Empoli alla quinta giornata: da quel momento in poi la Lazio non ha più perso. Una coincidenza non per forza significativa, ma utile per inquadrare l’importanza di Felipe, Immobile e Keita, i giocatori cui Inzaghi ha preso le misure per cucire lo stile di gioco della sua Lazio. Qualche numero per mettere a fuoco le loro responsabilità: Felipe Anderson è il giocatore che ha tentato il maggior numero di dribbling in campionato (74, di cui 43 riusciti); Keita, che ha giocato meno, è comunque nella top 10, assestandosi all’ottavo posto con Tello e Saponara (41 dribbling, di cui 23 riusciti); Immobile è il secondo giocatore della Serie A, dopo Edin Dzeko, per numero di tiri (58).
Tutto ruota intorno alle loro iniziative personali e lo stile di gioco della Lazio è pensato per dare loro campo in cui correre. Ai biancocelesti non interessa controllare la partita col pallone – anzi il loro possesso palla medio è sotto il 50% (49,3%) – ma avere spazi da attaccare. Ciò si traduce spesso in un vero e proprio scollegamento del tridente rispetto al resto della squadra: Felipe, Immobile e Keita stanno alti e si occupano di ribaltare velocemente il fronte di gioco, i compagni rimangono a protezione della propria metà campo.
La tensione continua a giocare in verticale, a risalire il campo in pochi secondi, è evidente anche nelle fasi di possesso più ragionate. La costruzione della manovra dal basso non prevede movimenti o giocate codificate, ma soltanto piccoli aggiustamenti a seconda dello schieramento iniziale: se la linea difensiva è a 3 i centrali di fascia si allargano; se la difesa è invece a 4 i terzini si alzano all’altezza del mediano, la cui funzione è sempre quella di collegare i due lati della squadra, facendo da riferimento intermedio per cambiare fascia. Tutto è pensato per avere una circolazione sicura e minimizzare i rischi: le fasce rappresentano lo sbocco preferito per risalire il campo e raramente i difensori provano a tagliare le linee con una verticalizzazione attivando subito uno tra Keita, Immobile o Felipe Anderson. Inoltre, la disposizione a inizio azione protegge da eventuali ripartenze avversarie in seguito a errori in impostazione: 4 o 5 giocatori (i difensori più il mediano) sono subito pronti a ripiegare.
La disposizione a partire dalla difesa a 4.
La ricerca di una costruzione pulita dal basso non è comunque ossessiva: in caso di pressione avversaria, il piano B prevede il lancio lungo su una delle mezzali. Milinkovic-Savic è ovviamente il principale riferimento – il serbo ha ingaggiato ben 89 duelli aerei, secondo in Serie A solo a Falcinelli, vincendone 54, un dato inferiore soltanto a quello di Dzeko – ma in sua assenza Inzaghi può comunque contare su Lulic e Parolo. Qualunque sia il riferimento, il piano prevede che siano Immobile e uno tra Keita o Felipe Anderson a raccoglierne i frutti: le mezzali si allargano infatti nella loro zona per metterli nelle condizioni di ricevere la sponda e attaccare immediatamente la porta.
L’importanza di Keita e Felipe Anderson
Come per tutte le squadre verticali, che non puntano quindi a consolidare il possesso e a risalire gradualmente il campo, il momento più delicato è il passaggio dalla fase di costruzione a quella di rifinitura. Ed è interessante in questo caso il modo in cui Inzaghi utilizza le sue mezzali: quella dal lato del pallone si coordina con l’esterno d’attacco per favorire lo sviluppo dell’azione sulla fascia – solitamente la mezzala gioca in appoggio al terzino, mentre l’esterno fornisce ampiezza in zone profonde, ma nel caso in cui quest’ultimo si accentrasse, la mezzala deve compensarne il movimento tagliando dal centro verso la fascia – quella opposta invece si alza sulla linea degli attaccanti.
Ciò significa che le distanze in verticale si dilatano, il gioco tra le linee si fa più difficile e il cambio di fascia, diretto oppure sfruttando l’abbassamento della mezzala più lontana dal pallone o la posizione stretta del terzino sul lato debole, diventa l’unico modo per innescare la fase di rifinitura nel caso in cui la squadra avversaria riuscisse a ostacolare le combinazioni sulla catena laterale. Una volta che il pallone è arrivato all’esterno d’attacco sull’altra fascia la mezzala oppure il terzino – sempre rispettando il principio che uno si alza e l’altro resta in posizione, accentrandosi per giocare una transizione aggressiva o ripiegare a seconda dell’altezza in cui viene perso il pallone – si coordinano per sovrapporsi e facilitare la risalita del campo.
In questo senso è molto forte l’intesa tra Felipe Anderson e Basta, i cui tempi nelle sovrapposizioni si completano alla perfezione con una delle migliori doti del brasiliano: il passaggio filtrante.
Per chi segue la Lazio, vedere Felipe che si ferma sulla trequarti e tenta un passaggio a tagliare le linee, d’interno o d’esterno, sulla sovrapposizione del terzino o sul taglio di una mezzala o di Immobile, è ormai diventata una consuetudine. L’apporto del brasiliano è certamente più vario rispetto a quello di Keita, ancora troppo fossilizzato sulla ricerca ossessiva dell’uno contro uno e del tiro in porta, anche in situazioni impossibili. I limiti nel suo registro di gioco vengono comunque mascherati dallo stile offensivo della Lazio, che punta molto sugli isolamenti dei suoi esterni e li spinge di continuo a tentare giocate difficili: l’amore per la complicazione di Keita e Felipe Anderson, in questo caso, diventa addirittura necessario.
Individualismo senza palla
In fase di non possesso, per dare la possibilità a Keita, Immobile e Felipe Anderson di avere campo in cui correre, la Lazio difficilmente pressa il primo possesso avversario, se non in situazioni statiche come i rinvii dal fondo. Le azioni difensive iniziano all’incirca a metà campo, con una particolarità: assecondando la sua impostazione semplice e lineare, Inzaghi dispone la sua squadra esattamente secondo il modulo scelto, il 4-3-3 o il 3-5-2. Soprattutto in quest’ultimo caso, è una scelta decisamente insolita: Inzaghi, infatti, non fa scalare gli esterni, almeno inizialmente, né prevede rotazioni per formare una linea di difesa a 4. A Napoli, ad esempio, ha significato accettare l’uno contro uno dei tre difensori centrali (Basta, Wallace e Radu) contro il tridente azzurro, nonostante in campo ci fossero i giocatori per difendere a 4: Basta avrebbe potuto scalare a terzino destro, con l’abbassamento di Lulic sulla fascia opposta.
È il compromesso che Inzaghi ha trovato per avere in campo contemporaneamente Felipe Anderson, Keita e Immobile anche con il 3-5-2 – Felipe gioca da esterno destro a tutta fascia e ovviamente sarebbe sprecato se dovesse allinearsi con i difensori centrali – ma riflette anche una scelta precisa in fase di non possesso. La Lazio infatti non pressa, ma prevede piuttosto singole uscite individuali sul portatore di palla cui i compagni devono reagire decidendo se seguire in marcatura il proprio avversario o restare in copertura: la posizione alta dei due esterni del 3-5-2 permette quindi di avere due giocatori pronti a uscire sull’avversario che gioca largo (il terzino o chi per lui).
È chiaro che un sistema del genere, in cui ogni giocatore deve avere un facile accesso al diretto avversario, prevede adattamenti allo schieramento opposto. È evidente in modo particolare nelle rotazioni del centrocampo: se l’azione si sviluppa in zona centrale, una mezzala si alza sul mediano avversario oppure si affianca a Immobile se non ha né Keita né Felipe Anderson vicini. Il problema è che i compagni alle spalle difficilmente scalano nei tempi e nei modi più adatti per coprire chi esce: attirare fuori posizione un biancoceleste e trovare spazi nello schieramento della Lazio, sulle fasce alle spalle degli esterni oppure tra le linee, ai lati o alle spalle del mediano, è quindi relativamente semplice per le squadre avversarie.
Il sistema di recupero palla è realmente affidato alle iniziative dei singoli e per questo è importante disporsi in modo tale da poter uscire tempestivamente sull’avversario diretto, anche a scapito della solidità del blocco difensivo: la Lazio è così la squadra che tenta più contrasti di tutte (21,2 in media a partita), ma è solo nona per numero medio di intercetti (15,6 a partita). Quest’aggressività non è però incanalata in un sistema strutturato: le disconnessioni tra i reparti o all’interno dello stesso reparto sono davvero frequenti. Spesso la linea difensiva dà la sensazione di essere composta da due emisferi separati: la metà sul lato della palla accorcia, la metà sul lato debole resta in posizione, lontana dai compagni ed esposta all’uno contro uno o all’inferiorità numerica. Quando difende a 3 il comportamento è variabile: contro l’Empoli, ad esempio, de Vrij accompagnava il centrale di fascia sul lato della palla, mentre quello sul lato debole restava in posizione; contro il Napoli la marcatura specifica di Basta su Insigne portava il serbo ad allontanarsi continuamente da Wallace e Radu, aprendo uno spazio sfruttato da Hamsík in occasione dell’1-0.
Radu e de Vrij sono vicini, Wallace deve controllare sia Saponara che Pucciarelli.
Ancora più sistematica è la reticenza nell’accompagnare i movimenti in avanti dei centrocampisti. La linea difensiva resta sempre bloccata, permettendo agli avversari posizionati alle spalle del centrocampo di ricevere in maniera piuttosto agevole e sabotando qualsiasi velleità di un pressing maggiormente organizzato. Ancora una volta, le caratteristiche dei giocatori vengono prima di tutto, anche a costo di spezzare la squadra in due e dar vita a scene grottesche (qui Wallace ad esempio resta piantato al limite dell’area incurante di quello che fanno i compagni, aspettando Nestorovski come un torero che aspetta di essere attaccato dal toro): Inzaghi evidentemente non vuole togliere i suoi difensori centrali dalla loro comfort zone, spingendoli ad affrontare situazioni dinamiche che non sanno come gestire (sia se devono accorciare in avanti o scappare all’indietro), e si fida molto delle loro qualità individuali.
La semplicità paga
Il rischio finora sta pagando e il successo della Lazio dimostra come non esista una via “giusta” per raggiungere i propri obiettivi. Si può costruire un’impalcatura tattica complessa e organizzata in modo maniacale (vedi l’Atalanta) oppure mettere le caratteristiche dei giocatori al primo posto, creando quel minimo di contesto che ne esalti i pregi e cerchi di nascondere, o quanto meno incanalare, i difetti.
Aver rilanciato ad alti livelli Keita, Immobile e Felipe Anderson, una cosa decisamente non scontata visti i loro precedenti, è finora il merito più grande di Inzaghi. In maniera diversa, tutti e tre stanno giocando la migliore stagione della loro carriera: Keita ha già eguagliato il numero di gol segnati nello scorso campionato (4) e di questo passo ci metterà poco a ritoccare il record personale di reti stagionali in Serie A (5, nel 2013/14); Immobile viaggia alle medie realizzative tenute a Pescara (ma in Serie B), grazie a un sistema che lo coinvolge molto poco nella costruzione della manovra e non gli chiede di abbassarsi per far inserire i centrocampisti, ma gli permette di guardare sempre la porta, allungando le difese e attaccando di continuo la profondità; Felipe Anderson sta realmente dando un contributo a tutto tondo e la sua crescita, che forse non viene sottolineata nella giusta maniera, è la medaglia più preziosa che Inzaghi può appuntare sul suo petto.
Senza Candreva, le responsabilità del brasiliano sono cresciute: Felipe ha aumentato la propria partecipazione al gioco (45,3 passaggi per 90 minuti, il dato più alto della sua carriera), è il principale creatore di occasioni della Lazio (28 passaggi chiave e 5 assist) e ha pure fatto il salto di qualità nella predisposizione al sacrificio in fase di non possesso. Già con Pioli gli veniva chiesto di correre dietro al terzino avversario, quest’anno ha accettato di giocare da esterno a tutta fascia e sta mostrando un’aggressività che in passato non gli apparteneva: per rendere l’idea, Felipe è il quarto giocatore del campionato, insieme a Barreto, per numero di tackle tentati (59). Ci si potrebbe interrogare sull’utilità di un dato del genere, ma è comunque significativo per inquadrare il suo contributo complessivo al gioco della Lazio: anche se a volte l’attrazione verso il pallone e la ricerca continua della giocata risolutiva lo porta a muoversi in maniera un po’ confusa e a tentare cose impossibili, il brasiliano sembra davvero vicino a ripagare le aspettative deluse lo scorso anno e a imporsi definitivamente come uno dei giocatori più forti e decisivi della Serie A.
Keita, Immobile e Felipe Anderson indirizzano ogni giocata della Lazio, ma in realtà il sistema si regge sul lavoro sovrumano dei centrocampisti, chiamati a coprire tutto il campo nel vero senso della parola. In verticale, alzandosi sulla linea degli attaccanti per occupare e aggiungere centimetri in area di rigore – anche se mancando l’effetto sorpresa degli inserimenti in corsa da dietro, il loro apporto offensivo è limitato. Vedi Parolo, che ancora si deve sbloccare – e per mettere Keita e Felipe Anderson nelle condizioni di ricevere e creare occasioni, ma ripiegando anche fin sulla linea difensiva per nascondere le disconnessioni tra i difensori; in orizzontale, compensando il movimento degli esterni in fase di possesso e coprendoli in quella di non possesso. Il dinamismo dei vari Lulic, Parolo, Biglia, Milinkovic-Savic, Cataldi è fondamentale per sostenere uno sforzo del genere e permettere ai tre davanti di decidere le partite.
È evidente che Inzaghi si fidi molto delle qualità individuali dei suoi giocatori e abbia concentrato i suoi sforzi nel creare la migliore combinazione possibile, limitandosi a cambiare il vestito tattico a seconda delle partite: 4-3-3 per quelle da giocare in maniera più offensiva, 3-5-2, al contrario, per quelle in cui difendersi. È una scommessa affascinante, che lega in maniera indissolubile il rendimento della squadra a quello dei suoi giocatori migliori: la Lazio continuerà a giocarsi la Champions League finché Keita, Immobile e Felipe Anderson si manterranno su questi livelli – non a caso Inzaghi si è già mostrato preoccupato per le settimane in cui si giocherà la Coppa d’Africa e molto probabilmente perderà Keita – e i centrocampisti avranno le forze per sostenere lo sforzo che viene loro chiesto; viceversa, l’assenza di appigli a cui aggrapparsi quando non si riesce a sbloccare individualmente la situazione (vuoi per assenze forzate o cali di forma di uno o più giocatori del tridente) potrebbe rappresentare un problema di difficile soluzione e far scivolare la Lazio in zone di classifica meno nobili.