Esattamente un anno fa, all’ultimo giorno del mercato invernale, Leon Bailey - poco meno che ventenne - si è trovato a un bivio paragonabile solo a quello di fronte al quale, credo, si imbatte un giovane collegiale americano quando deve scegliere la partner per il suo primo ballo di primavera. Ha accettato di lasciare il Belgio per approdare in Bundesliga: una mossa per certi versi controintuitiva, tanto che più di qualche sopracciglio si è sollevato.
È parso da subito chiaro che l’affare sia stato tutto dei tedeschi, che hanno speso 12 milioni di euro per un calciatore che oggi ne vale, probabilmente, molto più del doppio.
La titubanza era tutta per Leon: perché un giocatore così in ascesa, circondato da aspettative altissime, votato miglior giovane belga nella stagione precedente, aveva preferito le “Aspirine” e l’austera maniacalità per il lavoro della Bundesliga al glam della Premier League, al Chelsea - di cui si dichiarava tifoso da ragazzino - e al Manchester United, che pure lo avevano seguito insistentemente?
Perché, insomma, non ha sognato in grande? Bailey ha firmato con il Bayer un contratto quinquennale: ha dimostrato di credere così tanto nel progetto da averci investito praticamente tutta la sua gioventù, se presupponiamo che tra i 19 e i 24 anni un calciatore raggiunga la maturazione, o esploda come una supernova. Anche al Genk - dove sono cresciuti Ferreira-Carrasco, Koulibaly e Milinkovic-Savic - nonostante fosse evidente a tutti che la Jupiler League fosse una semplice tappa interlocutoria, ha deciso di fermarsi per un tempo più lungo del necessario. Ha fatto, insomma, pure l’affinamento in botte. «Quando sono arrivato volevo stare almeno due anni», disse al momento della firma, «perché mi sembrava il tempo giusto per crescere il più possibile».
Da gennaio a maggio scorso, nel primo semestre al Bayer, ha raggranellato otto presenze, nessuna da titolare. Non è mai rimasto in campo più di quarantacinque minuti: ovviamente non è mai andato a segno. Quest’anno, al contrario, ha già collezionato 8 gol e 5 assist in poco più di un girone di Bundesliga (10 gol, se consideriamo anche la Coppa di Germania): due gol nelle ultime quattro partite giocate, di una bellezza così inconsueta da attirare su di lui molti riflettori, da far bisbigliare la parola wunderkind.
Lievitare
C’è stato un periodo, nella stagione scorsa, in cui sembrava che il suo lento e faticoso processo di ambientamento in Germania non stesse funzionando, e che Leon si stesse un po’ deprimendo.
Ad aprile viene escluso dalla lista dei convocati per la partita contro il Wolfsburg per via di un raffreddore. Leon torna allora a Genk, come per volersi ritrovare. Va ad allenarsi in palestra e con l’incoscienza spocchiosa delle piccole star filma un uomo che sta facendo degli esercizi in maniera un po’ teatrale. Il video finisce su Snapchat, dove Bailey definisce il compagno di allenamenti «un pagliaccio».
Il problema è che quell’uomo si chiama Atif Tanriseven Ribera e di professione fa il pugile. Atif va a cercare Leon, lo trova in un café del centro di Genk. Lo affronta a muso duro, registrando la loro conversazione, mandandola in diretta su Facebook. Leon è fortunato che Atif non gli metta le mani addosso.
Leon Bailey ha la faccia di uno che è stato baciato dalla fortuna, e che è furbo abbastanza per farsela bastare in tempi di magra. Il tredici è un po’ il suo numero feticcio da quando è in Germania. Il suo primo gol in Bundesliga (la prima rete in assoluto con il Bayer risale al primo turno della Coppa di Germania, ai supplementari contro il Karlsruhe) è arrivato alla tredicesima presenza e, coincidenza, anche al tredicesimo tiro.
Una settimana prima, all’esordio tra i titolari, nella partita in cui compaiono già tutti i movimenti che fanno impazzire i difensori e stropicciare gli occhi a chi lo osserva, aveva fornito due assist ai compagni, entrambi dall’esterno sinistro, una zona di campo che peraltro non predilige.
Il secondo assist, per l’argentino Lucas Alario, è un cross teso, profondo il giusto, il tipo di cross che ogni centravanti sogna gli arrivi al centro dell’area. Poche settimane fa, contro l’Hoffenheim, ha segnato un gol di tacco, praticamente un rigore in movimento calciato con lo sguardo al centrocampo. Un gol che Heiko Herrlich ha definito «sporco», la testimonianza di come Leon «possa fare qualsiasi cosa voglia in questo momento». Un gol che ha generato parossismi, suscitato ammirazione, fatto gridare al rinnovarsi del miracolo calcistico del ragazzino che sembra maneggiare l’onnipotenza. Un gol, va detto, che è innanzitutto una dimostrazione di coraggio; ma poi, soprattutto, oltre che un gol divertente, un gesto in cui il primo a sembrare visibilmente divertito è proprio Leon.
Il divertimento, innanzitutto
Bailey diverte le persone che lo osservano, ma lo fa divertendosi lui per primo. Senza timore di esagerare, nelle ultime settimane guardare Bailey giocare in Bundesliga è diventato come osservare Usain Bolt (del quale peraltro Leon è molto amico) gareggiare in pista.
Bailey è comunque un giocatore più complesso di quello che pensa chi si sofferma solo sulla sua velocità: ha ottime capacità tecniche, ovviamente, e in più l’apprendistato tedesco gli ha insegnato a non disperderle nei solipsismi. Se in Belgio aveva una media assurda di 7 dribbling tentati per 90 minuti, in Germania si è assestato su un più ragionevole 2.1, che lo rende comunque uno dei dribblatori più insistenti in Bundesliga insieme a Naby Keita e Christian Pulisic.
Il risultato più sorprendente dell’ambientamento di Bailey negli schemi di Heiko Herrlich è la maturazione in quanto a visione di gioco, la sicurezza nella conduzione di palla a testa alta, l’inclinazione quasi feticistica per gli assist, per i killer-pass. Anche se resta chiaro che per caratteristiche, Bailey si esprime al meglio delle sue possibilità quando di fronte ha il campo spalancato. È anche il tipo di calciatore che si esalta se ci sono avversari da superare, spazi stretti in cui incunearsi e danzare con un pallone vicino al piede; ma è soprattutto in campo aperto, dove può lasciar esplodere il dinamismo del centometrista, che Leon Bailey diventa praticamente inarrestabile.
Nel Bayer, Leon ha imparato che le parole libertà e anarchia non sono necessariamente collegate tra loro. Negli ultimi mesi è migliorato tantissimo nei movimenti senza palla, che non aspetta più tra i piedi con la presunzione di voler risolvere le partite solo coi suoi dribbling. E il fatto che abbia imparato a inserirsi negli spazi, e a dettare i movimenti in profondità per i passaggi dei compagni, non ha che amplificato la sua pericolosità offensiva.
Sembra, insomma, arrivato per Bailey il momento del secondo passaggio nel percorso di perfezionamento, quello auspicato da Peter Maes, suo allenatore al Genk, quando diceva «è un diamante grezzo dall’incredibile talento; il “calciatore di strada” che c’è in lui deve maturare, ma è un ragazzo intelligente».
La maturazione è passata anche attraverso la scoperta di una certa predisposizione a difendere, a usare la sua fisicità (è alto un metro e ottanta, dopotutto) e la reattività per rincorrere l’avversario. Caratteristiche che saltano meno all’occhio rispetto all’appariscenza di giocate come questa qui sotto: Bailey riceve palla sulla destra e con il sinistro, a incrociare, disegna una traiettoria che somiglia molto a quella che è stata votata come il miglior gol dell’Europa League 2016/17.
Per tentare un tiro del genere ci vuole, oltre che il dono della balistica, una buona dose di consapevolezza nei propri mezzi. E in questo periodo, Bailey sa che tutto ciò su cui poggia i piedi diventa, come vorrebbe sottolineare l’hashtag forse non proprio riuscitissimo, “bellissimo”.
One, one coco full basket
È un proverbio giamaicano, significa che un cocco per volta, ammonticchiato sull’altro, può riempire un paniere. Bailey non ha avuto fretta di realizzarsi: una noce di cocco dopo l’altra, oggi a casa ha una stanza dedicata al culto della personalità, dove custodisce le reliquie delle prime volte. Maglie incorniciate, le figurine di FUT, una foto in cui elegantissimo riceve il premio come miglior giovane belga dell’anno. Però non dimentica le origini, alle quali è legato da un rapporto strano, morboso, sicuramente controverso.
L’uomo col cappello da Mr Crocodile Dundee sulla sinistra è Craig Butler.
Un personaggio complesso, un visionario per alcuni e un affarista senza scrupoli per altri, proprietario di una Academy da cui escono piccoli prospetti che cerca poi di piazzare personalmente sulle più importanti piazze europee.
Butler è l’agente di Bailey, oltre che il padre adottivo. Lo ha preso sotto la sua ala quando era un ragazzino che viveva a Cassava Piece, uno dei sobborghi più violenti di Kingston. Lo ha fatto crescere, anche e soprattutto calcisticamente, e quando aveva quattordici anni l’ha caricato su un aereo, insieme al figlio Kyle, e ha deciso che avrebbero sfondato in Europa. In un modo o nell’altro.
I racconti delle prime avventure di Bailey hanno i contorni sfilacciati del sogno: i particolari potrebbero essere ingigantiti, trascinati sul piano del ricordo mitico. Il primo provino è a Salisburgo, dove a coordinare le giovanili del RedBulls c’è Percy Van Lierop, storica figura delle giovanili dell’Ajax. Ma qualcosa non funziona, e Butler, un Mangiafuoco che gira col suo teatro di marionette, si dirige verso Vienna. Il Rapid li rifiuta, loro dormono in stazione, finché non si accasano ad Anif, un paesotto di quattromila anime nel salisburghese, dove Butler trova posto come osservatore e Bailey segna, in due anni, 75 gol in 16 partite. Sì, avete letto bene. Perché solo 16 partite? Perché come spiega Mike Rosbaud, il suo allenatore a quei tempi, «stavano sempre in giro (intende Leon e Craig, NdA) per l’Europa a fare provini con club più grandi».
Butler prova anche con il belgi del Genk, dove si sono formati negli ultimi anni più di un giocatore diventato poi discretamente importante, partendo da Kevin de Bruyne. È il 2012, Bailey ha 15 anni e tecnicamente non potrebbe firmare nessun contratto perché la legge belga lo proibisce.
Tornato nei Caraibi, Butler però non demorde: ci riprova l’anno dopo con l’Ajax, dove Frank de Boer, quando ha modo di vedere Bailey all’opera, rimane molto colpito: «In quanto a velocità e agilità era già meglio di molti ragazzi della prima squadra. Era così veloce che non era normale, doveva esserci qualcosa. Poi la velocità in combinazione con una tecnica del genere è molto rara. Eccezionale: non aveva punti deboli».
L’unico punto debole, a questo punto della carriera di Leon, è la data di nascita. Torna a Genk, dove si allena e frequenta la scuola in attesa dei documenti che possono permettergli di finalizzare la contrattualizzazione. Craig Butler è partito da qualche settimana, di ritorno porterà i documenti necessari. Sparirà per quattro mesi, al termine dei quali dichiarerà di esser stato rapinato in Messico, rapito e abbandonato nel deserto, mezzo morto. I dirigenti del Genk nel frattempo, praticamente adottano Bailey.
Nel 2015, appena diciottenne, firma il contratto con il KRC, che lo annuncia con un comunicato che sembra la formula di rito che una coppia pronuncia al suo matrimonio dopo dieci anni di fidanzamento, finalmente liberatoria.
Metterà insieme 4 gol e 7 assist alla prima stagione, guadagnandosi il premio di miglior giovane belga dell’anno e dando vita a un piccolo intimo culto nella comunità giamaicana.
Once a reggae boy, always a reggae boy
Nonostante la primissima foto postata su Twitter lo vedesse vestire la divisa della nazionale giamaicana, Leon Bailey non è ancora mai sceso in campo con i Reggae Boyz, o almeno non con la selezione maggiore: la sua unica presenza in maglia gialla è in un match dell’Under 23, in cui - ovviamente - è andato a segno.
Secondo Craig Butler c’è un motivo molto semplice per il quale il più forte giocatore giamaicano in circolazione non ha ancora deciso per quale nazionalità calcistica optare: «Io sono giamaicano», ha detto, «e anche Leon lo è. Amiamo la nostra nazione, e vogliamo il meglio per lei; non è una scelta che influirà particolarmente sulla carriera di Leon o di Kyle (il figlio naturale di Butler, NdA). Leon è un giocatore che vale già 18,5 milioni di euro, non ha problemi a ottenere un permesso di lavoro ovunque voglia». Lo stesso Bailey, in effetti, non ha mai posto la questione sul piano dell’appartenenza: «La mia ambizione è più grande dell’amore per il mio Paese», ha risposto quando gli hanno chiesto se avrebbe mai accettato di rappresentare il Belgio.
«Il punto», ha continuato Butler, «è e sarà sempre uno solo: avremo mai una cultura calcistica che metta i giocatori nelle condizioni di lavorare in maniera sistematica e uniforme?».
Quindi siamo destinati a non vedere mai Bailey con questa maglia che pure gli dona tanto? Winfried Schaefer, tecnico della Jamaica dal 2013 al 2016, ha raccontato di averlo più volte convocato per la Gold Cup, di aver anche parlato con i dirigenti del Genk, di aver visto in lui una specie di nuovo Mehmet Scholl: un calciatore che così, in Jamaica, non l’hanno mai avuto. Però a bloccare l’esordio di Leon nei Reggae Boyz sembra sia stato proprio Butler.
Cosa significano allora i suoi discorsi sulla necessità di prendere una decisione con molta calma? Sono solo gli strali di un agente preoccupato da una parte di garantire al suo assistito le migliori prospettive di carriera, e dall’altra di giustificarne le scelte di fronte a una comunità con un forte senso di appartenenza?
In realtà sono qualcosa di più, e cioè i sintomi di una visione più ad ampio respiro che l’ha portato a candidarsi anche come presidente della JFF, la federazione calcistica giamaicana, con un programma visionario, il cui fine ultimo è «fare della Jamaica una potenza mondiale». Per riuscirci, secondo Butler, è fondamentale che i calciatori giamaicani «guadagnino una grande somma di denaro da spedire alle loro famiglie e comunità», e che possano aiutare a generare indotto attraverso l’organizzazione di amichevoli tra grandi club (nei quali probabilmente dovrebbero giocare i calciatori che escono dalla sua Academy) e tornei internazionali. «Siamo limitati dalle nostre paure, dobbiamo solo imparare a credere in noi stessi, e crederci al cento per cento».
Alla fine dello scorso dicembre, Butler ha annunciato di avere un cancro. «Significa che prima o poi dovrò davvero passare del tempo con la mia famiglia», ha scritto.
Leon, che è anche la sua famiglia oltre che il suo lavoro, dovrà scegliere, crescendo, innanzitutto se continuare a condividere il punto di vista del padre adottivo e combattere insieme a lui una mezza guerra alla JFF. Oppure se divincolarsi e cominciare a ragionare in autonomia. Certo è che se continuerà a giocare a questi livelli, il Bayer non potrà resistere a lungo prima di cederlo. Völler ha dichiarato che «l’unico club che può dire di no, e che lo farebbe, è il Bayern Monaco. Noi, e gli altri club, dobbiamo cedere ogni tanto. Ci sono soglie di accettazione del dolore».
Nel frattempo a Leverkusen si godono la sua «qualità brutale», come l’ha definita Heiko Herrlich, la stessa che gli permette di sfrecciare in campo come la macchina sportiva appariscente che ha nella foto profilo del suo Instagram, come l’amico Usain Bolt, come un ragazzo di vent’anni che ha imparato a gestire le forze e gli sforzi e conosce bene quand’è il momento di forzare la mano. E quel momento, se non è ora, allora quando.