Il 31 marzo, a quattro mesi dalla cerimonia di apertura dei giochi di Rio 2016, gli Stati Uniti campioni in carica ancora non sapevano se Hope Solo sarebbe stata in squadra. Era passato da poco lo stupore per le dichiarazioni a Sports Illustrated di inizio febbraio. «Non metterei mai in pericolo la salute di un figlio e nessun atleta a Rio dovrebbe confrontarsi con questa paura», aveva detto Solo in riferimento al virus Zica, poco prima che si giocasse la partita tra Stati Uniti e Costa Rica, che apriva il torneo di qualificazione alle Olimpiadi. «Non posso accettare di scegliere tra il gareggiare per il mio Paese, rischiando di sacrificare la salute di un bambino, oppure starmene a casa rinunciando ai miei sogni e ai miei obiettivi di atleta».
Il rischio di contrarre il virus Zica è reale, e preoccupa ovviamente di più le donne che gli uomini. Qualcuno ha addirittura pensato a un rinvio, o a uno spostamento della manifestazione (come accaduto per il Mondiale di calcio femminile del 2003, trasferito dalla Cina agli Stati Uniti per la Sars). La preoccupazione aumenta se si considera che il torneo olimpico di calcio non si giocherà solo a Rio ma anche a San Paolo, Belo Horizonte, Manaus, Brasilia, Salvador: in zone, tra cui l’Amazzonia, in cui sono più diffuse le zanzare che trasmettono dengue, malaria, chikungunya e, appunto, il virus Zica.
#EqualPayEqualPlay
Ma il 31 marzo il problema tra Solo e la Nazionale era un altro. Hope Solo – insieme ad Alex Morgan, Becky Sauerbrunn, Carli Loyd e Megan Rapinoe – era tra le cinque star della squadra che avevano scelto di presentare una denuncia alla Equal Employment Opportunity Commission, l’agenzia federale che contrasta la discriminazione sul lavoro, contro la U.S. Soccer, la Federazione Americana, accusandola di discriminare nel trattamento economico le donne rispetto agli uomini. «I numeri parlano da sé. Siamo le migliori al mondo, con tre Coppe del mondo e quattro Olimpiadi vinte. E gli uomini vengono pagati di più semplicemente per delle esibizioni».
«We don’t get paid, anything, if we lose».
Interpretare il ruolo di paladina dei diritti delle calciatrici è solo l’ultima delle svolte che hanno caratterizzato la carriera di Hope Solo, che a 35 anni appena compiuti è ormai una veterana della nazionale statunitense. Precoce e longeva, come spesso accade ai più grandi portieri, Solo ha attraversato in crescendo gli ultimi sedici anni di storia della Nazionale di calcio femminile più titolata al mondo. Concepita in carcere, figlia di un reduce del Vietnam e truffatore, accusata di aver picchiato la sorellastra e il nipote, vittima di quello che è passato alla storia digitale come #fappening (il furto da iCloud di foto di nudo di molte star femminili del mondo dello spettacolo e dello sport, tra cui, la più famosa, Jennifer Lawrence). Se si dovesse prendere ad esempio un’esistenza per spiegare la teoria del clinamen, degli spostamenti di un atomo dalla loro linea di caduta, sarebbe quella di Hope Solo. Perché ricca di momenti che ne hanno cambiato la traiettoria. Uno dei primi di questi risale ai tempi in cui Hope era una studentessa a Richland, nello Stato di Washington. Sono i primi anni Novanta e Solo frequenta la scuola media e per un tema le viene chiesto di raccontare cosa vuol fare da grande. Anni dopo confesserà: «È stato in quel momento che ho deciso: diventerò una calciatrice professionista».
«Nuke ’em, nuke ’em, nuke ’em, till they glow!»
Il simbolo delle squadre della scuola superiore è un fungo atomico. È il modo che si usa a Richland per ricordare da dove veniva il plutonio usato per Fat Man, la bomba atomica sganciata su Nagasaki. Qui tutto ruota intorno alla centrale di Hanford Site, costruita segretamente nel 1943. E quando c’è da affrontare le squadre avversarie, non conta di quale sport si parli, il coro è quello, «Nuke ’em, nuke ’em…» (Bom bar da-te-li, bom bar da-te-li). Nella centrale di Hanford lavora la madre, che l’ha concepita durante una visita coniugale al Walla Walla State Penitentiary. Il padre invece, Jeffrey John Solo, è un reduce del Vietnam di origini italiane, da cui deriva quello strano cognome cui il padre aggiunge un nome che sembra contenere una strana mistica, e che i nonni di Hope caricano persino con spiegazioni bibliche. «La speranza è per sua natura ribelle. Solamente quando la situazione è del tutto disperata, la speranza inizia a tramutarsi in forza».
Hope cresce con la madre alcolizzata e Marcus, un fratello violento. Un’adolescenza che è esattamente come la si potrebbe immaginare: fatta di emarginazione, piccole beffe delle ragazze più popolari, qualche provvedimento disciplinare. Ma nelle storie di sport queste frustrazioni vengono presto contenute e messe sul binario del successo. Hope Solo gioca a baseball, a basket e a calcio sia in porta che come attaccante (lascerà le superiori con il record di 109 reti). «La vita sul campo di calcio era tranquilla e ordinata».
La squadra della scuola media di Hope Solo viene selezionata per i tornei più strutturati a livello statale, e lei già a tredici anni (nel 1994) partecipa allo Eastern Washington Olympic Development Program, un programma di selezione dei migliori calciatori diviso per fasce d’età e aree. A quel torneo mancano i portieri, come sempre, ed è anche comprensibile che un’adolescente in una simile situazione voglia mettersi in mostra, soprattutto se è il bomber della scuola. Me c’è un allenatore che l’ha già vista giocare in quel ruolo e la invita ad andare in porta per un test, Solo accetta e poco dopo viene invitata a unirsi come secondo portiere in una squadra con ragazze di tre anni più grandi.
Lei si sente inadeguata ma quando entra per sostituire la titolare infortunata fa valere le sue qualità, soprattutto l’atletismo. L’ex portiere della Nazionale americana Amy Allmann inizia a interessarsi a lei. Così comincia una doppia vita: portiere nei raduni Odp, attaccante nella squadra della scuola. Nella sua autobiografia, scritta con la giornalista Ann Killion, racconta che «la strada verso la Nazionale femminile comincia con l’Odp – ma è una strada che può costare molti soldi, per i viaggi, le divise e gli allenamenti». E in famiglia i soldi mancano: a un certo punto quando ancora frequenta le superiori, ma le richieste dei college già riempiono la buca delle lettere, la madre e il compagno le dicono che non potrà più giocare nell’Olympic Development Program. Alla fine si mobilitano i vicini e le società sportive della zona (che già la sostenevano economicamente a sua insaputa), e sarà la colletta di una cittadina sperduta sul fiume Columbia a permettere di continuare la propria carriera a quello che sarà il più grande portiere degli Stati Uniti.
Prima ancora, però, c’è una nuova e inaspettata deviazione sul suo percorso. Solo è ancora alle scuole medie e in una domenica di autunno è nella piovosa Seattle per una partita, scende dall’auto e guardandosi intorno alla ricerca del coach, vede un uomo che zoppica nel parco. Molla la borsa e si rivolge alla sua migliore amica: «Cheryl. Credo che quello è mio padre».
L’incontro avviene anni dopo la loro ultima separazione, che sembrava definitiva. Dopo il divorzio, Jeffrey John Solo era diventato per i figli una figura che compare e scompare, a volte con munifici doni, a volte intrufolandosi in casa di nascosto per dormire nel seminterrato. Poi, nel luglio del 1989, il padre rapisce lei e Marcus. Una gita di una giornata si tramuta in un viaggio a ovest verso Seattle, con annessa visita allo Space Needle. Il padre mente ai figli, raccontando loro che la madre è al corrente di tutto; una notte riceve una donna nella camera in cui dorme con loro e Solo li vede far sesso ai piedi del letto. Poi l’arresto, i servizi sociali, i ragazzini recuperati da un’altra Judy, la prima moglie di Jeffrey John, che li riporta alla madre.
Il cerchio si chiude quel giorno della partita a Seattle, di cui Solo non ricorda la data. I due si vanno incontro e si abbracciano. Lei comincia a frequentarlo, vede la sua casa, una tenda in mezzo a un parco della città, poco distante dal centro sportivo.
«Playing like a girl, means you’re a badass»
Il 27 ottobre 2015 la Nazionale di calcio femminile Usa, durante il tour celebrativo della vittoria della Coppa del Mondo, viene ricevuta alla Casa Bianca da Barack Obama. Il discorso del presidente è pieno di battute e riferimenti diretti ad alcune calciatrici: Sydney Leroux, Megan Rapinoe, Christie Rampone, Alex Morgan, Heather O’Reilly, Becky Sauerbrunn, Abby Wambach, Carli Lloyd. Nessuna di loro appartiene alla vecchia guardia, al gruppo delle ’99ers che sedici anni prima aveva vinto la seconda Coppa del mondo degli Stati Uniti. Quel mito è finalmente superato.
Tra le giocatrici citate non c’è Hope Solo. Forse perché si è presentata a quei Mondiali con un’accusa di violenza nei confronti della sorellastra, Teresa Obert, e del figlio adolescente di lei. È una storia complicata, che risale al 20 giugno 2014. Quel che si sa è che la polizia di Kirkland viene chiamata all’una di notte dal nipote di Solo: pare che lei li abbia raggiunti a casa, visibilmente ubriaca, e abbia iniziato un litigio finito rapidamente in rissa. Avrebbe afferrato il ragazzo per la testa, sbattendogliela contro il muro ripetutamente. E quando Teresa è intervenuta, avrebbe iniziato a prenderla a pugni. Lei replica di essersi solo difesa, dopo esser stata colpita con un bastone dal nipote. Sono accuse pesantissime, che avevano spinto un senatore repubblicano, Richard Blumenthal, a chiedere al presidente della Federazione Sunil Gulati la sua estromissione dalla squadra in vista dei Mondiali.
In quell’occasione, alla fine del suo discorso, Obama dice: «Questa squadra ha insegnato a tutti i bambini americani che “giocare come una ragazzina” significa essere dei duri. Poi si corregge con autoironia: «Magari non avrei dovuto usare questa espressione...».
Se la gode già mentre la prepara.
Il successo della Nazionale di calcio femminile nel Mondiale del 2015 – come anche in quello del 1999 – è frutto dell’onda lunga generata dalle politiche democratiche sulla promozione dello sport femminile.
Tutto nasce con il Title IX, una sezione dell’Education Amendments del 1972. È una legge in base alla quale si stabilisce che «Nessun individuo negli Stati Uniti può essere escluso, privato dei benefici o discriminato sulla base del genere sessuale all’interno di qualsiasi programma educativo o attività che riceve assistenza attraverso fondi federali».
Una rivoluzione sostenuta dal ruolo delle università, ovviamente, che anche nel caso di Solo sono state determinanti. Prima del college Solo è ricercata da Portland, da Stanford e dalla North Carolina, dove allena il coach più famoso nella storia del calcio femminile, Anson Dorrance. Poi c’è la Washington University a Seattle, la cui squadra è guidata da Lesle Gallimore insieme all’ex nazionale Amy Allmann, preparatrice dei portieri. Le due lanciano una moneta per decidere chi dovrà chiamare Solo, che entrambe hanno conosciuto nei programmi Odp. Vince Lesle, che la convince a unirsi ai Washington Huskies. E frequentando il college a Seattle, Solo avrà modo di consolidare il rapporto con il padre.
Questione di baricentro
Un giorno Katia Serra, ex calciatrice della Nazionale italiana, allenatrice e oggi commentatrice Rai, mi ha raccontato un segreto del calcio femminile. «Sai perché i tiri sono quasi sempre alti? Intanto per sfruttare il fatto che i portieri non sono altissimi. E poi perché il nostro baricentro più basso favorisce questa impostazione». È un doppio vantaggio di partenza per le attaccanti, che rende forse più chiaro perché un portiere con le caratteristiche di Solo sembra di un’altra categoria. Esplosività, reattività e abilità sulle palle alte, nonché una grande sicurezza con i piedi.
È il 1999, l’anno in cui la prima generazione di grandi calciatrici americane (tra cui Mia Hamm, Brandi Chastain, Michelle Akers e Briana Scurry), dopo aver vinto le Olimpiadi nel 1996, conquista anche il Mondiale. È a questo punto che la carriera di Solo, partendo dalla squadra del college di Seattle, esplode. Il 5 aprile del 2000 gioca la sua prima partita nella Nazionale maggiore: un’amichevole a porte chiuse contro l’Islanda a Davidson, North Carolina. Finisce 8-0 per gli Stati Uniti, il suo primo shutout con la Nazionale (sedici anni dopo, il 9 luglio, al termine di una partita contro il Sudafrica terminata 1-0, raggiungerà il record di 100 shutout con la Nazionale. Mai nessuno come lei prima).
Tre anni dopo Solo entra nel Philadelphia Charge e gioca il suo primo (e ultimo) campionato nella Women’s United Soccer Associaton, la lega professionistica femminile fondata nel 2000 e che a settembre 2003 chiuderà con perdite per 100 milioni di dollari. Da lì la scelta di trasferirsi in Europa, prima in Svezia, al Göteborg, e poi all’Olympique Lyonnais in Francia.
«Un portiere non può vincere le partite. Un portiere le salva», è la frase chiave che le aveva consegnato ai tempi dei Washington Huskies Amy Allmann. Se gli anni universitari le sono serviti per entrare definitivamente nel ruolo di portiere, quelli in Europa sono fondamentali per sentirsi fino in fondo una calciatrice. L’esperienza in Svezia le permette di riscoprire l’amore per il calcio, libera dalla tensioni del college, della famiglia e della lotta per un posto in Nazionale. Il gioco in Svezia peraltro è più rapido e questo le consente di migliorare non soltanto i propri riflessi ma anche il proprio ruolo nella gestione della squadra. Sono progressi sostanziali, che le valgono la chiamata come terzo portiere della nazionale alle Olimpiadi di Atene del 2004. Non giocherà nemmeno una partita, ma sarà l’inizio del suo percorso di familiarizzazione con i grandi eventi sportivi internazionali. Un avvio reso più semplice dalla vittoria della medaglia d’oro da parte degli Stati Uniti.
The ’99ers
Il 2007 è l’anno della Coppa del Mondo. Hope Solo si è conquistata ormai un posto da titolare in porta. L’esperienza europea l’ha rinforzata, anche e soprattutto agli occhi delle compagne, sia le più giovani che le più anziane. Sono in poche le ’99ers rimaste in squadra, ma tra loro c’è Briana Scurry, una leggenda vivente, rientrata nel giro nel 2006 perché desiderosa di un’ultima esperienza con la nazionale. Nonostante questa presenza ingombrante, tutto sembra filare liscio. Anche i rapporti di Solo con il padre sono oramai solidi.
Jeffrey John Solo non è più un barbone, vive in una casa di riposo, adorato dagli altri ospiti (a cui ha insegnato a giocare a poker, ma con cinque o dieci centesimi di posta) e dal personale. Solo è riuscita nel tempo a realizzare una specie di miracolo analitico: ha affrontato una relazione che somigliava allo scheletro di un grattacielo abbandonato e diroccato e, pezzo dopo pezzo, ha completato una ristrutturazione. Manca un tassello a quest’opera: la punta del grattacielo, il fregio conclusivo. L’occasione si presenta con l’amichevole contro il Brasile a New York del 23 giugno.
Solo ha organizzato tutto. Suo padre è invitato a vederla giocare per la prima volta con la maglia della Nazionale. Ci saranno anche il fratello Marcus e la madre: i biglietti son già fatti. La trasferta sarà l’occasione per ripercorrere con il padre i luoghi dell’infanzia di lui, cercando di illuminare gli ultimi angoli oscuri della sua storia, di capire qual è l’origine della famiglia, il suo segreto. Lui è entusiasta e confessa a un amico: «Li porterò lì dove tutto è cominciato».
Poi però, durante il ritiro a Cleveland, Solo riceve una chiamata da Seattle; sulla costa ovest sono le cinque del mattino. Il messaggio in segreteria lasciato da una voce sbrigativa e distaccata chiede di richiamare per questioni inerenti Jeffrey John Solo. Quando lei richiama, dall’altro capo le chiedono: «Che tipo di sistemazione desidera per il corpo?». A Solo cedono le gambe. «Che succede? Di che sta parlando?». «Mi scusi» dice la voce. «Credevo fosse informata. Suo padre è venuto a mancare e lei è la prima nella lista dei parenti prossimi».
Durante i giorni del funerale Solo viene sostituita da Brianna Scurry nell’incontro in programma il 16 giugno a Cleveland contro la Cina. Le compagne giocano con il lutto al braccio, viene osservato un minuto di silenzio all’inizio della partita con il Brasile e Scurry scrive sui guanti le iniziali del padre di Solo. Lo stesso accadrà una settimana dopo contro il Brasile: Solo viene esclusa dalla lista dei titolari, nonostante abbia insistito con Greg Ryan, l’allenatore, per essere in campo. «Saresti una distrazione per la squadra», le dice lui, che alla sua prima esperienza e con i Mondiali alle porte comincia a dare segni di cedimento.
Nonostante la compattezza della squadra sul campo, l’ambiente è lacerato dalle tensioni trasmesse dall’allenatore. Solo non è più la ragazza a cui Mia Hamm può urlare in faccia come rinviare un pallone, costringendola a trattenersi dopo gli allenamenti per fare pratica su quel fondamentale (come successo durante la preparazione delle Olimpiadi del 2000). Le orde di ragazzine davanti agli hotel adesso sono lì anche per chiedere i suoi, di autografi. I media si sono accorti di lei, come già successo per Brandi Chastain e la stessa Hamm, che han girato spot rispettivamente con Nike e Gatorade in compagnia di campioni del basket come Kevin Garnett e Michael Jordan. E Ryan gestisce male questa pressione.
Solo parte come titolare al Mondiale, stressata dai rimproveri continui dell’allenatore che anche le compagne stentano a capire e motivare. Gli Stati Uniti sono nel girone B, insieme a Svezia, Corea del Nord e Nigeria. L’11 settembre, nella gara d’esordio, arriva il pareggio per 2-2 contro la Corea del Nord. Sull’1-0 per gli Stati Uniti, il gol del pareggio coreano al 58’ è tutta responsabilità di Solo, che fino a quel momento aveva giocato bene: con gli Stati Uniti in dieci (con Wambach fuori per infortunio) su un tiro da fuori, centrale, non irresistibile, il pallone le scivola tra i guanti e va in rete. Le immagini di lei che si mette le mani sul volto e urla danno l’idea chiara della frustrazione. Rabbia che torna sul secondo gol, al 60’, per il quale è incolpevole. Gli Stati Uniti riescono a pareggiare otto minuti dopo e nel finale, con due interventi, Solo salva il risultato.
«Ho imparato la lezione: mai cercare di bloccare un pallone bagnato».
Il 14 settembre arriva la vittoria per 2-0 contro la Svezia: Solo va in campo con un po’ delle ceneri del padre strette nel pugno sinistro, che poi disperde sulla linea di porta. Il 18 settembre c’è la vittoria per 0-1 contro la Nigeria, che vale il passaggio del turno come prima del girone. Ai quarti di finale il 22 settembre gli Stati Uniti incontrano l’Inghilterra, che battono per 3-0. I festeggiamenti a fine partita sono minimali, che la testa è già rivolta alla semifinale del 27 settembre, contro il Brasile.
È qui che il castello crolla. Ryan a sorpresa esclude Solo dai titolari, affidandosi alla veterana Scurry. La squadra ne risente, sbanda completamente e perde 0-4 contro il Brasile di Marta, la miglior calciatrice al mondo. È anche la peggiore sconfitta della Nazionale. Relegata in panchina, Solo durante la partita ha un’espressione incredula. Alcune compagne glielo fanno notare, dicendole di contenersi, che telecamere e macchine fotografiche le sono puntate addosso.
Okay le responsabilità di Scurry e la squadra smarrita, però Marta è impressionante.
Quando a fine partita esce dal campo, richiamata da un giornalista, va al microfono e dice: «È stata una decisione sbagliata e credo che chiunque capisca qualcosa di questa partita la pensi così. Non ho dubbi, io sarei riuscita a intervenire in quelle occasioni. Il fatto è che non è più il 2004. Non è il 2004. Siamo nel 2007, e credo si debba vivere nel presente. E non puoi affidarti ai grandi nomi, non puoi vivere nel passato. Non c’entra niente quello che uno ha fatto in una finale per la medaglia d’oro alle Olimpiadi tre anni fa. Quello che conta è adesso, e questo è quello che penso».
Nella finale per il terzo e quarto posto non ci sarà spazio per Solo, ostracizzata dalla squadra. Ryan cavalca l’onda scatenata dalle sue dichiarazioni e le compagne, che pure sarebbero d’accordo con Solo, non possono manifestare alcuna solidarietà. Non valgono le scuse nei confronti di Scurry di fronte alla squadra, non servono quelle pubbliche su MySpace, non servono quelle pilotate dalla Federazione. Solo rischia di essere esclusa dal tour celebrativo del terzo posto, privata dei guadagni che ne deriverebbero. La medaglia le viene praticamente lanciata in faccia dall’allenatore durante un incontro privato. Ci vorrà tempo per ricucire lo strappo. Sunil Gulati, il presidente federale, liquida la faccenda così: «Se si fosse trattato di una squadra maschile, tutta questa storia sarebbe stata leggermente diversa».
«For the times they are a-changin’»
Tutto cambia con il licenziamento di Greg Ryan. Ad allenare viene chiamata la svedese Pia Sundhage, che facilita il reinserimento di Solo e la riconciliazione con le compagne. La nuova aria si capisce al primo ritiro, quando l’allenatrice svedese, radunata la squadra, prende la chitarra e comincia a cantare Bob Dylan. «Se volete vincere avete bisogno di un portiere. Non mi aspetto che dimentichiate, ma che sappiate perdonare sì. Le Olimpiadi sono vicine, quindi mettiamoci al lavoro».
Hope Solo è più serena, sente riconosciuto il suo ruolo all’interno dello spogliatoio e il ricambio generazionale è ormai completato. In più, una nuova amicizia con Abby Wambach – che pure era stata tra le giocatrici che avevano spinto Ryan a sostituire Solo con Scurry nella semifinale con il Brasile – crea un’inaspettata forza motrice nella squadra. Nascono così la medaglia d’oro alle Olimpiadi in Cina del 2008, in cui Solo sarà protagonista, e il secondo posto ai Mondiali di Germania 2011, dopo una finale persa ai rigori contro il Giappone.
Quando a giugno del 2008 arrivano le convocazioni alle Olimpiadi in Cina, per la prima volta nella storia Briana Scurry figura come terza scelta, in alternativa a Solo e al secondo portiere Nicole Barnhart. Si parte per le Olimpiadi, ma è proprio Wambach il punto debole della squadra. L’attaccante di riferimento, infatti, in allenamento si è procurata un grave infortunio. Nonostante questo il morale è alto: dall’arrivo di Sundhage non c’è stata nemmeno una sconfitta. Inseriti nel gruppo G, gli Stati Uniti dovranno affrontare ai gironi la temibile Norvegia, un Giappone in grande crescita e la meno faticosa Nuova Zelanda.
Il 6 agosto alle 19,45 a Qínhuángdǎo c’è la partita di esordio contro la Norvegia. Dopo un minuto, su un cross al centro che segue una rimessa laterale, Solo la chiama ma esce in ritardo e colpisce al volto con un pugno la compagna Lori Chalupny, in marcatura al centro su Larsen Kaurin, che segna a porta vuota: 1-0 Norvegia. Due minuti e mezzo dopo il raddoppio della Norvegia, su un retropassaggio sbagliato del centrale di difesa Markgraf. Dalla destra Wiik tira morbido sul secondo palo, scavalcando Solo, che di colpe qui ne ha poche.
Tre giorni dopo c’è la partita contro il Giappone. Gli Stati Uniti vincono per 1-0, con gol di Carli Lloyd, una partita complessa, in cui subiscono l’aggressività delle giapponesi. Solo è più sicura. Dopo un salvataggio importante al 22’ Chastain dice di lei: «Questa è esattamente la Solo con cui ho giocato io». Cinque minuti dopo Lloyd segna il gol vittoria. Con la vittoria per 4-0 contro la Nuova Zelanda il 12 agosto e la contemporanea sconfitta per 1-5 della Norvegia contro il Giappone, le americane passano come prime del girone. «I nostri festeggiamenti sul campo erano particolarmente gioiosi. Avevamo superato una sconfitta disastrosa e appena dieci mesi dopo la spaccatura in due della nostra squadra dovuta a quell’amarezza, stavamo giocando un calcio unitario, fatto di resistenza e tenacia. Era una bella sensazione, sembrava destino» ha commentato Solo.
Prima dell’incontro con il Canada Solo riceve una lettera di Abby Wambach, in cui l’attaccante si scusa per il comportamento passato: «Hai l’opportunità di mostrare a tutti chi sei veramente. E sono sicura che farai capire a chiunque che sei una vincente». Il 15 agosto alle 18 a Shanghai si gioca contro il Canada. La partita è lunga e complicata da un acquazzone che comporta un’interruzione di un’ora e mezza, per via del rischio di fulmini. Dopo 90 minuti, sul risultato di 1-1, si va ai supplementari. Kai segna il 2-1 all’undicesimo, poi Solo deve limitarsi, al settimo del secondo supplementare, a un paio di uscite in mischia.
Alle 21 del 18 agosto a Pechino le statunitensi entrano in campo per la semifinale sapendo già quale sarà l’ultima avversaria in caso di vittoria. Nel match delle 18, infatti, il Brasile ha battuto la Germania per 4-1, “vendicando” la sconfitta nella finale dei Mondiali del 2007. Il Giappone rimane un avversario duro, che con nove gol segnati al termine dei quarti è anche la squadra con il migliore attacco del torneo. E infatti gli Stati Uniti vanno in svantaggio al 16’. Al 41’ la partita torna a favore degli Stati Uniti: Hucles segna su contropiede lanciato da Solo; al 44’ Chalupny fa un gol bellissimo. La partita non sarà più in discussione: al 71’ O’Reilly segna l’1-3 e Hucles chiude all’80’, prima dell’inutile 2-4 segnato dal Giappone con Arakawa al 93’.
Fino a quel momento Solo ha giocato bene se escludiamo l’errore all’esordio, facendo alcuni interventi importanti, seppure non decisivi. Nulla per far parlare di lei come di una game-changer, ovvero ciò che insieme alla vittoria Solo desidera da questo torneo. L’opportunità arriva con la finale contro il Brasile. L’occasione di rifarsi è ancora più clamorosa se il salvataggio avviene su un tiro di Marta, che al 72’ entra con una foga impressionante in area di rigore dalla fascia destra, salta due difensori e conclude forte sul primo palo a pochi metri da Solo: con un riflesso impressionante, alza il braccio destro mentre ripiega il corpo a sinistra e respinge il pallone. Il suono del rimbalzo è così forte e netto che il commentatore pensa che la palla abbia colpito il palo. «Sembrava che dovesse staccarmi il braccio», dirà Solo di quel tiro. La parata lascia Marta sgomenta nell’area piccola, con le mani nei capelli mentre l’azione sfuma.
Il tempo regolamentare finisce e si è ancora sullo 0-0. Al sesto del primo supplementare Carli Lloyd segna. Da lì in poi è un assedio costante del Brasile. Un’occasione dopo l’altra, Solo annulla Marta: su calcio d’angolo, su cross basso, in diverse uscite aeree. «Hope è una grande giocatrice, in particolare sulle palle alte», dichiara a fine partita il ct brasiliano Jorge Barcellos.
I festeggiamenti sanno di rivalsa. Oltre che con le compagne, Solo scherza con i suoi parenti. Tira fuori una finta medaglia d’oro comprata con la madre a un mercatino e se la mette al collo. Poi recupera il cellulare, nascosto in un asciugamani sulla linea di porta e chiama il fratello. «Ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta! Cazzo se ce l’abbiamo fatta!».
«I don’t believe in happy endings»
Se le vittorie sono rapidi momenti di pacificazione, le sconfitte contribuiscono a preparare nuove sfide, a generare tensioni, e ripensando alla biografia di Hope Solo si capisce al volo perché si apre con la frase: «Non credo nelle storie a lieto fine». Per quanto equilibrio sia riuscita a trovare, per quanto il proprio ruolo in squadra sia evoluto da quello di giovane intransigente e problematica a quello di leader carismatico, per quanto lo sport abbia creato un territorio funzionale, le tensioni interiori sono sempre pronte ad esplodere.
I successi e il carattere mostrato in campo hanno contribuito a far di lei una protagonista anche sulla scena mediatica, rendendo quasi impossibile scindere la donna di sport dal personaggio. Ogni sua azione sembra voler portare all’estremo questo corto circuito: per questo la sua partecipazione a Dancing with the Stars nel 2011, e la storia dello schiaffo ricevuto dal suo insegnante Maksim Chmerkovskiy, sono diventate occasione per le femministe americane per attaccarla, accusandola di legittimare gli abusi degli uomini. Lo stesso vale per le foto scattate per lo speciale di ESPN The Body Issue del 2011, dedicato al corpo (nudo) degli sportivi. O per lo scandalo doping prima delle Olimpiadi di Londra, vinte appunto nel 2012. Anche il matrimonio con l’ex giocatore di football Jerramy Stevens – che sarebbe finito in rissa prima ancora di essere celebrato – invece di suggerire una normalizzazione, segue questo copione.
Alla fine, alle Olimpiadi di Rio, ci sarà anche Hope Solo, come ha dichiarato il 14 aprile. «Sarò a Rio e prenderò tutte le precauzioni necessarie per proteggermi il più possibile. Credo ancora che questa sia una situazione in cui non dovrebbe trovarsi nessun atleta e sono amareggiata dal fatto che il Cio non abbia deciso di spostare le partite da Manaus, quantomeno per ridurre i rischi. Sapendo ciò che sappiamo di Zika, questo è da irresponsabili». Tra retine, repellenti e sciarpe, le precauzioni che Solo ha mostrato su Twitter sono risultate per alcuni (come la centrocampista del Brasile Thaisa) eccessive e offensive.
Nel frattempo, il 26 maggio, a discapito della Federazione di Sunil Gulati, il Senato ha approvato all’unanimità una legge che introduce la parità di salario tra uomini e donne. La U.S. Soccer sta portando avanti la sua difesa (sostenendo che le disparità non sono frutto di un meccanismo discriminatorio di genere) e le calciatrici americane, impossibilitate a scioperare per via della sentenza di una corte distrettuale dell’Illinois, saranno costrette a condurre la loro battaglia a Rio solamente sul piano mediatico.
Hope Solo, quindi, nelle Olimpiadi sarà tra i pali con i suoi talismani, le finte medaglie d’oro, i cellulari e le ceneri... ma senza avere in tasca gli stessi soldi dei colleghi maschi. Chissà se anche questa è una storia destinata a restare senza happy ending.