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La Nuova Stagione: ACF Fiorentina 2024/25
13 set 2024
13 set 2024
Un racconto sul tifo, i suoi simboli e le sue storie. La prima puntata è dedicata alla Fiorentina e a Firenze.
(foto)
Foto di Giuseppe Romano.
(foto) Foto di Giuseppe Romano.
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Firenze è una strana città: luogo di meraviglie artistiche, trappola per turisti, luna park dove scorrazzano persone di ogni nazionalità, ma anche popolata da persone che vivono la loro città come hanno sempre fatto, proteggendo i loro spazi e le loro abitudini. Costruendo una rete, spesso, di luoghi e relazioni in cui rifugiarsi. La Fiorentina è uno dei nodi di questa rete. Forse uno dei principali e più grandi, uno di quelli capaci di attrarre il maggior numero di persone diverse, tutte reali, in carne e ossa.

Nascere tifoso della Fiorentina fuori da Firenze mi ha tenuto lontano dai nodi di questa rete. Una sofferenza doppia: quella sportiva, che condividiamo tutti, questa sensazione di essere sul punto di arrivare in alto prima di essere riportati coi piedi per tutta; e poi c’è la sofferenza geografica, la distanza da quel centro nevralgico emotivo così vicino eppure così lontano. La distanza da Firenze, dal Franchi, dalla Fiesole e dalla torre di Maratona. E soprattutto dai propri simili e dai luoghi che frequentano. La sensazione di perdersi ogni volta qualcosa, un pezzo di un’emozione. Attorno alla Fiorentina ruotano una serie di rituali che è difficile notare se non si viene introdotti in qualche modo a quel mondo, o se non si sa dove cercare.

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La Nuova Stagione è un progetto realizzato in collaborazione con Kappa. Il video è di Edoardo Bandiera, tutte le foto sono di Giuseppe Romano.

Andrea è, un uomo di mezz’età, con la barba lunga e brizzolata, la testa ben incassata fra le spalle un po’ ricurve. È lui la mia guida. Ci raggiunge in una trattoria del centro indossando la terza maglia della stagione 2020/21, quella rossa con la croce bianca. L’ha scelta apposta per mostrarmi il legame fra la Fiorentina e la città di Firenze, di cui la croce bianca in campo rosso è uno dei simboli storici. Ha una busta di tela a tracolla, dentro ci sono altre maglie che ha portato per l’occasione, di certo non scelte a caso fra le tante che ci racconta di avere a casa. Le ha collezionate nei tantissimi anni in curva, a seguire la sua Fiorentina ovunque in Italia e in Europa. «A Praga però non sono potuto andare, sono rimasto a Firenze. Dopo la partita vedevo la gente andar via con la faccia rassegnata e alcuni dicevano “Ma perché, te credevi di vincere?”. Questa cosa non m’è piaciuta, anche se il senso di rassegnazione un po’ lo capisco».

La finale di Praga è la più dolorosa fra le tre sconfitte che abbiamo vissuto. La finale in cui eravamo davvero convinti di poter vincere e, in un certo senso, già sognavamo di aver vinto. Era il culmine di un ciclo, quello di Vincenzo Italiano, che ci aveva riportati a sognare in grande e che invece ci ha riportato ancora a fare i conti con i nostri fantasmi. Se è vero che di fronte all’Olympiakos eravamo chiaramente favoriti, la squadra arrivava da una stagione più incerta e aveva mostrato più insicurezza. Sono ferite che rimangono e ci mettono tanto tempo per rimarginarsi. Se ancora è possibile ricordare con malinconia la finale di Coppa Uefa del 1990, la squalifica del Franchi, lo spostamento ad Avellino, come fa Andrea.

Al tavolo accanto c’è una coppia di fiorentini. Lei si chiama Paola, mi chiede quando dovrò scrivere quest’articolo. «Forse è meglio se aspetti perché ora la vedo male». Lui si chiama Roberto, sorride mentre interrompe Paola per dirmi che «la speranza non deve mancare mai». Mi fermo un po’ a parlare con loro mentre si rimbalzano commenti sullo stadio da un tavolo all’altro con Andrea. Quest’anno Paola e Roberto hanno deciso di non fare l’abbonamento per via dei lavori in Fiesole, e questo provoca in Andrea un moto di reazione. Il dibattito è pacifico e gioviale: da un lato la coppia che si sente abbandonata, dall’altro il curvaiolo che è sceso a compromessi pur di non stare lontano dalla sua Fiorentina, accettando di trasferirsi in Curva Ferrovia fino al termine dei lavori. La questione stadio è un tema delicato a Firenze e cerco di tenermene alla larga.

La discussione va avanti, si sposta sul tema sportivo sul quale anche all’interno della coppia ci sono vedute differenti. Roberto è ottimista, ripone grandi speranze in questo nuovo ciclo con Palladino. Paola invece è l’esatto opposto: le sconfitte di Praga e Atene hanno acceso una sensazione di frustrazione.

È agosto e mentre si giocano le prime partite di campionato la squadra sta cambiando pelle sotto ai nostri occhi per adattarsi al nuovo allenatore. È un momento in cui il futuro può mostrare due facce opposte e Paola e Roberto le interpretano entrambe: «Siamo una rappresentazione delle due anime di Firenze, una sempre ottimista e una sempre pessimista». La discussione può essere solo interna, però: «Della Fiorentina può parlar male solo chi è fiorentino; per gli altri, guai a chi ce la tocca».

Il viola classico riprende possesso della maglia Home 2024/25, dopo il giglio della scorsa stagione. Il colletto è a polo, sulla nuca è scritto Fiorentina: l’eleganza classica è quella delle prime maglie.

Come si ritrova l’energia, la motivazione, anche da tifosi, per ricominciare dopo tre finali perse, le due di Conference e quella di Coppa Italia?

Andrea sogna un’altra finale. Le sconfitte non hanno indebolito la speranza ma creato un senso di rivalsa: «Sarebbe bello smentire la sorte, la cabala, e portare a casa qualcosa anche noi». Eppure il tifoso fiorentino vive di piccole vittorie che sono grandi felicità, non c’è mai stata un’ossessione per i trofei. Per Andrea però sarebbe importante: «Comunque ti rimane qualcosa. In questa maglia qui c’è la coccarda della Coppa Italia della formazione Primavera, almeno loro hanno alzato qualcosa. Ed è vero che è bello battere la Juve 4-2, vincere a San Siro, però alla fine ci s’ha la bacheca vuota. Nell’albo d’oro rimane chi vince, non chi arriva secondo e purtroppo un trofeo ogni tanto sarebbe bello».

L’ultimo trofeo della Fiorentina risale al 2001 quando Manuel Rui Costa alzò la Coppa Italia verso il cielo di Firenze. Io ero ancora troppo piccolo per comprendere davvero cosa stava succedendo, ma nessuno poteva comunque aspettarsi ciò che sarebbe successo di lì a poco: il fallimento, la retrocessione, la ripartenza dalla C2. Da allora il sogno di tornare grandi e poi di festeggiare la vittoria di un trofeo. Io non l’ho mai davvero provata quella sensazione, ma Andrea sì, se lo ricorda bene, ed è più consapevole di me di ciò che questo rappresenterebbe per tutti noi. E forse per questo dentro di lui le sconfitte recenti bruciano di più.

Andrea è un “bianco”, riferendosi al calcio storico fiorentino. Tanti tifosi sono legati al calcio storico, un tempo questo creava più divisioni, «adesso invece si sta tutti insieme, ci si allena insieme. In fondo è meglio essere uniti, quando serve». Anche la società ha imparato a dialogare meglio con questa realtà, già con i Della Valle ma ora ancor di più con Commisso.

Nella maglia Away il giglio “geometrico” disegnato del 2022 è presente solitario. Secondo il museo della Fiorentina sono state utilizzate nella storia 21 diverse versioni del giglio di Firenze sulla maglia viola.

Camminando per le vie del centro, prima di andare verso lo stadio - dove di lì a poco si giocherà la seconda giornata di Serie A fra Fiorentina e Venezia, la prima della stagione in casa al Franchi -, Andrea indica luoghi che conosco ma che non avevo mai conosciuto in quel modo: «Qui prima c’era un bar in cui ci si ritrovava per ascoltare la partita alla radio. Ora è una roba per turisti». Poco più avanti c’è un chioschetto che fa panini. «Loro sono della Fiorentina», dice indicando i nomi dei panini, che richiamano vecchie glorie della nostra storia. Il proprietario però non c’è, è già andato verso lo stadio. Fa parte di un gruppo di tifosi che si chiamano Porcellini, un riferimento alla statua del cinghiale davanti alle logge del Mercato Nuovo.

Li raggiungiamo un’oretta più tardi al loro solito ritrovo nei giardini dietro alla curva Fiesole. Su un tavolone lungo è pieno di roba da mangiare, porchetta e vino. Il proprietario del chiosco, si chiama Safaie. «È dal 1981 che vengo allo stadio. Sono nato in Iran, adottato a Firenze: un ghibellino persiano». La sua voce è leggermente rauca, anche se il suono delle sue parole sembra quasi danzare nell’aria in questa strana miscela di accenti fra il fiorentino e il persiano. «Io ho vissuto la monarchia iraniana, quindi per me era uguale, perché sono arrivato qui nel ‘79 quindi non ho visto il periodo arabo, per farti capire. La Fiorentina è arrivata quando lavoravo al Mercato del Porcellino. Loro - dice indicando genericamente i suoi compagni di tifo - mi portavano in giro, io avevo vent’anni, ventun’anni; mi facevano anche l’abbonamento allo stadio».

Erano gli anni di Giancarlo Antognoni, della grande illusione dello scudetto sfumato all’ultima giornata. «Anche quando si fece male, ero allo stadio», racconta con la voce che improvvisamente si fa più cupa. «Lì per lì sembrava tranquillo, poi all’improvviso si è capito che era più complicato del previsto». Sta parlando dell’infortunio del febbraio 1984, quello meno famoso ma forse più devastante per la carriera di Antognoni perché lo costrinse a star fuori per quasi due anni e segnò la fine della sua carriera ad alti livelli. Antognoni, anche per i più giovani di noi - cresciuti nel mito dei Batistuta o dei Rui Costa - rappresenta l’anima stessa della Fiorentina. Il ragazzo che gioca guardando le stelle è un epiteto che tutti conosciamo e sappiamo perfettamente a chi si riferisce.

Le persone camminano lungo il viale in piccoli gruppi, chiacchierando fra loro; spesso si notano scene di ritrovo, amici che si incontrano di nuovo alla prima partita in casa dell’anno, compagni di tifo che si scambiano battute prima di entrare allo stadio. C’è aria da primo giorno di scuola. Anche se non sono nato a Firenze, la Fiorentina mi fa sentire a casa. Avvicinarsi allo stadio e vedere spuntare dai tetti la torre di Maratona mi riporta a quando giocavo con le figurine di Sandro Cois e Jörg Heinrich. C’è una marea di maglie viola, e dentro ogni maglia una persona con una storia, un motivo diverso per essere lì a soffrire insieme, a restituire alla Fiorentina una parte di ciò che questa squadra ci ha dato nel corso delle nostre vite.

Poco più avanti vedo Andrea parlare con una sua amica, tifosa viola anche lei da sempre. La incontriamo che cammina con la figlia di circa 13-14 anni. «Lei l’ho portata allo stadio da quando era nella pancia», mi racconta quando le chiedo come si fa a trasmettere questa passione ai propri figli, cosa significa poterla vivere con la persona che ci è più cara. Le spiego anche il mio timore che i miei figli non mi seguano in questa follia. «Per me sarebbe il massimo, io sognavo di avere una figlia che mi seguisse in tutto. Lei è per la Fiorentina però per ora non è come me e il su’ babbo. Spero nelle sue amichette, perché ha qualche amica tifosa». Il suo tono è sempre dolce e ironico, soprattutto quando parla della figlia che tiene accanto passandole il braccio attorno alle spalle. «Io e Andrea ci si conosce da 35 anni; ci siamo conosciuti allo stadio, anche con mio marito ci siamo messi insieme allo stadio. Io ora lei la porto sempre, l’abbiamo portata ovunque, anche se lei per ora non è appassionatissima. Viene sempre però eh, l’ho portata anche ad Atene e a Praga». «Poi sai - interviene scherzando Andrea - tutte ‘ste vittorie…», ridono insieme, punzecchiandosi come si fa fra amici di una vita.

«Se si fosse vinto, magari sarebbe stato più facile, quello sì. Avrebbe dato una spinta in più», sostiene Andrea, probabilmente rispondendo più a se stesso e ai suoi dubbi da tifoso che alla mia domanda sul come fare a crescere un figlio fiorentino lontano da Firenze. «Noi siamo forse anche troppo. Suo marito, la mia compagna e io siamo forse anche troppo, si va allo stadio da una vita e ci si conosce da una vita», continua. «Ci vorrebbe una via di mezzo, via» conclude. «Forse le è venuto a noia perché l’abbiamo portata ovunque», riprende lei, scherzando. Le chiedo il suo nome, per poterla citare nell’articolo: «Io sono Enza, e lei è Viola. In chiesa Viola Fiorenza, battezzata dall’allora cappellano della Fiorentina Don Massimiliano».

Passo davanti al Marisa, storico storico luogo di ritrovo per i tifosi diretti allo stadio. È un vecchio bar che ha la fortuna di trovarsi proprio di fronte all’ingresso della tribuna, a metà strada fra le due curve. «Sopra al Bar Marisa ci viveva un signore, si chiamava Il Papa (in realtà Lorenzo lo pronuncia alla fiorentina, troncando la elle e raddoppiando la pi: i’ppapa), perché prima delle partite della Fiorentina lui (Safaie, ndr) lo chiamava con un fischio e Il Papa si affacciava a benedire i tifosi lì sotto». Me lo racconta Lorenzo, che ha vissuto gli ultimi 8 anni lontano dalla sua città, a Parigi, prima di trasferirsi a Roma.

Lorenzo è arrivato a Parigi nel 2016 ma è durante il covid che il Viola Club ha davvero rappresentato per lui un importante fattore di aggregazione: «Io sono arrivato a Parigi nel 2016, ma poi il club si è veramente cementato durante il covid. Noi ci vedevamo anche due o tre volte a settimana al supermercato, ci davamo appuntamento per parlare di Fiorentina da un reparto all’altro». “Europa Viola” riunisce i Viola Club in Europa e gestisce i rapporti. Lorenzo è andato per sei mesi in Lussemburgo e ha trovato alloggio e ospitalità attraverso il Viola Club Lussemburgo». Una rete di contatti diffusa per il mondo e unita solo da questo strano sentimento ancestrale e indescrivibile che ci porta a soffrire ogni domenica vestiti di viola.

«Tifare Fiorentina a distanza» dice Lorenzo «ha sicuramente i suoi pro e i suoi contro. Da un lato è molto alienante perché non vivi la quotidianità della tua città, anche la distanza dallo stadio ti cambia le cose. Dall’altro lato hai un attaccamento più forte, un radicamento più forte. Perché alla fine poi è quello che ti tiene attaccato a tutto. Te la devi andare a cercare, la Fiorentina; te la devi costruire giorno per giorno».

«Attraverso la Fiorentina e le sue partite nascono rapporti che vanno anche al di là della Fiorentina» dice Francesco del Viola Club di Parigi. «Io sono di Firenze ma il presidente è di Parigi; ci sono anche altri francesi, alcuni con origini fiorentine. C’è un altro ragazzo che è francese ma suo nonno faceva il madonnaro a Firenze e quindi gli è rimasto attaccato il virus».

«Quest’anno - continua Francesco - si starà un pochino a vedere. Io sono sempre stato abbastanza positivo e ho sempre difeso le operazioni di mercato di questa Fiorentina. Perché a differenza di altri che arrivano, buttano tutti i soldi subito e se falliscono vendono la società, come è successo a volte, con questa proprietà c’era un progetto di crescita piccolo e continuo. Alcune cose non me le spiego, come a gennaio dell’anno scorso quando eri quarto e potevi fare uno sforzo in più; invece ti sei messo il bastone fra le ruote da solo». Francesco non lo dice, ma anche qui è chiaro che sta parlando della cessione di Vlahovic alla Juventus, un’altra ferita ancora aperta per quella che è forse la più grande sliding door del ciclo di Vincenzo Italiano - e forse anche della presidenza Commisso.

Gli umori di tutti sono un po’ altalenanti. Il mercato è ancora aperto, l’inizio di stagione non è stato dei migliori e le finali perse fanno ancora male. «Io sono ottimista», interviene un altro Lorenzo, adottato anche lui dal Viola Club di Parigi anche se di base è rimasto a Firenze, «ogni anno quando si parte si lotta per lo Scudetto». Sorride, mentre gli altri lo prendono in giro.

Il tema del vincere e del non vincere, dopo le finali perse, è bruciante e divisivo. Nei discorsi si percepisce il senso di incompiutezza, di cerchio non chiuso, ma anche la consapevolezza di essere in un momento positivo. In cui le finali le giochi, ti entrano sotto pelle, provocano ferite che non si rimarginano, ma ne puoi parlare, servono anche quelle ad alimentare l’identità e la storia condivisa.

Ogni finale, poi, lascia ferite diverse. La sconfitta di Praga è stata la più dolorosa delle tre perché è quella che ci ha riportato sulla terra dopo aver volato troppo in alto. Atene era già finita prima di cominciare. La rassegnazione che Andrea vedeva sui volti dei tifosi dopo la sconfitta di Praga, un anno dopo si era già mangiata tutto ciò che restava di quell’energia, di quell’entusiasmo. La sconfitta contro l’Olympiakos in finale di Conference League è quella che tutti avevamo già in qualche modo previsto con più mestizia, al termine di una stagione strana, in cui la squadra sembrava già stanca e a fine ciclo.

Cosa significa essere della Fiorentina, in poche parole? Per Massimiliano «Tifare Fiorentina è identità. Al di là del risultato, al di là di tutto, io da quando vivo a Bruxelles - e oramai son 10 anni - sono più tifoso di quanto lo fossi quand’ero qui. Perché per me è identità, è identificarmi con i miei colori, la mia città. Per me essermi trasferito è stato anche meglio, ha rinsaldato ancor di più l’amore che provo per la mia squadra».

Durante la partita la mia attenzione è rivolta spesso alla curva. I tifosi cantano come fossero in Fiesole, anche se sono in Ferrovia. Al fischio finale di un deludente 0-0 la curva continua a cantare. Quando è il momento di andar via è Andrea che si avvicina per abbracciarmi, mormorando parole di conforto, da tifoso a tifoso: «Ti sei scelto una squadra difficile da tifare». Lo so, ma non l’ho scelta io, come non l’hanno scelta loro. Il groppo nel petto non si scioglie mai.