Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La reality era del Wrestling
01 nov 2016
Il Wrestling ha smesso di provare a camuffare la propria finzione.
(articolo)
10 min
Dark mode
(ON)

C'è una data precisa che segna il momento in cui è calato il sipario sulle pretese di veridicità del wrestling americano: è il 10 febbraio del 1989, Vince McMahon (proprietario della WWF, oggi WWE, la più grande compagnia al mondo che si occupa di wrestling) si trova davanti al Senato del New Jersey per chiedere che il wrestling venga eliminato dalla lista degli sport soggetti alle regole e ai controlli della Commissione Atletica degli Stati Uniti, e così liberato dalle tasse da pagare.

In quel giorno preciso, Vince McMahon decide che la deregolamentazione del suo business è più importante di qualunque altra cosa. E svela il segreto custodito da quasi un secolo: «Il wrestling dovrebbe essere definito come un'attività in cui i partecipanti conducono la battaglia di comune accordo allo scopo di intrattenere gli spettatori, più che come un vero e proprio contest atletico».

È fatta: la deregolamentazione del wrestling viene approvata per 37 voti contro uno e il sospetto che da tempo immemore avvolgeva gli incontri diventa certezza. Un articolo del New York Times dell’epoca titola: «Ora si può dire, questi wrestler si stanno solo divertendo».

Un altro colpo alla credibilità del wrestling arriva nel luglio 1994, durante il processo in cui Vince McMahon è sotto accusa per una presunta distribuzione capillare di steroidi ai suoi atleti. Presunta perché McMahon da quel processo verrà assolto, soprattutto grazie alla testimonianza in sua difesa portata da Hulk Hogan.

Ma a differenza di quanto viene spesso raccontato, a salvare Vince McMahon da quel processo non fu il fatto che il wrestling fosse “falso” (e che quindi l'uso di steroidi non potesse essere punito). Lo dimostra una dichiarazione del giudice: «L’unico tema importante per questo caso è la distribuzione [di steroidi, ndr] e provarla al di là di ogni ragionevole dubbio. Questo è il punto, non se il wrestling sia finto, sia uno sport, o sia solo intrattenimento».

In quei giorni, comunque, Vince McMahon sembra molto interessato a sottolineare nelle sue dichiarazioni alla stampa la distanza del wrestling dagli altri sport, implicitamente sminuendo la gravità di un uso diffuso di steroidi sul quale è difficile avere dubbi: «Confrontate pure i nostri controlli sugli steroidi con quelli della NFL, anche se non siamo uno sport quanto loro. Ma confrontateli anche con quanto fa Hollywood in termini di lotta all'abuso di droghe e steroidi». Come direche il wrestling sia più vicino all’universo del cinema che a quello dello sport. Ma la diffusione del web nel 1994 è ancora relativa e questo fa sì che questa idea rimanga circoscritta.

Ma presto il web si espande: testate storiche come il Wrestling Observer di Dave Meltzer iniziano a circolare online, si moltiplicano siti e forum in cui si discute della falsità o meno del wrestling e diventa facile anche trovare interviste “shoot” (come si dice in gergo) in cui i lottatori escono dal personaggio. Nel giro di pochi anni, le prove sono tali che ignorare la predeterminazione del wrestling significa sostanzialmente negare la realtà: gli incontri di wrestling non sono agonistici, non sono nemmeno truccati, sono semplicemente già decisi.

Avrebbe potuto essere l’inizio della fine, la rottura dell’incantesimo (o almeno dell’incertezza) che trascinava ogni settimana decine di migliaia di persone all’interno delle arene, e milioni di spettatori davanti alle tv, per guardare uno spettacolo in cui atleti mascherati da becchino o da rapper o da miliardario si parlano nelle orecchie durante il match, per decidere come arrivare alla conclusione di una rivalità magari nata in seguito al tradimento di una donna. Ma le cose sono andate molto diversamente e il wrestling ha superato senza troppe difficoltà lo svelamento del suo storico segreto (nonostante qualche fan indefesso, chiamato in gergo mark, si ostini a credere alla sua veridicità, come si vede nel video sotto).

It’s still real to me, dammit!

Costruirsi una credibilità

Per capire come sia stato possibile, bisogna fare un salto nel passato e sfatare il mito secondo cui, almeno fino alla prima metà del Novecento, il wrestling fosse “vero”. L’autenticità degli incontri è sempre stata messa in discussione, fin dalla nascita stessa del pro-wrestling (termine con cui lo si distingue dal wrestling inteso come lotta libera) nella seconda metà dell’800. D’altra parte, i match si tenevano per lo più in occasione di fiere di paese o nei circhi, non esattamente dei luoghi affidabili da un punto di vista agonistico. Stando a quanto scrive Matthew Hester sul Bleacher Report, «al di là di rare occasioni in cui i match disputati erano veri, gli incontri erano già allora predeterminati».

I dubbi che circondano questa pratica non le impediscono di avere una rapida crescita di popolarità, tanto che gradualmente gli eventi iniziano a disputarsi in vere e proprie arene e a darsi un tono più professionale. Se nelle fiere si presentavano personaggi folkloristici, l’obiettivo in questa fase (tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento) è quella di dare al pro-wrestling un’aura di credibilità: atleti privi di costumi bizzarri combattono match lenti, dalla durata lunghissima, composti più che altro da prese a terra in stile lotta libera e dallo scarso pathos.

Uno dei più vecchi incontri USA disponibili in rete, del 1920, giusto per capire quanto fossero noiosi.

Attorno agli anni ’20, però, qualcosa si rompe: gli spettatori sembrano stufi di assistere a questo tipo di incontri e dei costanti dubbi sulla loro veridicità (nonostante questo, i risultati dei match continuano a venir riportati nelle pagine sportive dei quotidiani dell’epoca). Ma contribuisce anche la popolarità crescente di un altro sport di combattimento, dotato di una maggiore credibilità: la boxe.

A salvare il wrestling ci pensa la geniale intuizione di tre promoter: Ed “Strangler” Lewis, Billy Sandow e Joseph “Toots” Mondt, meglio noti come il Gold Dust Trio. L’idea che cambierà per sempre il wrestling è semplice: perché insistere a portare nelle arene incontri verosimili, combattuti da atleti senza carisma e senza caratteristiche extra-sportive? È merito loro, quindi, se il wrestling fa una brusca virata per trasformarsi da sedicente sport in show a tutti gli effetti: lo “slam bang western style wrestling”.

Gli incontri diventano più brevi, alle prese a terra iniziano a unirsi pugni, calci, colpi volanti e una vasta gamma di mosse di atterramento (bodyslam e suplex, per fare due esempi); ancor più importante, iniziano i “feud” tra i wrestler, che si sfidano in lunghe serie di incontri e la cui rivalità sembra causata anche da attriti personali, portando il pubblico a schierarsi da una parte o dall’altra.

In questo stesso periodo, il wrestling recupera un aspetto che lo caratterizzava ai tempi delle fiere, ma che era poi stato abbandonato per conferirgli un’aura maggiormente sportiva: le “gimmick”, i personaggi folkloristici, ognuno con il suo costume, la sua personalità e le sue caratteristiche. Tra cui quella di essere “buono” o “cattivo”, in modo da aumentare esponenzialmente il coinvolgimento del pubblico.

Da questo punto di vista, il primo lottatore a perfezionare il nuovo modo di intendere il wrestling è sicuramente Gorgeous George: attivo fin dagli anni ’40, è ricordato per le vesti elegantissime, per l’abitudine di spruzzare profumo nel suo angolo, per permettere solo al suo valletto di togliergli la veste e soprattutto per approfittare di ogni distrazione dell’arbitro per giocare sporco. Il pubblico lo odia. E allo stesso tempo paga il biglietto per poterlo odiare.

Un esempio di cosa fosse.

In questo modo, la divisione tra “babyface” (i buoni) e “heels” (i cattivi) diventa una parte essenziale di uno sport ormai trasformato in show.

Paradossalmente, però, con la nascita dei personaggi e la definitiva trasformazione del wrestling in show diventa ancora più importante mantenere le apparenze. Per questo motivo, i wrestler iniziano a rispettare le caratteristiche dei loro personaggi anche quando si trovano in pubblico, aspetto chiamato in gergo (il wrestling ha tantissimo gergo) “kayfabe”.

La kayfabe viene rispettata religiosamente dai lottatori, disposti a tutto pur di non svelare un segreto che, all’epoca, veniva considerato mortalmente pericoloso per il business. Un aneddoto relativo agli anni ’70 – raccontato su WhatCulture – fa capire quanto fosse importante.

Siamo nel 1975, Tim “Mr Wrestling” Woods (uno dei buoni) è in aereo assieme a Ric Flair, Johnny Valentine e Bob Bruggers (cattivi) per raggiungere l’arena in cui si terrà il prossimo spettacolo. L’aereo rimane senza carburante e si schianta nelle vicinanze dell’aeroporto. Valentine e Bruggers si infortunano alla schiena in maniera talmente grave da porre fine alle loro carriere. Anche Ric Flair si infortuna, ma riuscirà a riprendersi e a tornare alla carriera storica che tutti gli appassionati conoscono.

Pure Tim Woods è infortunato, ma il suo problema principale in quel momento è quello di celare al pubblico che lui, il buono, stesse tranquillamente viaggiando assieme ai suoi più acerrimi nemici. Woods si presenta quindi in ospedale con un altro nome dichiarando di essere uno degli organizzatori dell’evento.

Nonostante questo, qualche voce inizia a circolare. Per smentire definitivamente di essere stato sull’aereo, a Tim Woods rimane quindi una sola carta da giocare: tornare sul ring nei tempi più rapidi possibili, in modo da “dimostrare” di non essere rimasto coinvolto in un incidente aereo. E così fa: dopo due sole settimane, ancora gravemente infortunato, torna a combattere e, nonostante le difficoltà, porta a conclusione i suoi incontri. In pratica, mette a rischio la sua stessa salute per evitare che la magia del wrestling si interrompa.

Mr. Wrestling (Tim Woods) & Johnny Weaver vs Skandor Akbar & Mr. X (1979).

Altre prove di fedeltà alla kayfabe sono meno drammatiche: si dice per esempio che The Iron Sheik (che ha costruito la sua leggenda da iraniano nemico degli Stati Uniti) non si sia mai sognato di uscire dal personaggio di “anti-americano” in pubblico. Almeno fino a qualche tempo fa, visto che oggi – da pensionato del wrestling e personaggio di Twitter – le cose sono decisamente cambiate. Bruno Sammartino – l’italoamericano nato a Pizzoferrato che detiene il record per la più lunga permanenza come WWE Champion (all’epoca WWWF Champion), dal 1963 al 1971 – si rifiuta invece ancora oggi di ammettere la “finzione” dello sport che lo ha reso celebre.

Hulk Hogan vs The Iron Sheik (1984).

Arrendersi all’evidenza

Ma col passare del tempo, come abbiamo già detto, le cose cambiano. Con le ammissioni di Vince McMahon e il diffondersi di internet, incaponirsi a rispettare la kayfabe perde di senso: è sempre più facile reperire le interviste “shoot” ai wrestler e anche gli incidenti sul quadrato che mettono a nudo il vero funzionamento del wrestling.

Sotto questo aspetto, è emblematico il “Madison Square Garden Incident”. Siamo nel 1996, a New York. È in corso un “house show” (cioè gli incontri non trasmessi in tv) con protagonisti Razor Ramon e Shawn Michaels dalla parte dei buoni, e Triple H e Kevin Nash dalla parte dei cattivi. Dopo i rispettivi incontri, a conclusione dello show, i quattro salgono sul palco e si abbracciano, tra lo stupore dei fan. La ragione di quel gesto apparentemente inspiegabile è semplice: è l’ultima volta che il gruppo (talmente unito da essere soprannominato the kliq) si trova assieme su un ring, visto che due dei quattro (Ramon e Nash) stanno per lasciare la WWF per trasferirsi nella rivale WCW. L’aneddoto è anche noto come curtain call, calo del sipario, a simboleggiare come l’episodio abbia ulteriormente contribuito allo svelamento del wrestling.

Eppure, nonostante tutto ciò, il wrestling è ancora vivo e sempre meno sente il bisogno di nascondere la sua predeterminazione. Sembra paradossale, ma è anche grazie a questo progressivo svelamento che è stato possibile inaugurare la nuova era del wrestling, iniziata nel 2014, significativamente chiamata Reality Era e che ha il suo simbolo in Brock Lesnar, atleta ormai veterano ma che solo da pochi anni si divide tra WWE e UFC (la più importante federazione di MMA). Un’era in cui i lottatori non nascondono nulla, neanche davanti alle telecamere della stessa WWE.

Il cortocircuito è completo: il wrestling ha fatto pace con se stesso, con la sua predeterminazione, con la finzione delle sue storie. In un certo senso, non nascondendo più nulla, è potuto finalmente diventare vero.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura