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La nascita della Premier League
14 mag 2018
Il passaggio dalla Football League alla Premier League nel 1992 è stato il punto di inizio di una rivoluzione arrivata fino ad oggi.
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15 min
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Oggi la Premier League è il campionato più ricco al mondo, oltre che il più seguito. Se è vero che le squadre inglesi faticano in Europa, e che le partite non offrono uno spettacolo tecnico e tattico sempre all’altezza delle aspettative, è vero anche che la Premier ha sedotto gli appassionati attraverso strutture all’avanguardia, stadi sempre pieni e i migliori giocatori al mondo. Confezionando un’esperienza televisiva inavvicinabile dagli altri campionati: a livello sportivo, economico e di entertainment, la Premier League sta conoscendo uno sviluppo senza precedenti, creando un gap difficilmente colmabile dagli altri campionati.

La situazione del calcio inglese, però, non sempre è stata così florida. La Premier League è diventata il prodotto che conosciamo oggi solo grazie ad alcune scelte lungimiranti, ma anche in aperto contrasto con le tradizioni e i principi che gli inglesi stessi vorrebbero diffondere attraverso lo sport. Il primo mattone di questo lungo processo di crescita – e al contempo di parziale perdita di identità - è stato posto a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.

Breve storia di come sono cambiati stadi e tifo in Inghilterra

La tragedia dell’Heysel del 29 maggio 1985 rappresenta il punto di non ritorno per il calcio europeo e in particolare per il calcio inglese. Prima dei drammatici eventi della finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, le istituzioni britanniche nascondevano, o comunque provavano a sminuire, la portata del fenomeno hooligans. E lo stesso faceva la UEFA. Di fronte alle immagini trasmesse in diretta internazionale delle 39 vittime dell’Heysel, però, risultò impossibile per chiunque continuare a chiudere un occhio.

Cominciò così la battaglia di Margaret Thatcher, l’allora primo ministro del Regno Unito, contro la faccia violenta del tifo. Sono state in particolare due le misure che hanno radicalmente modificato il tifo in Inghilterra: lo “Sporting Event Act” e il “Public Order”. Attraverso il primo venne limitato l’acquisto e il consumo di bevande alcoliche negli stadi, nei treni e nei bus speciali per i tifosi. Con il secondo venne permesso alla magistratura di interdire la presenza negli impianti sportivi di individui considerati violenti, costringendoli all’obbligo di firma in caserma. Dopo l’Heysel anche l’UEFA si dimostrò intransigente e squalificò i club inglesi dalle competizioni continentali per cinque anni: dalla stagione 1985-86 fino alla stagione 1990-91 (il Liverpool fino al 1991-92).

Il Leeds 1991/92, ultimo vincitore della Division One. In alto a destra si può vedere Eric Cantona (foto Getty Images).

Le nuove misure governative sulla questione hooligans, e più in generale sulla sicurezza negli impianti sportivi britannici, non furono abbastanza incisive da impedire, il 15 aprile del 1989, la strage di Hillsborough, dove persero la vita 96 tifosi prima della semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest. Pochi mesi dopo la tragedia fu pubblicato il Taylor Report, un’inchiesta che mirava a far luce sulle cause del dramma di Hillsborough e sulle varie criticità del sistema.

Oltre ad indicare nella mancanza di controlli della polizia il fattore principale del disastro di Sheffield, il Taylor Report ridisegnò le norme di sicurezza degli stadi inglesi, costringendo le società ad avviare progetti di costruzione o ristrutturazione dei propri impianti. Tra le modifiche profonde che hanno reso gli stadi inglesi quelli che conosciamo oggi, l’eliminazione delle barriere tra gli spalti e il campo di gioco, l’installazione delle telecamere interne di sicurezza e, soprattutto, la sostituzione delle gradinate per i posti in piedi con i sedili. Una misura che ha cambiato radicalmente l’esperienza stadio nel calcio inglese.

I tempi della Football League

L’onda del cambiamento non si limitò agli stadi e ai tifosi, ma puntò direttamente al cuore delle istituzioni e alle tradizioni del calcio inglese. Dal 1888 fino al 1992, la Football League era stata l’unica lega professionistica riconosciuta dalla Football Association. Composta da quattro divisioni (First Division, Second Division, Third Division and Fourth Divisions), sin dagli albori la Football League si era sempre basata sul principio di condivisione degli introiti. Per esempio la squadra che giocava in casa era obbligata a dare il 20% dell’incasso del botteghino alla squadra in trasferta. Almeno inizialmente, questo principio di condivisione crebbe di pari passo con lo sviluppo di tutto il movimento. Quando nel 1965 la BBC pagò 5000 sterline per trasmettere Match of the Day (storico programma calcistico inglese), la somma fu spartita equamente tra i 92 club delle quattro divisioni, per un totale di circa 50£ a testa.

Un sistema di questo tipo permetteva una solida uguaglianza tra i club. Malgrado anche in Inghilterra, generalmente, vincessero le squadre dalla tradizione e dal blasone più consolidato, non erano mai escluse clamorose retrocessioni (come il Manchester United nel 1974) o altrettanto clamorosi successi di club minori (come il Derby e il Nottingham Forest).

Mantenere un equilibrio di questo tipo divenne però sempre più complicato. Con l’aumentare dei potenziali guadagni, aumentò anche la pressione dei grandi club per averne una fetta più grande. La prima tradizione a crollare sotto i colpi del progresso fu proprio la condivisione degli incassi del botteghino nel 1983. Vennero così favorite le squadre più importanti e con stadi più capienti. Poi nel 1985, dopo aver minacciato per la prima volta una scissione dal resto della Football League, i club della First Division ottennero una nuova ripartizione degli introiti dei diritti TV: a loro il 50%, alla Second Division il 25%, alla Third Division e Fourth Division il restante 25%. Proprio l’incremento della domanda di calcio in TV negli anni ’80 è risultato il fattore decisivo per l’espansione globale del football inglese nei decenni successivi.

Negli anni ’70 e all’inizio degli anni’80 il binomio calcio-televisione non era ancora visto di buon occhio. In Sport, postmodernism & global TV (1994), il sociologo John Williams ne spiega il motivo: «Gli amministratori del calcio professionistico inglese non avevano un rapporto facile con le televisioni. Temevano che la copertura televisiva avrebbe ridotto il numero di spettatori negli stadi». Nel 1990 lo studioso di comunicazione Steven Barnett analizzava la questione anche da un altro punto di vista, più politico: «La trasmissione di calcio in tv toglie allo spettatore la libertà e l’esperienza di vivere l’evento in prima persona. Lo spettatore davanti allo schermo diventa prigioniero dei produttori, dei direttori e dei commentatori della tv».

Foto Getty Images

La Football League riuscì a tenere le tv fuori dal calcio fino al 1983, quando il profumo dei potenziali guadagni derivanti dalle sponsorizzazioni e dai diritti tv divenne troppo allettante per essere ignorato. ITV e BBC trovarono allora un accordo di due anni con la Football League per trasmettere live di un totale di 20 partite per 5.2 milioni di sterline. Negli anni successivi il valore dei diritti tv crebbe vertiginosamente, tanto che nel 1988 la Football League chiuse un accordo, stavolta quadriennale e in esclusiva con ITV, per 44 milioni di sterline per la trasmissione di 18 partite a stagione.

In soli cinque anni il valore dei diritti tv era praticamente quintuplicato: dai 2.6 milioni di sterline della stagione 1983 agli 11 milioni del 1988, e la crescita non accennava a fermarsi. I club della First Division, in particolare le cosiddette Big 5 (Manchester United, Liverpool, Everton, Arsenal e Tottenham), si resero conto presto che per massimizzare i guadagni e per riavvicinarsi ai top club europei dopo la squalifica dalle coppe europee per i fatti dell’Heysel, fosse necessario spartire gli introiti dei diritti tv esclusivamente tra le società della First Division, senza l’obbligo di dividere i ricavi con le divisioni minori.

Da qui la volontà di abbandonare la Football League per creare una nuova lega indipendente, la Premier League, attraverso cui trattare, da una posizione di forza, il rinnovo dei diritti tv, che stavano per scadere dopo il quadriennio 1988-1992. Attraverso questa scissione tutte le decisioni riguardanti la nuova Premier sarebbero state inoltre prese tramite votazione solo dai club della stessa Premier: un voto per ogni club e maggioranza fissata a due terzi.

La nascita della Premier League

Il 20 febbraio del 1992 nacque ufficialmente la Premier League. Il kick-off della nuova stagione fu fissato ad agosto con il coinvolgimento di 22 club: le prime 19 classificate della stagione 1991-1992 della First Division e i primi, i secondi e i vincitori dei play-off della Second Division.

A capo della nascente Premier League furono nominati Sir John Quinton (ex presidente della Barclays Bank) e Rick Parry (un importante consulente finanziario di Ernst & Young), che furono incaricati di trovare investitori disposti a finanziare la “super lega”. Dopo un tentativo iniziale, non andato a buon fine, di rinnovare gli accordi con ITV, Quinton e Parry vennero a sapere dell’interessamento di BSkyB per acquisire i diritti tv della Premier League.

BSkyB era nata nel novembre del 1990 dall’unione tra Sky Television e BSB (British Satellite Broadcasting). Nonostante la fusione avesse stabilizzato una condizione finanziaria pessima per entrambe le compagnie, alla fine del 1991 la nuova azienda di Murdoch continuava ad essere pericolosamente in rosso, con oltre 2 miliardi di sterline di debito e circa 1.5 milione di perdita a settimana. Per risollevare le sorti dell’azienda Murdoch avrebbe dovuto prendere una strada non ancora battuta da offrire ai propri abbonati. E in quel periodo storico la scelta si limitava a tre settori: contenuti pornografici, film, eventi sportivi in esclusiva.

Foto Getty Images

BSkyB alla fine decise di puntare sugli eventi sportivi e in particolare sulla Premier League, vista anche la scadenza ravvicinata dell’accordo sui diritti tv. Alla fine del 1991 iniziò un’asta molto agguerrita tra ITV e BSkyB con qualche intromissione da parte della BBC. Tra rialzi e contro-rialzi si arrivò al 18 maggio del 1992, quando BSkyB si convinse ad offrire la cifra monstre per l’epoca di 304 milioni di sterline per trasmettere in esclusiva 60 partite live all’anno per cinque anni. Un’offerta che soddisfò la maggioranza dei club della Premier (14 su 22, con due astenuti), consentendo all’azienda di Murdoch di aggiudicarsi i diritti tv.

Legacy

Dal maggio del 1992 ad oggi sono passati più di 25 anni, nel corso dei quali il calcio inglese non ha mai smesso di crescere. Secondo il Deloitte Annual Review of Football Finance 2017, nella stagione 2015/16 il totale dei ricavi dei club di Premier League ha toccato la cifra record di 3.6 miliardi di sterline. In media, quindi, un singolo club di Premier ha una mole di ricavi pari a 182 milioni di sterline, che è una somma più alta dei 170 milioni di ricavi che tutti e 22 i club della First Division mettevano insieme complessivamente nel 1991/1992.

I dirigenti della Premier sono stati abili a sfruttare nel migliore dei modi le possibilità concesse da ricavi così ingenti. Non si sono seduti sugli allori, ma hanno esplorato opportunità che gli altri grandi campionati europei non avevano pensato di sfruttare. Oggi la Premier League è il campionato più seguito in Asia. I primi accordi per trasmettere le partite in India risalgono al 1996 mentre in Cina all’inizio del nuovo millennio. Già nel 2003 le partite della Premier in Cina potevano contare su un’audience compresa tra i 100 e i 360 milioni di persone. Non soddisfatti dall’aver portato il calcio nelle case e nei televisori degli asiatici, i club della Premier hanno iniziato a portarlo letteralmente in Asia.

Se le prime tournee estive di club inglesi in Asia risalgono addirittura all’inizio degli anni ‘70, è solo con l’aumentare della popolarità della Premier alla fine degli anni ’90 che le tournèe sono diventate una consuetudine. Nel 2003 è stato creato il “Premier League Asia Trophy”, un torneo calcistico amichevole che si svolge a luglio, ogni due anni, in Asia e a cui partecipano quattro club di Premier. Il “Premier League Asia Trophy” è l’unico torneo riconosciuto dalla FA che non si svolge in terra inglese.

Oggi tutti i top club europei nell’off-season programmano tournèe in giro per il mondo con l’obiettivo di conquistare nuove frange di tifosi. Non sempre trovano però terreno fertile visto che i club della Premier hanno intrapreso questo percorso con anni di anticipo, assicurandosi l’affetto e la fedeltà di tantissimi tifosi, non solo in Asia ma anche in Nord America, in Australia e in Africa. Vent’anni di politiche di colonizzazione sportiva di zone così ampie e popolose del globo hanno avuto un grande impatto in termini di cessione dei diritti tv all’estero, di merchandising e di visibilità al fine di attirare grossi sponsor e investitori.

Foto Getty Images

Per il triennio 2016-2019, soltanto per i diritti tv venduti all’estero, la Premier ha incassato 4.05 miliardi di euro complessivi, cioè 1.35 miliardi a stagione. Per darvi un’idea della mostruosità della cifra, con il nuovo contratto quadriennale entrato in vigore nel 2017/2018 (aumentato dell’85% rispetto all’accordo precedente), la Bundesliga incasserà “solo” 1.16 miliardi di euro l’anno, comprensivi sia dei diritti per la trasmissione domestica sia all’estero. La Liga con l’attuale contratto, incassa 620 milioni di euro a stagione dai diritti tv esteri, meno della metà di quanto incassi la Premier. Per chiudere il cerchio, se ai 4.05 miliardi di euro dei diritti tv esteri percepiti dalla Premier League (per il prossimo triennio) aggiungiamo i quasi 6 miliardi incassati per i diritti tv domestici, arriviamo a circa 10 miliardi di euro: una cifra impossibile da raggiungere per qualsiasi altro campionato europeo.

La Premier è riuscita a coniugare una strategia vincente dei diritti tv con un altrettanto vincente gestione del settore commerciale. Considerando gli accordi con gli sponsor e gli incassi del merchandising nel 2015/16, i club della Premier League hanno incamerato complessivamente quasi un miliardo e mezzo di euro: ben 300 milioni in più della Bundesliga, il doppio della Liga e il triplo della Serie A.

Nel corso degli anni sempre più investitori stranieri sono stati attirati dalla possibilità di fare affari nel calcio inglese. Attualmente dei 20 club della Premier League 12 hanno una proprietà straniera (quasi 13 visto che l’Everton è per il 49.9% dell’iraniano Farhad Moshiri). Magnati russi, americani, cinesi e srilankesi sono entrati nel calcio britannico attratti dalle cifre astronomiche dei diritti televisivi e dall’opportunità di investire costruendo stadi, facilities e strutture contingenti (alberghi, musei, centri commerciali etc. etc.).

Soccerex, una delle società leader mondiali nell’organizzazione di eventi calcistici, ha stilato una particolare classifica delle società di calcio, cercando di capire quali abbiano la situazione finanziaria più rosea: il Football Finance 100 per il 2018. Questa graduatoria tiene in considerazione cinque variabili: il valore dei giocatori; il valore dei beni immobili (stadi, centri di allenamento etc. etc.); la liquidità a disposizione della società; quanto la proprietà può potenzialmente investire nel club; il livello del debito.

Da questa analisi è risultato che sette club della Premier stazionano nelle prime 20 posizioni della classifica. Il Manchester City è 1°, l’Arsenal 2°, il Tottenham 5°, il Manchester United 7°, il Chelsea 9°, il Liverpool 16° e il Leicester 20°.

Sacrifici

Il cammino che ha portato il football inglese al dominio globale odierno non è stato privo di vittime. Nel 1991/92, ultima stagione della First Division, c’erano appena 13 giocatori non britannici. Oggi in Premier più del 60% degli atleti sono stranieri. L’apertura all’estero (su cui ora in realtà pende la spada di Damocle della Brexit) non ha condizionato solo quel che accade sul rettangolo verde, ma anche tutto ciò che lo circonda. A partire dagli stadi.

Il prezzo dei biglietti, e degli abbonamenti, è diventato col tempo inaccessibile per la classe popolare. Negli ultimi cinque anni la percentuale di riempimento degli stadi della Premier è comunque oscillata attorno al 95%. Ad essere cambiato non è il numero di persone che vanno allo stadio, ma la tipologia. Si è ad esempio alzata l'età media del pubblico. La frazione dei tifosi impossibilitati ad acquistare il biglietto è stata presto sostituita dai turisti, disposti ad acquistare un biglietto anche ad un prezzo astronomico. A pagarne le conseguenze è stata soprattutto l’atmosfera che si respira durante le partite, diventata via via più fredda.

Foto Getty Images

Per soddisfare le richieste delle pay-tv (legate alla massimizzazione degli introiti derivanti dalle pubblicità), la Premier ha anche rimodulato la propria programmazione introducendo quello che è ormai conosciuto come calendario spezzatino. Se in Inghilterra, storicamente, si giocava solo il sabato pomeriggio, dal 1992 il board ha iniziato a spalmare i match lungo tutto il weekend, fino ad arrivare alla cornice di oggi: si parte dall’anticipo del venerdì e si finisce con il posticipo del Monday night. In un’intervista del 2011 alla BBC Sir Alex Ferguson si espresse molto duramente sulla questione calendari: «Quando scendi a patti con il diavolo, c’è un prezzo da pagare».

Grazie a strategie finanziare lungimiranti, la Premier League si è assicurata il dominio economico sul calcio mondiale ancora per molti anni a venire. Ha creato un modello di sviluppo che è tuttora imitato (con colpevole ritardo) dai diretti competitor europei e, nonostante tutto, il gap economico con Liga, Bundesliga, Serie A e Ligue 1 non sembra diminuire ma aumentare.

Se da una parte il modello inglese ha elevato al massimo la potenza il binomio calcio-business, permettendo ai club di effettuare investimenti impensabili solo qualche anno fa, dall’altra il successo di questo modello ha dato il via ad un processo di standardizzazione che coinvolge tutto il calcio mondiale: partite distribuite su tre o quattro giorni in qualsiasi fascia oraria, stadi sempre più simili e biglietti sempre più costosi. È il prezzo che si è dovuto pagare a uno spettacolo televisivamente sempre più vincente.

La Premier League ha traghettato il calcio in una nuova dimensione. Tuttavia, come accade in tutti i processi evolutivi, strada facendo ha lasciato indietro qualcosa.

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