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La Nuova Stagione: Genoa CFC 2024/25
16 ott 2024
16 ott 2024
Un racconto sul tifo, i suoi simboli e le sue storie. La seconda puntata è dedicata al Genoa.
(copertina)
Fotografia di Giuseppe Romano
(copertina) Fotografia di Giuseppe Romano
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I bar fuori dallo stadio di Genova sono capsule del tempo. Sono identici da quando ero ragazzino, il che dà una sensazione qualche volta dolce e qualche altra volta non del tutto piacevole. Dietro i vetri consumati del bancone ci sono toast già pronti e pizzette che vengono riscaldate dentro grosse piastre nere, al contempo lentissime e dall’aria pericolosa, potenzialmente folgorante. Alle pareti ci sono gagliardetti rossoblù sbiaditi col grifone-gallinaccio degli anni Ottanta, tornato d’attualità con la bellissima seconda maglia che, si può dire senza esagerare, è la miglior notizia che i tifosi genoani abbiano ricevuto in questo inizio di 2024/25. Intercetto almeno una conversazione sul Totocalcio, dalla quale apprendo innanzitutto che il Totocalcio esiste ancora. Un ragazzino che non potrà avere più di 16 anni porge lo smartphone a un coetaneo dicendo: “guarda la mia schedina”. La gente indossa maglie numerate, alcune autografate. Una ragazza bellissima con grandi occhiali scuri da diva e capelli del colore del cioccolato fondente ha la sciarpa legata in vita e addosso la 8 di Bertolacci, un ragazzino che addenta un panino ha la 24 firmata con dedica a pennarello da Emiliano Moretti, direi della stagione 2011/12 quando a lui non poteva avere più di tre o quattro anni. Chissà la storia.

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La Nuova Stagione è un progetto realizzato in collaborazione con Kappa. Il video è di Edoardo Bandiera, tutte le foto sono di Giuseppe Romano.

Con oltre 28.000 tessere quest’anno i genoani hanno ulteriormente ritoccato il record storico cittadino di abbonamenti stabilito l’anno scorso. È un numero francamente impressionante in una città che ha due squadre e ormai solo mezzo milione di abitanti, un numero che colloca il Genoa al quarto posto in serie A, al di sopra di Lazio e Juventus, e quasi al triplo di squadre più ambiziose come Torino e Fiorentina.

In queste prime giornate quindi c’è un diffuso entusiasmo del ritrovarsi, quasi del contarsi, non ancora troppo focalizzato sul risultato di partite non ancora avvertite come decisive.

C’è qualcosa di strano nel presentarmi ad altri genoani come giornalista, mi sento un po’ un impostore e un po’ in uno di quei sogni assurdi in cui ti vedi da fuori, o vedi qualcuno con fattezze diverse dalle tue ma per qualche motivo sai di essere tu. È stata un’estate contraddittoria, e si sente, tra i 28.000 abbonamenti e qualche cessione pesante. Chiedo a tre diversi gruppetti che sensazioni hanno per la stagione che sta iniziando, ed è come se avessi chiesto per chi votano alle elezioni. Mi rispondono molto educati ma un po’ troppo seri rispetto ai larghi sorrisi con cui mi avevano accolto, le risposte sono caute, generiche, interrotte da risate nervose, ho l’impressione che ci siano disaccordi interni al gruppo di amici e che non vogliano mettersi a bisticciare davanti a un giornalista.

Martina, 28 anni, abbonata da dieci in Gradinata Nord, cita il vecchio tifoso Pippo Spagnolo: “sei genoano e vuoi anche vincere?”. Il suo amico non si presenta ma si immalinconisce: «quella frase, quella retorica, madonna quanti danni…».

Gli ultimi due anni sono stati talmente diversi dal resto della storia recente del Genoa che sembrava di trovarsi in una tempolinea alternativa, o in quella scena di Boris in cui tutti diventano improvvisamente efficienti, allegri e servizievoli, ma è solo un sogno ad occhi aperti del protagonista.

Non tanto per i risultati, una promozione in serie A e una salvezza tranquilla, ma perché davvero si percepiva un cambio di spiritualità, una nuova prevalenza delle energie creative su quelle autodistruttive che i genoani erano abituati a portarsi appresso senza neanche più farci caso, come pappagalli psicotici sulla spalla capaci di ripetere solo “perderai sempre”. Una sorta di Sessantotto genoano (con una sua colonna sonora, da Bresh a Annalisa) che come l’originale era arrivato da oltreoceano, solo da Miami invece che da Berkeley. Il Genoa ha sempre appoggiato le proprie antiche fondamenta su un piano inclinato, ma era come se un colpo bene assestato ne avesse invertito la pendenza. Una squadra che durante gli ultimi anni di gestione di Preziosi sembrava diventata un frullatore capace di ridurre il gusto per la bellezza e il talento a una poltiglia insapore, coi valori nutrizionali strettamente necessari a salvarsi per un pelo, ora sembrava una di quelle bottegucce di artigianato stracolme di clienti e curiosi nonostante i prezzi astronomici.

«L’anno della serie B è stato meglio di tutti i dieci precedenti in serie A» mi dice allegramente Giacomo 40 anni, vestito come se stesse andando alla presentazione di un libro, un bracciale di spago sottilissimo come unica traccia di rossoblu. «Perché da genoani eravamo abituati a deprimerci con il presente e tirarci su il morale con il passato. Invece con questi finalmente c’era un futuro».

Sotto la guida del plenipotenziario tedesco Johannes Spors, che come tutti i messaggeri del futuro emanava allo stesso tempo il fascino razionale della tecnica e quello mistico della magia, un’aletta in scadenza con l’AZ Alkmaar, il mediano del Brøndby, un giovane centrale scartato dalla Juve dopo un affaccio da incubo alla serie A e il terzo portiere del Lipsia quintuplicavano il loro valore e in qualche mese diventavano Gudmundsson, Frendrup, Dragusin e Martinez. Era come nelle migliori partite di Football Manager: ti sentivi allo stesso tempo vincente e virtuoso, le altre squadre quando non riuscivano a comprare a 5 e rivendere a 20 o 30 sembravano un po’ stupide, governate da una CPU mediocre. E non era solo questione di scouting: anche i reduci della gestione precedente (Sabelli, Vogliacco e Badelj per fare qualche nome), piagati da vari incidenti fisici e spirituali nella prima parte di vita al Genoa, ti regalavano uno dei piaceri più sottili e sottovalutati della vita: quello di doverti ricredere in positivo, di essere reso più umile non da uno schiaffo ma da una carezza.

Era difficile capire i contorni esatti di quello che stava succedendo, ma - se usare termini del genere è lecito parlando di calcio - si aveva la sensazione che qualcuno, al Genoa, stesse facendo le cose con quella commistione di intelligenza, capacità, istinto e consapevolezza che talvolta chiamiamo grazia.

«I genoani non sono una tifoseria competente, e non pretendono di esserlo» continua Giacomo, che come molti genoani parla dei genoani in terza persona «Su quel piano si affidano completamente. Se vendi tutti e gli dici che ci siamo rafforzati loro ci credono, e si abbonano in trentamila».

Quando si dice che nel calcio le cose cambiano in fretta di solito ci si riferisce ai risultati, e non a un completo rovesciamento degli orizzonti esistenziali, eppure oggi il Genoa è in una posizione di classifica difficile. Il campo sembra semplicemente troppo lungo, troppo largo e troppo impervio anche solo per pensare di risalirlo, il pallone un corpo poligono crudele e ingovernabile.

Contro il Verona e contro il Venezia, in due scontri diretti decisivi, il Genoa ha mantenuto un qualche rapporto con la realtà per circa un’ora, poi si è fermato a guardare gli avversari spadroneggiare come in un incubo. Contro la Juve c’è voluto un tempo, nel quale gli avversari non hanno mai tirato in porta. Al primo minuto della ripresa De Winter ha accarezzato la palla in area con la mano come se si fosse dimenticato che si stava giocando a calcio, e poi ha guardato l’arbitro che indicava il dischetto silenzioso e offeso come un bambino che non ha resistito alla tentazione di toccare una rosa e si è punto.

In mezzo la sconfitta più dolorosa, nel derby di Coppa Italia, nella quale il Genoa si è trovato in mano un vantaggio immeritato e si è messo a saltellare e ansimare come se bruciasse, consegnandosi a una Sampdoria che da quartultima in serie B ha fatto la grande squadra, limitandosi a far girare il pallone da un lato all’altro del campo in attesa dell’erroraccio che inevitabilmente è arrivato. Sul gol di Borini i quattro giocatori che lo circondavano pur lasciandolo libero di calciare si sono voltati e allontanati in quattro direzioni diverse, il viso impietrito di quattro uomini che condividono un segreto terribile e per questo motivo non potranno incontrarsi mai più.

«Il bello è che il derby lo abbiamo caricato noi molto più di loro» sibila Giacomo «che eravamo quelli con pochissimo da guadagnare e tutto da perdere. Cosa ci vuoi fare? Siamo fatti così».

Per spiegare le squadre che vincono e giocano bene usiamo gli strumenti puliti e scintillanti delle scienze dure: geometria, statistica, matematica, gli schemi di Guardiola o di Klopp disegnati su bei rettangolini di un verde brillante, le animazioni colorate dei reel di tattica su Instagram, l’algoritmo dell’eccellenza che sembra poter essere scoperto o per lo meno dedotto da chiunque di noi sia disposto a dedicarsi con sufficiente zelo a questa specie di SEO calcistica.

Sulle squadre che vanno male invece sprofondiamo nel medioevo cognitivo: colpa e vergogna, campi di energia negativi, al massimo una spolverata di psicologia d’accatto. Il Genoa efficace e vincente di Gilardino dello scorso anno si poteva misurare con le statistiche, ci avevo provato un po’ anche qui su Ultimo Uomo, ma provare a usare gli stessi strumenti per capire quello che sta succedendo adesso, sebbene l’allenatore sia lo stesso, secondo me non avrebbe più senso che prendere il tempo sui 100 metri a uno che ha quaranta di febbre.

O forse semplicemente la nostra è una società più attrezzata per analizzare le vittorie che le sconfitte, l’elaborazione delle quali subappaltiamo non a caso pacchetti lenitivi ottenuti con miscele sincretiche di altre culture, come se il problema della sconfitta fosse nostro fino a un certo punto. Un tempo si diceva che chi vince esulta e chi perde spiega, oggi chi vince spiega e chi perde fa yoga.

I genoani però non hanno nessuna voglia di tornare in terapia, non così presto. «Non è vero che ai genoani piace perdere!» si accende l’amico di Martina di cui continuo a ignorare il nome, anche se nessuno ha sollevato l’accusa in quei termini «sono genoano e certo che voglio anche vincere. In questi due anni si è visto che al Genoa si può fare calcio come e meglio che da un’altra parte, che siamo tifosi di una squadra e non custodi di un museo». L’implicazione è che in qualche modo la festa sia già finita, ma Martina non è del tutto d’accordo: «In fondo Retegui era sempre rotto, e Gollini al posto di Martinez non è male. Manca Gudmundsson e lì Gilardino deve farsi venire qualche idea, ma io mi fido di lui. Poi al livello della società può succedere qualunque cosa, magari anche una svolta positiva».

Elio indossa già la nuova seconda maglia, quella col gallinaccio che vogliono tutti. Candida, morbida sulle spalle magre e sul fisico asciutto, gli dà l’aria di un tennista un po’ attempato pronto per due palleggi al club. Sulla cinquantina, Elio vive all’estero e riesce a vedere il Genoa solo una manciata di volte all’anno. Non riesco a capire precisamente che lavoro fa perché il mio cervello oltre un certo livello di reddito smette di funzionare, ma contrariamente alla sua postura complessiva, che potremmo definire sazia, Elio rivela una versione più spirituale, quasi oltremondana della genoanità: «Per me la partita del Genoa è la partita del Genoa. Ci venivo con mio padre, poi con i miei amici. Mi ricordo tutto di quelle giornate, i gol, magari il risultato della singola partita. Di certo non se alla fine dell’anno arrivassimo settimi o quattordicesimi, e spesso nemmeno se eravamo in serie A o in serie B. È così anche per i miei figli, che ogni tanto mi chiedono non di scendere un weekend in Italia, ma di scendere a vedere il Genoa».

Gli chiedo comunque cosa pensa della squadra e se ha qualche aspettativa in particolare, mi risponde che il calciomercato gli dà la nausea e non lo segue. (In questo i genoani sono una tifoseria polarizzata ai due estremi: o seguono il mercato in maniera ossessiva o lo ignorano completamente, le vie di mezzo sono molto rare. Suppongo che siano un po’ come gli innamorati respinti: o rimuovono le notifiche della persona che li ha lasciati o le controllano ossessivamente, sono due modi uguali e contrari di soffrire). «Però Vitinha e Pinamonti secondo me sono una bella coppia», concede, «da metà classifica almeno».

Gli interni dei bar e dei club vicino allo stadio cominciano a calare di densità, ma non si svuotano completamente. Molti non hanno il biglietto, o comunque per un motivo o per l’altro non entrano, ma per godersi la partita in TV hanno comunque bisogno di vicinanza fisica allo stadio.

«Quella frase che dicevo prima, ‘sei genoano e vuoi anche vincere?’, hai presente?», mi dice ancora Martina, prima di dirigersi verso la gradinata Nord col suo amico, «secondo me non vuole mica dire che vincere non ci piacerebbe. Vuol dire che non ne abbiamo bisogno, e proprio per questo quando vinceremo sarà bellissimo».