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La nona meraviglia è Istanbul
22 mag 2017
Le Final Four 2017 di Eurolega sono state l’ennesimo capolavoro di Zelimir Obradovic.
(articolo)
17 min
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"Nessuno può mettermi pressione addosso

più di quanta possa mettermene io"

[Zelimir Obradovic - Nove volte campione d'Europa]

Raccogliamo istantanee e flashback dalla tre giorni nella metropoli turca, che ha visto il Fenerbahce Istanbul di coach Zelimir Obradovic vincere l’Eurolega per la prima volta nella sua storia e per la prima volta per un club della Turchia.

19 Maggio 2017 - Il Venerdì dei déjà vu

Ore 17:30: Cska Mosca 78 - 82 Olympiacos Pireo

Quando il filosofo tedesco Karl Marx se ne uscì con una delle sue citazioni più famose (“La Storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”) aveva sottovalutato il fatto che un secolo più tardi nelle Final Four di Eurolega si sarebbero scontrate Cska Mosca e Olympiacos Atene. La prima semifinale di venerdì è stata infatti la farsa della farsa della farsa, assegnando per la quarta volta su quattro in soli cinque anni alle Final 4 la vittoria ai greci, e lasciando il Cska con le solite facce da pesci lessi al suono della sirena finale.

Un beffardo incantesimo che tutti avevano dato per rotto l’anno scorso con la conquista del titolo dell’Armata Rossa a Berlino: superato finalmente con successo anche l’ultimo scoglio mentale dell’ennesima rimonta concessa (il Fenerbahce dal -21 al supplementare, in finale), il Cska - depurate le tossine dall’organismo - sembrava pronto a dar vita ad una dinastia dittatoriale nel Vecchio Continente, con le due migliori guardie del torneo (Nando De Colo e Milos Teodosic) allenate dal miglior allenatore d’Europa (Dimitris Itoudis), oltre ad un contorno di assoluto livello grazie ad uno tra i budget più ricchi delle 16 elette.

C’eravamo lasciati qui, all’azione più simbolica della scorsa stagione, il backdoor Teodosic-De Colo nel crunch time della finale, con le due stelle sotto osservazione nei finali tirati a mettere una pietra sul passato con una giocata di raro tempismo e cruciale importanza. Un’intesa su cui il Cska aveva fondato le proprie fortune anche in questo 2016-17, ricordato anche da coach Itoudis venerdì sera in spogliatoio poco prima della palla a due contro l’Olympiacos: «La parola d’ordine oggi è “crederci”: nel nostro sistema, che ci ha portato fino a qui, e nel compagno che sarà di fianco a voi in partita».

Non solo: memore dei sanguinosi precedenti con la nemesi biancorossa, Itoudis come ultima cosa prima di entrare in campo aveva avvertito: «Capiamo quand’è il momento migliore per raddoppiare Printezis e ruotare dal lato debole». In testa, oltre al vantaggio fisico del greco sui suoi “4”, il coach aveva probabilmente anche il buzzer beater con il quale l’Olympiacos aveva lasciato a bocca aperta l’Europa per la prima volta, nel 2012, sempre a Istanbul…

All’apertura delle danze, i timori di Itoudis prendono rapidamente corpo: con lo Spanoulis dei primi quarti a danzare sul precario equilibrio del “risparmio le energie/gioco per la squadra” e il resto dei compagni alle prese con il classico impatto da “intensità Final 4”, rimane solo Giorgione Printezis come reale pericolo da arginare, ma il piano partita nei primi dieci minuti funziona.

I raddoppi sull’ala greca arrivano dopo il primo palleggio, le rotazioni sono reattive e decise e l’Olympiacos non fa mai canestro tirando 1/7 da dietro l’arco per aprire la gara, mentre dall’altra parte la classica partenza da rullo compressore firmata De Colo-Teodosic (11 punti in due, il serbo rientrante da uno stop di tre settimane) fa decollare il Cska. Due sono gli indizi che non tutto però sta andando come vorrebbero a Mosca: 1) i greci hanno concesso solo 18 punti al miglior attacco europeo; 2) sono sotto di sole 6 lunghezze dopo aver punito un’imperdonabile distrazione difensiva con un buzzer beater, ovviamente di Printezis.

Ma superficialmente anche il secondo quarto pare essere ben saldo nelle mani degli uomini di Itoudis che, pur assecondando i ritmi bassi “comandati” dal coach avversario Ioannis Sfairopoulos, scollinano per la prima volta oltre la doppia cifra di vantaggio durante un tipico Teodosic-moment, quando il play s’infiamma bruciando il canestro con tre triple consecutive (40-27 con questo ciuffo irreale dagli 8 metri).

Mancano 40 secondi alla fine del secondo quarto: Cska avanti di 13 con una frecciata nel cuore che ammazzerebbe chiunque. Tutto finito? Chiaramente no. I greci sono dei maestri nel riuscire a rimanere in partita con tutti i mezzi a disposizione, e se poco prima la giovane ala Dimitrios Agravanis aveva pagato lo scotto dell’esordio a questo livello scheggiando appena il ferro, sul suono della sirena finale - e grazie all’intuizione di Vangelis Mantzaris, altra anima mai doma - segna il secondo ma non ultimo buzzer beater della partita. E l’Olympiacos, non una novità, è più vivo che mai (40-33).

Quel “qualcosa” di oscuro che dal 2012 riesce a farsi largo tra le menti dei giocatori moscoviti sta chiaramente tornando, un’impressione confermata dal linguaggio del corpo e dalla fluidità offensiva che sta scemando rapidamente. Il Cska nel terzo quarto è ancora solo De Colo, qualche sprazzo di Teodosic e poco altro: è una preda che sta iniziando a sanguinare, che accetta passivamente tutti i cambi e i mismatch cercati dall’avversario e che due esperti predatori come Kostas Papanikolau e Mantzaris non perdono tempo ad attaccare, azzannandola con delle triple pesantissime culminate col terzo canestro in fila allo scadere (64-60).

I fantasmi del passato sono ufficialmente scesi in campo e corrono fianco a fianco del Cska Mosca. I russi non segnano per i primi due minuti dell’ultimo quarto, Teodosic torna in panchina con la lingua fuori e De Colo - votato nel primo quintetto Eurolega 16-17 - sbiadisce gradualmente dopo le ultime forzature a vuoto uscendo di scena, con i soli Cory Higgins e Aaron Jackson a cercare l’area per creare qualcosa di positivo, mentre Itoudis inizia a sbiancare in volto. Fin qui tutto già visto e rivisto, compreso il mondo a negare l’evidenza: «No, non può finire ancora così! Non di nuovo!».

Manca solo una cosa. Lo sceneggiatore non si è dimenticato di Vassilis Spanoulis, ma gli ha semplicemente concesso qualche minuto in più di riposo, considerato l’avanzare dell’età: sul 69-67 Cska a 4:25 dalla fine la leggenda greca ha solo 4 punti a tabellino. Nel 2015, sempre contro il Cska, ne aveva 2 prima dell’ultimo quarto. Mosca non vuole pensare a quegli attimi, ma quando dal nulla gli concede un finger roll di sinistro nel traffico è impossibile non tornare con la testa ai déjà vu più terrificanti degli ultimi cinque anni.

Da quel canestro del 69 pari inizierà uno show tanto personale quanto ineluttabile. Non si può, semplicemente, fermare. E sul 73-71 Cska, a 1:59 dal termine, arriva il capolavoro: Spanoulis sfida Khryapa che ha accettato l’ennesimo cambio forzato dall’Olympiacos, un fattore tattico che alla fine si rivelerà decisivo. Step back dagli otto metri d’incredibile difficoltà e… solo rete.

È il primo sorpasso dell’Olympiacos, che coincide anche con la chiusura virtuale e mentale della partita insieme alla bomba di Erick Green, affidatagli da Spanoulis a 41 secondi. Mancano solo le ultime due triple di Teodosic - una dentro e una sul primo ferro con ancora 11 secondi sul cronometro - per concludere la trama già vista di questa rivalità infinita: un déjà vu che sembra essere sempre di più un maledetto “Giorno della Marmotta” di cui il Cska non aveva autorizzato il remake. L’Olympiacos e i suoi underdog vanno in finale, Mosca a casa in cerca dello sceneggiatore e di uno sciamano.

Ore 20:30: Fenerbahce Istanbul 84 - 75 Real Madrid

15 Maggio 2015: il Real Madrid padrone di casa delle Final 4 e al culmine del proprio ciclo affronta nella semifinale serale il Fenerbahce alla sua prima storica apparizione alle Final Four di Eurolega. Il Fenerbahce ha l’MVP della stagione, Nemanja Bjelica, e la Rising Star, Bogdan Bogdanovic. Il Real vince quasi senza patemi, conquistando poi il titolo; il Fenerbahce gioca la peggior partita della sua stagione.

19 Maggio 2017: il Fenerbahce Istanbul padrone di casa delle Final 4 e al culmine del proprio ciclo affronta nella semifinale serale il Real Madrid, tornato alle Final Four dopo un anno di “pausa”. Il Real Madrid ha l’MVP della stagione, Sergio Llull, e la Rising Star, Luka Doncic. Il Fenerbahce vince quasi senza patemi, conquistando poi il titolo; il Real gioca la peggior partita della sua stagione.

Interessante come a volte la Storia, oltre che a “ripetersi in farsa” come diceva il buon Marx, si contorca su se stessa ribaltandosi completamente, quasi a specchio, presentando le stesse condizioni solo sotto una nuova luce. Ci è sembrato essere il caso calzante di questa seconda semifinale, ben più a senso unico di quanto il risultato dica, considerato che il Real Madrid non ha mai raggiunto uno svantaggio inferiore agli 8 punti nel secondo tempo.

Troppa l’intensità, l’energia e la solidità dei ragazzi di coach Zelimir Obradovic - così come nel 2015 “troppo” erano stati i ragazzi di coach Pablo Laso -, sorretti da quasi 15.000 tifosi sui 16.000 totali del Sinan Erdem Dome quasi completamente giallo, per consentire al Real di giocarsela alla pari. Soprattutto troppo solo Llull, clamoroso con un primo tempo da 19 punti, ma abbandonato dagli altri protagonisti di una splendida stagione madrilena che meritava una conclusione differente, perlomeno più combattuta.

La squadra di coach Laso si trova da subito esclusa dai propri ritmi abituali, concedendo 21 punti in un primo quarto dove riesce a segnarne solo 13, di cui 11 da Llull. “Mago Zelimiro”, come suo solito, ha scovato rapidamente la chiave per fermare il temuto attacco spagnolo: ritmi controllati, scientifiche transizioni difensive per impedire i contropiedi, “battesimi” su giocatori diversi dal neo-MVP e area intasata. A farne le spese prima di tutti è il 18enne Luka Doncic, partito in quintetto e presto frustrato dalla difesa del Fener, cinica nel concedergli spazio sul perimetro, sfidandolo esplicitamente (0/3 dall’arco e un’improvvisa insicurezza che poche volte quest’anno l’enfant prodige aveva mostrato).

Costretto a panchinare la propria giovane seconda fonte di gioco in crisi d’identità, Laso non trova alternative. Sotto canestro giganteggiano un immenso Ekpe Udoh e Jan Vesely - tanto che Gustavo Ayon e Anthony Randolph segneranno un solo canestro a testa nei primi 20 minuti - e tra gli esterni Rudy Fernandez non riesce a battere il proprio uomo, Taylor è inadeguato al livello e Maciulis è l’ombra di se stesso. Al contrario Bogdanovic, decisamente maturato rispetto all’altalenante semifinale del 2015, domina in lungo e in largo insieme all’amico fraterno Vesely, potendo contare sugli spazi aperti dalle triple dello scudiero Nikola Kalinic e di Bobby Dixon.

Nella parte centrale della gara il Fenerbahce non riesce a scappare solo per l’ondivaga precisione al tiro e alcuni momenti di pausa mentale - tipici in tutta la stagione - che fanno ammattire coach Obradovic. Il Real è troppo slegato e inconsistente per approfittarne: ancora troppo Llull-dipendente, non riesce ad esprimere un gioco fluido o che proponga un qualcosa di meno intermittente di una “staffetta” tra Llull e il tiratore Jaycee Carroll, l’unico altro dei blancos che ha un impatto positivo sulla partita. Le loro triple servono solo ad arginare l’emorragia, ma il Fenerbahce, ripresosi dal calo di concentrazione, torna a produrre con fiducia spinto dalle accelerazioni di Kostas Sloukas, trovando con la tripla del nostro Gigi Datome la miglior azione della partita e il massimo vantaggio: 68-52 all’inizio del quarto periodo.

Iniziato con grandi aspettative, il match non troverà mai un momento di vera tensione sportiva, complice un supporting cast madrileno non all’altezza (Llull e Carroll segneranno 49 dei 75 punti totali) e un’impressionante prova di forza - sia fisica in difesa che collettiva in attacco - del Fenerbahce. Obradovic, spremendo i suoi tre uomini indispensabili con Udoh e Kalinic sopra i 38 minuti e Bogdanovic attorno ai 31, conquista la decima finale in carriera della coppa più prestigiosa: ne ha già vinte otto, nessuno sa meglio di lui come prepararle e a pochi minuti dal termine della semifinale per le strade di Istanbul, in fibrillazione come mai prima, non si trova nessuno che dubiti del risultato di domenica sera.

Finisce con qualche delusione invece la stagione del Real Madrid (seppur lo shock sia inferiore a quello del povero Cska), incapace di elevare il proprio livello di fronte al muro giallonero: i blancos sembrano destinati a un processo di “svecchiamento” del roster se vorranno ambire a tornare a vincere partite come questa. Ripartendo dall’immenso Llull e da Doncic che, come ha dimostrato Bogdanovic a distanza di due anni, dovrà imparare da questa salutare “sculacciata” per ritornare più pronto, deciso e maturo ad appuntamenti simili.

Chiudiamo infine con l’unanime MVP della gara, dentro e fuori dal campo: Ekpe Udoh, tentacolare in difesa e decisivo anche in attacco, il giorno prima del suo compleanno è quasi riuscito a raggiungere una rarissima tripla doppia (18 punti, 12 rimbalzi e 8 assist) regalando però la sua performance migliore durante l’intervista di metà partita, quando alzata la testa al tabellone si è accorto di quanti punti avesse fatto Sergio Llull nel solo primo tempo: “Nineteen?! Jesus Christ!”. Fenomenale Ekpe, e non è finita.

Domenica 21 maggio 2017 - Il primo amore non si scorda mai

Ore 20:00: Fenerbahce Istanbul 80 - 64 Olympiacos Pireo

2013-2014: Top 16, non qualificata per i playoff

2014-2015: prima Final Four, sconfitta in semifinale contro il Real Madrid

2015-2016: seconda Final Four, sconfitta in finale dopo un supplementare dal Cska Mosca

2016-2017: campione d’Europa

Inesorabile. Quello che Zelimir Obradovic è riuscito a fare con il suo Fenerbahce Istanbul nel giro di quattro stagioni non è un miracolo, ma un percorso di inesorabile crescita, l’applicazione della determinazione, della “fame” sportiva, del pragmatismo e della passione che ancora oggi, a 57 anni, animano il coach più leggendario e vincente di sempre in Europa. I più impavidi parlerebbero di “progetto”, nonostante l’abuso della parola nell’ambiente sportivo: a noi piacciono di più le parole “evoluzione”, “metamorfosi”, “sviluppo”.

Quando nel 2013 il mago serbo approdò sul Bosforo (l’anno dopo arrivò anche Maurizio Gherardini), non ebbe nessun problema ad ammettere ai microfoni quello che tutti pensavano ma non osavano dire: «Se sono qui è solo per vincere, non avrebbe avuto senso per me accettare altrimenti». Il Fenerbahce Istanbul non solo non aveva mai vinto una coppa europea, ma non era nemmeno mai stato ad una Final Four prima d’allora.

La sfida di cui Obradovic aveva bisogno per tornare in pista, dopo un anno sabbatico al termine dell’esperienza irripetibile col Panathinaikos Atene, andava al di là del semplice campo da gioco. Si trattava di impiantare una cultura vincente - alla sua maniera - in una città affascinante e in una nazione ancora “vergini” in ambito internazionale, e con uno dei club più antichi e storici disposti - va detto - ad affidare anima, corpo ed ingenti risorse all’unico che poteva portare a termine l’impresa.

Da quel 2013 sono rimasti simbolicamente solo il capitano attuale, il tiratore Melih Mahmutoglu, e il team manager, l’ex stella della squadra Omer Onan. Poi, gradualmente, il gruppo è andato plasmandosi sulle idee di Obradovic, basando già dall’anno successivo le proprie fortune e la prima Final Four nella storia del club su due giovani esplosi nel “suo” Partizan Belgrado, diventati ben presto sotto le sue cure due tra i migliori d’Europa - Bogdan Bogdanovic e Jan Vesely - fino all’ultimo biennio, chiuso con altre due Final Four, la coppa e un roster pressoché identico.

Se queste Final Four 2017 sono state avvincenti solo in parte la “colpa”, se così possiamo chiamarla dall’esterno, è proprio di questo percorso intrapreso con coraggio e devozione da Obradovic e dal Fenerbahce: il dominio in semifinale contro il Real Madrid e in finale contro l’Olympiacos, oltre ad aver lasciato poco spazio al pathos sportivo (il Fener è stato in vantaggio per tutti gli 80 minuti, con picchi di 16 e 20 punti di scarto nelle due partite), è il risultato più concreto e tangibile del lavoro svolto da un coach ossessionato dal miglioramento quotidiano e da una squadra capace di seguirlo passo dopo passo, fino al liberatorio sollevamento del trofeo.

Un percorso lungo, arduo, ma di cui tutti si sono fidati anche nei momenti di massima difficoltà arrivati soprattutto in questa stagione, a causa dei problemi fisici prima e di ricerca di nuovi equilibri poi: «Abbiamo cambiato l’approccio alle partite» ha sentenziato Obradovic nel post-gara, con gli occhi raramente così pieni di orgoglio nei confronti dei propri ragazzi («The glory goes to all my players tonight»).

Problemi risolti con la stessa brillante maturità che il gruppo è riuscito a trovare anche nel terzo quarto della finale, l’ultimo ostacolo prima dell’entusiasmante fuga conclusiva. L’Olympiacos, sapendo inconsciamente di non poter contare sulle energie del proprio condottiero Spanoulis per la seconda volta nel giro di tre giorni, si è appena inventato con Khem Birch un altro buzzer beater al termine del secondo quarto, e con Mantzaris e Nikola Milutinov travestiti da improbabili eroi nel terzo periodo (in puro stile-Oly) è tornato a soli quattro punti di svantaggio con una super schiacciata del 22enne centro serbo (46-42, 5:24 del 3Q).

I gialloneri accusano il colpo. La zona match-up di coach Sfairopoulos ha mandato fuori giri il loro attacco, innervosendoli a tal punto da far prendere un fallo tecnico a Vesely e una mattonata da nove metri a Kalinic: per la prima volta dalle due partite di playoff ad Atene contro il Panathinaikos, e senza Bogdanovic con problemi di falli, il Fener è in vera difficoltà. È un classico momento spartiacque, ma le successive sequenze offensive del Fenerbahce Istanbul saranno la sublimazione di tutto il percorso fatto con Obradovic negli ultimi tre anni: prima arriva il triplone di Sloukas - nato da uno dei cardini di Mago Zelimiro, ovvero il mismatch in post basso di Kalinic su Spanoulis - che ridà fiato e fiducia ai compagni.

Poi arrivano i tiri liberi a segno di Vesely, Udoh e Datome (7 su 8 nel parziale) guadagnati attaccando il ferro, cruciali in un momento di aridità offensiva. Ed infine la tripla di un chirurgico Gigione Datome, originata da un’esplicita chiamata di Obradovic che dà vita alla più bella azione corale di tutte queste Final 4.

Lo spettacolo del Sinan Erdem Dome sul canestro di Datome è da lasciare senza fiato. Migliaia di turchi, rigorosamente con magliette gialle e abbracciati, esplodono all’unisono in un urlo di gioia, intuendo che il peggio ormai è alle spalle e il titolo solo una questione di cronometro (57-44, 2:48 del 3Q). Il quarto periodo sarà infatti in completa discesa, con spazio in campo anche per gli ultimi uomini del roster per entrambe le squadre, prima dell’apoteosi al suono della sirena finale.

Coach Obradovic, dopo aver salutato con rispetto un Olympiacos che - privo anche di Hackett e Lojeski - onestamente più di così non poteva fare, viene travolto non solo dai propri giocatori capaci di strappargli un sorriso che aveva trattenuto fino all’ultimo istante, ma soprattutto da una marea di dirigenti e tifosi che lo baciano e lo abbracciano come il Messia, capitanati dal presidente Aziz Yildirim. È la prima Eurolega di sempre per un club turco, la prima di Istanbul, la prima di tanti giocatori del Fenerbahce. La prima di Luigi Datome, il primo italiano dopo Gianluca Basile con il Barcellona nel 2010 ad alzare la coppa: era difficile conquistarla in assoluto, farlo da leader di una squadra di Obradovic è qualcosa di cui andare veramente fieri (poco dopo la premiazione l’amicone Pero Antic gli ha anche mozzato la chioma con una forbice, onorando una vecchia scommessa). E la prima di Ekpe Udoh, nominato giustamente MVP delle Final Four («This is a crazy feeling!» annuncia al settimo cielo al microfono).

È la nona meraviglia di Zelimir Obradovic, una delle più significative della sua carriera, arrivata a 25 anni dalla sua prima conquista, quando da giovane 32enne vinceva da semi-esordiente con il suo Partizan. Ne è passato di tempo, così come tante sono state le città condotte sul tetto d’Europa, da Belgrado a Madrid passando per Badalona, Atene ed infine Istanbul.

Un viaggio lungo, pieno di successi raggiunti in modi sempre differenti, evolvendosi ed adattandosi attraverso quasi tre decenni di pallacanestro europea, e da cui molti hanno cercato invano di carpire il segreto. Ma sarebbe bastato ascoltare la sua risposta - sempre la stessa, nel suo caratteristico inglese serbizzato - nella tradizionale conferenza stampa dopo le vittorie e rilasciata anche al termine di queste Final Four, per poter cogliere l’essenza del più grande di tutti.

«I’m still hungry». Sono ancora affamato.

Semplice no?

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