Sull'ottima partenza dell'Augsburg in Bundesliga è impresso il nome di Alfreð Finnbogason. Prestazioni convincenti, fiducia, 4 reti e 1 assist in 5 partite. Già il finale della scorsa stagione in Baviera dava buone sensazioni, in verità, dopo sei mesi tormentati dalla pubalgia. Ma questo 2017/18 può essere un riscatto. Può dire che Finnbogason è forse discontinuo, ma non è un bluff. Non si è arenato, come già molti anni fa. Sa tornare fuori anche in questa occasione.
“Credo di essere nato con il senso del gol”. “Non esiste niente come quella sensazione”. In effetti, più che in altri casi di attaccanti, la carriera di Finnbogason ha fatto le montagne russe insieme alle reti segnate. Con vette altissime e terribili cali. Capocannoniere nelle serie inferiori, capocannoniere in Islanda, capocannoniere nell'Eredivisie olandese. Il deserto per un anno e mezzo.
All'inizio di questo settembre, contro il Colonia, ha fatto una tripletta. L'ultima volta era stata nel novembre 2013. Da allora è successo di tutto.
Tutti i suoi gol nel campionato 2013/14, la stagione del grande salto. 35 presenze con l'Heerenveen, 31 reti e 12 assist.
Finnbogason è un patronimico, non un cognome. Suo padre si chiama Finnbogi, che significa “Dio finlandese”. Il figlio del dio è nato a Grindavík, duemila abitanti sulla punta sud-occidentale dell'Islanda, il 1° febbraio 1989.
Ha fatto le giovanili in Islanda, in Scozia e in Italia.
Un anno alla Torres, grazie a una borsa di studio per studenti delle superiori, accolto da una famiglia di Sassari con cui continua a scambiarsi i regali di Natale, e da cui viene ricordato come “gentile, educato, silenzioso un po' come noi sardi”. Un'esperienza scozzese nella prestigiosa academy dell'Hutchie Vale, da dove sono usciti Kenny Miller e Gary Naysmith. Nel suo Paese natale, poi, Finnbogason aveva avuto come compagno di squadra il coetaneo Gylfi Sigurðsson. Succedeva nella città di Kópavogur, nel club del Breiðablik, che prende il nome dalla casa di un altro dio, il norreno Baldr.
“Alfie”, come viene chiamato in casa, tornerà al Breiðablik da professionista. E quello sarà il trampolino di lancio: nel 2010 è capocannoniere del campionato e porta la società al suo primo titolo islandese.
Ventenne al Breiðablik Kópavogur.
Una delle due sorelle, che gioca a badminton per la nazionale islandese, lo definisce “un ragazzo coi piedi per terra”. Si definisce così lui stesso. D'altronde in Islanda, per fare i complimenti a un ragazzino, si dice: Duglagur, che significa “lavoro duro”. Mai compiacersi, mai abbassare la guardia.
Sopra all'Islanda ha fatto un volo in elicottero, per una campagna volta a far conoscere il Paese e al tempo stesso sostenere la squadra che si avvicinava all'Europeo del 2016.
Nella straordinaria esperienza di quel torneo, interrotta solo ai quarti, Finnbogason è stato quasi una comparsa. Un buon cambio per l'attacco, nulla di più. Neanche una gara intera, neanche un gol.
Lui attribuisce il merito della crescita del calcio islandese alla capillare diffusione di campi indoor, costruiti in tutto il Paese all'inizio del Duemila, di solito accanto alle scuole. “La mia generazione è entrata su questi campi a otto, nove anni”. Hanno cambiato l'accessibilità allo sport, offerto un buon contesto per allenarsi senza esporsi a un clima così rigido.
D'altronde Finnbogason era talmente sollevato dalla temperatura di Capri, un paio di estati fa, da mettere su Instagram una foto della sua faccia con dietro i faraglioni e davanti la scritta “27°”.
Trova ci sia una consonanza tra il suo modo di giocare e la Bundesliga. Perché in Germania il gioco è “veloce, aggressivo, e bisogna sempre dimostrare una grande prontezza”.
Per gli islandesi ha una definizione estremamente precisa: “Lupi solitari che cacciano in spazi ridotti”. Di certo è un attaccante di grande opportunismo in area, lui, capace di sfruttare la distrazione dell'avversario. “La mia forza” dice “è essere attento quando gli altri non lo sono”.
È del tutto diverso da quello che ci si potrebbe aspettare da un centravanti scandinavo. Per niente statico, al contrario agile e associativo, è alto 184 centimetri e ha un piede che non arriva al 43.
L'unico vero modello della sua carriera è Henrik Larsson. Che lui vedeva giocare in Scozia da bambino, e di cui ogni cosa parlava a Helsingborg, la città e il club di “Henke”.
I belgi del Lokeren nel 2012 avevano mandato Finnbogason in prestito in Svezia, per un semestre che si sarebbe rivelato tanto brillante (22 presenze, 13 gol, 8 assist) da farlo approdare all'Heerenveen. Il trasferimento dalla Svezia in Olanda sembrava ricalcare ulteriormente i passi dell'eroe.
(Quasi) tutte le reti segnate a Helsingborg, in prestito dal Lokeren.
Da ragazzino ha trascorso quasi due anni a Edimburgo. Era il 1998, la famiglia si spostava in blocco per permettere al padre di studiare alla Edinburgh University. I suoi genitori non sono granché sportivi, ma suo nonno praticava “qualsiasi sport”.
Per Alfreð quello in Scozia è stato un periodo straordinario, lo ricorderà come un passaggio cruciale per le successive esperienze all'estero: “Mi ha insegnato a stare sui miei piedi”. E gli è servito, considerando che non ha più smesso di girare. Belgio, Svezia, Olanda, Spagna, Grecia, Germania. Imparando le lingue, con applicazione. Per esempio il suo ottimo tedesco l'ha appreso rapidamente, facendo lezioni private intensive.
Da quando ha lasciato l'Islanda, quello tedesco è il sesto campionato con cui si confronta in cinque anni. Arriva all'Augsburg il 1° febbraio 2006, proprio il giorno in cui compie ventisette anni, il giro di boa di una carriera.
Partire è necessario. In Islanda non si può crescere oltre un certo livello. E lui nel suo Paese pensa di aver fatto tutto quello che poteva. In Islanda era sempre uno dei migliori, tanto da entrare nel meccanismo psicologico del big in Japan.
Finnbogason si è arenato nel compiacimento. È “caduto in un piccolo buco”, come chiama quella fase. Questo l'ha portato, secondo lui, a sbocciare tardi.
E anche se dice di non individuare un motivo che l'abbia portato a girare per tanti campionati. Anche se lo ridimensiona a un'opportunità da cogliere, “Try Yourself”. Anche se lo racconta come una casualità, tutto lascia pensare che il suo nomadismo sia una reazione alla paura di fermarsi. Arenarsi, cadere nel buco.
All'Heerenveen trova Marco Van Basten come allenatore. È un onore e un'opportunità, dice Finnbogason: “Se non impari dal migliore, non impari da nessuno”.
In Frisia colleziona 59 gol e 18 assist in 70 presenze, con un rendimento continuo. E in crescita: la seconda stagione sarà la migliore della sua carriera finora.
Il punto di svolta è quell'estate del 2014. Finnbogason viene da due stagioni e mezzo esaltanti, tra il semestre a Helsingborg e il biennio all'Heerenveen. Su di lui ci sono Milan, West Ham ed Everton già da tempo, e ora le pretendenti sono aumentate. Ha venticinque anni. Sembra l'erede dei grandi attaccanti sfornati dall'Heerenveen negli anni: sembra poter seguire la scia di Van Nistelrooij e Huntelaar, o almeno di Tomasson e Dost.
In particolare Van Nistelrooij è stato un suo riferimento: “A fox in the box”, lo definisce. Proprio davanti a lui, durante una premiazione in Olanda per la sua grande stagione, Finnbogason ha un mancamento sul palco e sviene. Sono i primi giorni del settembre 2014, è appena passato alla Real Sociedad. Si può leggere a posteriori come un cattivo auspicio su quello che sarebbe venuto.
Il club di San Sebastián la spunta fra tutti. L'arrivo nella Liga realizza il sogno di Alfreð: giocare in un grande campionato. 8 milioni sono una cifra consistente: fino ad allora nessuno aveva sborsato più di mezzo milione per lui. Sarà il quarto acquisto più costoso degli ultimi dieci anni della società basca.
E poi le cose precipitano. È sorprendente quanto precipitino. Finnbogason smette di segnare e non trova spazio. La miseria di 4 gol stagionali, la miseria di 5 partite per intero. Si ritrova in una situazione frustrante da cui non riesce a uscire. Un altro buco.
La stessa persona, le stesse bande verticali bianche e blu, a distanza di pochi mesi. Eppure nei Paesi Baschi non riesce a esprimersi come in Frisia.
Per questo è tanto importante il gol contro l'Arsenal, nel girone di Champions del 2015.
Alfreð ha addosso i colori dell'Olympiakos, è arrivato in prestito oneroso, è la sua terza gara. Decide lui l'incontro, con un tocco che sembra riportarlo ai vecchi livelli.
Per questo dev'essere cauto, adesso che pare essersi rialzato. Quel gol sarà l'unico dei suoi mesi in Grecia. Anche lì decideranno di non puntare su Finnbogason.
L'evidenza è che i mesi in Spagna e Grecia lo hanno depresso. Campionati inadatti al suo gioco, ambienti in cui non si è trovato. Per riprendersi è servito tornare nel nord, in Germania.
Arriva in prestito secco nell'inverno 2016. Si inserisce subito. A forza di reti e continuità, convince l'Augusta ad acquistare il cartellino per 4 milioni. Il suo valore si è dimezzato dall'estate 2014.
Al suo primo gol assoluto in Baviera, contro il Mönchengladbach, era troppo impegnato a proteggersi dalla caduta e si è perso il momento in cui la palla è entrata in rete.
Segnare ormai per caso, se si vuole interpretare male. Segnare a occhi chiusi, se ci si vuole vedere un buon auspicio.
Può ancora succedere di tutto.