West Auckland è un villaggio del Nord-Est inglese dove non mandereste a svernare neanche il vostro peggior nemico. Fiore all'occhiello della sonnacchiosa contea di Durham, un'ora a sud di Newcastle, vanta oggi 8.500 abitanti e una biografia su Wikipedia England piuttosto evasiva, che identifica però una data spartiacque nella quasi millenaria storia di questo locus ben poco amoenus: il 1825, data di fondazione della compagnia ferroviaria Stockton & Darlington. Sì, è proprio la classica storia ambientata nel solito paesino inglese a base di nebbia, brughiera, muretti a secco, carbone e minatori che bevono Porter e giocano a freccette. Ma con una differenza significativa rispetto alla solita zuppa: è il paesino che da oltre un secolo si vanta del titolo di “First World Cup Winners”, titolo conquistato nientemeno che a Torino tra la Pasqua e la Pasquetta del 1909. Quanto questo riconoscimento abbia davvero ragion d'essere, cercheremo di scoprirlo.
Se mai vi trovaste in Inghilterra a guidare mollemente sulla A68, la strada che collega Darlington a Edimburgo in Scozia, i più fortunati di voi potranno scorgere questo cartello.
In un trafiletto comparso sulla Stampa il 16 febbraio 1909 si fa riferimento tra il lusco e il brusco a un "secondo torneo internazionale di foot-ball" a cura della Stampa Sportiva, e si legge in particolare che «tre tra le più valenti squadre inglesi, tedesche e svizzere saranno a Torino l'11 e il 12 aprile per misurarsi con la squadra nazionale. Al ricco premio dell'inglese sir Thomas Lipton si è aggiunto un altro premio, offerto dal noto sportsman Leonino Da Zara, di Padova». Alt! Ce n'è già abbastanza per scendere nei dettagli.
I protagonisti
Secondo torneo
perché nel 1908 ce n'è già stata una prima pionieristica edizione, sempre patrocinata dalla Stampa Sportiva, supplemento settimanale della Stampa dedicato all'atletica, all'ippica, alla scherma, al ciclismo e naturalmente anche a questo famoso foot-ball d'importazione anglosassone. Si era gareggiato al Velodromo Umberto I con ben sette partecipanti: le italiane Ausonia Pro Gorla, Juventus, Piemonte e Torino, i tedeschi del Freiburger, i francesi del Parisienne e gli svizzeri del Servette, che si erano imposti in finale per 3-1 sul Torino. Ma negli anni Zero (quelli del Novecento, intendiamo) un torneo di calcio non può dirsi “internazionale” senz'almeno una squadra inglese, perciò scende in campo Sir Thomas Lipton.
Sir Thomas Lipton
Esatto, quello del tè! Miliardario e scapolone impenitente, più interessato ai viaggi e all'avventura che a metter su famiglia («Nessuna donna sarà mai all'altezza di mia madre» sarà una delle sue frasi celebri), Lipton passa dall'Italia nel 1908 per ricevere un'onorificenza dal Re in persona e onora a sua volta la fama da filantropo sborsando duemila lire per un trofeo da consegnare alla vincitrice di una seconda edizione del Torneo Internazionale, a patto che questo prenda il suo nome. Lipton non è nuovo a simili opere di mecenatismo: sbarcato a Palermo nel 1907 con il suo proverbiale yacht, ha istituito un torneo, la Coppa Lipton, che si terrà fino al 1915 mettendo di fronte la miglior squadra siciliana e la miglior squadra campana – quasi sempre il Palermo e il Naples Football Club, antenata del Ciuccio.
In questo vero e proprio campionato per nazioni, pensano tutti, riuscirà a portare anche in Italia uno di quei magnifici squadroni inglesi che già da anni danno spettacolo in tutta Europa! Magari il sublime Manchester United che nel 1908 ha disputato sette amichevoli tra Praga, Vienna e Budapest, vincendole tutte e sette; oppure il Tottenham che nel 1905 aveva percorso lo stesso itinerario, o perché non l'Arsenal che è passato anche dall'Aja e da Berlino? Vedremo.
Leonino da Zara
Pilota automobilistico, aviatore, fondatore del primo Aero Club italiano e persino del primo aeroporto privato (in località Ronchi Del Volo, vicino Padova), protagonista delle imprese e della mondanità di almeno un decennio, sfrenato viveur e non a caso ottimo amico di Gabriele D'Annunzio.
La squadra nazionale
Non è un refuso, e già l'anno dopo, nel 1910, le parole diventeranno fatti. Ma nell'inverno del 1909 la Nazionale italiana è ancora di là da venire e quella che scenderà in campo per il Lipton Trophy sarà più che altro una selezione dei migliori calciatori piemontesi dell'epoca, scelti soprattutto tra le squadre del Torino (otto) e del Piemonte (tre) - dalla Juventus, curiosamente, zero convocati. E non vestirà neanche la maglia azzurra, bensì una tutta bianca con una fascia diagonale tricolore.
Le squadre
In città l'eccitazione monta già parecchie settimane prima, direttamente proporzionale all'attesa per conoscere i nomi delle altre magnifiche tre. I nomi delle partecipanti vengono finalmente svelati dalla Stampa il 10 aprile con enfasi da trombettiere, neanche una delle quattro squadre allignasse il bisnonno di Cristiano Ronaldo. Il quotidiano torinese ne parla come se fossero Nazionali, aumentando la suggestione di un vero e proprio Mondiale “non ufficiale” con ritratti ad alto tasso di sdilinquimento: «Svizzera: il bel paese dove il foot-ball prospera rigoglioso come in nessun'altra nazione, perché ogni giovane lo conosce e lo pratica».
Della squadra italiana abbiamo già detto. Dalla Confederazione Elvetica arriva il Winterthur, in quel momento capolista in campionato. La Germania risponde con il modesto Stuttgarter Sportfreunde, che galleggia piuttosto anonimamente nella metà classifica della Süddeutschen Fußballvereins, uno degli otto gironi di cui si compone un campionato tedesco ancora lontanissimo dal concetto di Bundesliga.
Il nostro quotidiano sabaudo di riferimento elogia a questo proposito le qualità fuori dal comune del suo campione Franz Krezdorn, in grado di classificarsi al primo posto in una gara di calcio al pallone, avendo scagliato l'attrezzo a ben 57 metri di distanza. Il mistero riguarda l'identità della rappresentante dell'Inghilterra che «per la prima volta dacché è rinato il bel giuoco del calcio in Italia, ha accettato con entusiasmo di venirsi a misurare da noi con uno dei suoi più formidabili teams». Ma del West Auckland Town nessuno ha mai sentito parlare.
Uno sceneggiato tv inglese del 1982, A captain's tale, avanzerà la tesi piuttosto strampalata del clamoroso equivoco: l'intenzione degli organizzatori era convocare il Woolrich Arsenal (antico nome degli attuali Gunners), ma un errore di comunicazione fece giungere l'invito al West Auckland, che aveva le stesse iniziali... La realtà fu probabilmente molto più prosaica: il genuino entusiasmo di Lipton si scontrò fatalmente con il classico diniego inglese. L'austera Football Association non aveva alcuna intenzione di intaccare il mito del calcio britannico che osserva tutti gli altri Paesi dall'alto con aristocratico distacco e sapeva bene che in un'occasione del genere, in cui bisognava misurarsi con il calcio più rozzo e plebeo che si gioca nella Mitteleuropa, si sarebbe corso un forte rischio di figuraccia.
Quindi Lipton dovette rassegnarsi a rovistare nella spazzatura delle divisioni minori, anche se ancora oggi non è del tutto chiaro il percorso che lo portò a pescare chissà come questi minatori di West Auckland nella Northern League (divisione in cui risiedono tuttora, e che rappresenta il nono dei dieci livelli di cui si compone la piramide del calcio inglese).
Bisogna comunque sottolineare lo sforzo creativo della Stampa - che solo parecchi decenni dopo si guadagnerà sul campo il soprannome di “busiarda” per il modo appena appena fazioso di raccontare il piccolo mondo FIAT del presidente Vittorio Valletta – per trasformare il West Auckland in una specie di Harlem Globetrotters anneriti dalla fuliggine, sottolineando persino le 54 medaglie d'oro vinte in totale dai componenti della squadra, non si sa bene come e quando, con l'half-back destro Thomas che da solo ne detiene ben undici.
Arrivati in condizioni di forma smagliante nonostante le 48 ore di treno da Darlington a Torino (per mettere insieme il denaro dei biglietti, dice la leggenda, i singoli giocatori si sono venduti persino i mobili di casa), la delegazione inglese finisce subito dove tutti noi ci aspettiamo che finisca: al pub. Il destro lo offre un ricevimento organizzato nella sede del Torino il sabato sera precedente, dove “vengono intonati e cantati tutti i più ibridi inni foot-ballistici internazionali”.
Tra un boccale e l'altro, il segretario del club Miles Barron esagera e si lascia prendere dall'entusiasmo: “Domani allora vedremo cinquantamila persone!”. Quando un cronista locale gli fa notare che già cinquemila sarebbero tante, ne rimane sinceramente deluso. “Ma v'è il bel cielo d'Italia che compensa tutto!”, provano a blandirlo i presenti. “Con un yes! fragoroso il buon Barron annuì e tosto ordinava ai suoi poulains di ritirarsi in buon ordine nelle proprie camere”.
Giorno di gare
«Per accedere alla località ove il campo è situato», si legge quella mattina sulla Stampa, «ricordiamo che la tramvia a vapore in partenza da via Sacchi (Porta Nuova) farà servizio con tre treni speciali alle 13.45, 14.05 e 14.45». E il pubblico risponde con favore, affollando le tribune del Velodromo Umberto I. «Una folla insolita si assiepava ieri fin dalle ore 14 contro i portali d’ingresso del Campo Sportivo Torinese pavesati da vivaci orifiammi e dagli stendardi di varie nazionalità. Era una folla varia, irrequieta ed elegante». Nella speranza di una finale Italia-Inghilterra, gli organizzatori sono stati abili a pilotare il sorteggio estraendo le semifinali Italia-Svizzera e Inghilterra-Germania.
L'arbitro di Italia-Svizzera, pensate un po', è juventino – non è una battuta: si chiama Harry Goodley, è nato a Nottingham, è uno dei maggiori conoscitori del regolamento disponibili su suolo italiano ed è stato allenatore dei bianconeri nei due anni precedenti. L'Italia (o come si chiama) passa in vantaggio già al 13', grazie a una deviazione di ginocchio del ventenne Felice Berardo, ma incassa poco dopo il pareggio del capitano elvetico Lang, «forse non sufficientemente marcato». La partita è serrata e il pubblico la segue con grande partecipazione, ma non arrivano ulteriori gol, anche per le prodezze a ripetizione del nostro portiere, Vittorio Faroppa. Un portiere che avrà la sventura di associare per sempre il proprio nome a uno dei modi di dire più curiosi e famosi della lingua italiana.
Il 17 marzo 1912, al Filadelfia di Torino, si gioca l'amichevole Italia-Francia. Tra i pali della Nazionale debutta proprio Vittorio Faroppa, ancora portiere del Piemonte, ma è l'esordio più sciagurato nella storia degli esordi sciagurati: i francesi vincono 4-3 e, stando alle cronache, Faroppa ha precise responsabilità su ognuno dei quattro gol. I giornali dell'epoca, molto meno accomodanti di quelli attuali, gli regaleranno l'affettuoso soprannome di “Disastro Faroppa”, decretandone la fine della carriera azzurra dopo appena 90 minuti. A fine partita Umberto Meazza, uno dei membri della Commissione Tecnica, pronuncerà la sentenza che farà la storia: «El Vitòrio stava in porta goffo, coi piedi larghi, sembrava una papera». Da quel momento l'incolpevole palmipede diventa eterno sinonimo di gaffe, gesto maldestro, brutta figura.
Torniamo al 1909 per ragguagliarvi sul finale di Italia-Svizzera, che dura i 90 minuti canonici più due tempi supplementari da dieci minuti ciascuno. All'inizio del secondo, il terzino Friedrich Bollinger – che è svizzero ma gioca nel Torino, quindi è “italiano” - commette uno sciocco fallo di mano sanzionato da Goodley. Lung trasforma il rigore con una sassata centrale e conduce gli svizzeri alla meritata finale contro i nostri amici del West Auckland, che nella seconda semifinale hanno dominato i tedeschi con un netto 2-0 maturato all'alba e al tramonto della partita: Whittington ha aperto le marcature al 7' e il portiere Dickinson le ha chiuse su rigore all'88', nonostante gli inglesi abbiano giocato in dieci dal 15' del primo tempo per un infortunio all'ala destra Gubbins. I tedeschi sono la vera delusione del torneo: sono sembrati poca roba, interessati soprattutto a interrompere l'elegante giro palla del West Auckland a suon di spintoni e calcioni.
Dopo un'altra serata di libagioni si passa alle finali, in calendario il giorno di Pasquetta. L'Italia acciuffa il terzo posto battendo 2-1 in rimonta i tedeschi, mentre il West Auckland completa il suo viaggio fiabesco regolando il Winterthur con un 2-0 che matura già nei primi otto minuti, grazie ai due gol segnati dai fratelli Rob Jones e Jock Jones. Da lì fino al 90' è solo difesa, il che non esclude lo spettacolo: per credere, leggere la descrizione che la Stampa fa dei colpi del difensore Rob Gill, specialista di un gesto atletico che ricorda tanto le sforbiciate di Cannavaro di un secolo dopo: «Il Gill è meraviglioso nel calciare il pallone spiccando prima un salto in aria, nel vuoto facendo un sgambetto e al volo calciando il pallone».
Tra le altre annotazioni tecniche degli sbalorditi cronisti, anche la tendenza del West Auckland a volere un po' entrare in porta col pallone: «Essi marcano il goal a colpo sicuro, senza calciare forte, ma cacciando la palla dove il portiere più non potrebbe pararla, avendone studiata prima la posizione. Scuola scientifica che ebbimo modo di ammirare ieri e l'altro ieri ancora». Raramente in passato e in futuro tifosi e critica andranno più d'accordo: il West Auckland si è proprio meritato questo Lipton Trophy.
Un calciatore che colpisce di destro mentre ai suoi piedi un minatore armeggia con una picozza – la statua è stata inaugurata a West Auckland nel 2013.
Arrivano dunque la vittoria, la premiazione, la celebrazione a Torino e in patria e poi anche la possibilità di difendere il titolo due anni dopo. Nel 1911 si terrà infatti la seconda e ultima edizione del Lipton Trophy, un torneo che in tutta la storia ha avuto un unico vincitore, come da regolamento di Lipton che prevedeva l'assegnazione definitiva del trofeo a quella squadra che fosse riuscito a vincerlo per due volte di seguito. Rispetto all'edizione 1909 viene esclusa la rappresentativa tedesca, sostituita da una seconda squadra torinese: al West Auckland si affiancano dunque lo Zurigo, il Torino e la debuttante Juventus.
Il secondo viaggio in Italia viene documentato da un suggestivo reportage ripubblicato qualche anno fa dal Northern Echo, sempre con il preciso segretario Miles Barron a capo della delegazione. Non sappiamo dirvi se sia anch'esso una libera rivisitazione della realtà come nel caso della Stampa, ma non mancano i passaggi degni di nota su questo viaggio che sembra uscito dalla penna di Jules Verne: in treno fino a Londra, poi in metro fino alla stazione di Charing Cross, poi in battello fino ad Abbeville e quindi di nuovo in treno fino a Torino, passando per la tentacolare Parigi, attraversando il tunnel del Sempione, fermandosi a bocca aperta ad ammirare la straordinaria gentilezza degli italiani e le meraviglie di Stresa e delle Isole Borromee, “il posto più bello che abbiamo mai visto, e probabilmente il posto più bello del mondo”. In campo non c'è di nuovo storia, tanto che – è scritto nell'articolo con una punta d'orgoglio – i giocatori della Juventus, pur sconfitti 6-1 in finale, non mancheranno di prendere in giro gli inglesi nei festeggiamenti finali, ricordando loro il gol che sono riusciti a segnare.
Ma la realtà è sempre più complicata delle favole, e così sulla strada del West Auckland si stagliò un'altra Vecchia Signora molto più arcigna di quella di Torino. Dovendo assolutamente trovare 40 sterline per il viaggio di ritorno, se li fecero prestare da Mrs. Lanchester, la tenutaria del Wheatsheaf Hotel, il quartier generale della squadra, con il trofeo come garanzia del prestito. La coppa rimase nelle sue mani addirittura fino al 1960, quando finalmente dei funzionari del club riuscirono a rintracciare la megera a Liverpool, reclamando la restituzione del trofeo in cambio di 100 sterline – eh, l'inflazione. La coppa fu custodita nella Eden Arms Public House a West Auckland, un edificio comunale che era anche la residenza dell'allora Segretario del Club.
E si trova ancora lì? Ma certo che no: come già era avvenuto alla Coppa Rimet, trafugata a Westminster nel 1966 e poi ritrovata solo dal portentoso cane Pickles, anche il Lipton Trophy fu rubato da mano anonima nel 1994. Ma il precedente del 1966 aveva fatto mangiare la foglia a quelli del West Auckland: analizzando con attenzione fotografie e filmati dell'epoca, con i soldi dell'assicurazione fu realizzata una perfetta copia in argento del trofeo, che ancora oggi risplende in una teca del West Auckland Working Mens Club & Institute.
I giocatori del West Auckland Town, a Torino nel 2009 con il trofeo vinto nel 1911
L'unica punta d'amarezza di tutta questa storia, quelli di West Auckland la provarono quando, nel 2009, si misero in testa di organizzare un match celebrativo con la Juventus. Contattarono la società bianconera, ricevendo un tiepido assenso. Organizzarono un viaggio a Torino, molto meno avventuroso di quelli che erano costretti a fare nel secolo scorso, grazie anche a due donazioni: una da 10mila sterline della Football Association e una da 5 mila sterline della Unilever, l'azienda che nel 1982 aveva rilevato la proprietà del marchio Lipton. Arrivarono in città, convinti di essere trattati con tutti gli onori e di incontrare la prima squadra, ma furono invece spediti in un campetto a Chiusa di Pesio, a 80 chilometri da Torino.
Questa foto sgranata, in cui si distingue sulla destra Gianluca Pessotto, è uno dei pochi documenti reperibili in Rete sull'amichevole del 2009.
La “rivincita” si svolse davvero, sabato 1° agosto 2009, senza trovare il minimo risalto sui nostri giornali e tv. La Juventus giocò in gran parte con la Primavera, rinforzata da qualche elemento ai margini della Prima Squadra come Almiron, e vinse 7-1 (andarono a segno anche Filippo Boniperti e Giuseppe Giovinco, parenti d'arte). Ancora più malinconico ciò che accadde dopo, stando ai report del solito Northern Echo, che elencò le rimostranze del club in un lungo articolo intitolato “West Auckland vs Juventus centenary match ends in disappointment”.
Il previsto ricevimento post-partita si rivelò essere un frugale rinfresco in un bar di paese, con i giocatori «lasciati sul marciapiede con una ciotola di patatine in mano, senza neanche una tazza di tè e due biscottini. Dopo pochi minuti è suonato un campanello e i giocatori della Juventus sono scomparsi in fretta e furia, lasciandoci soli con le nostre patatine. In campo non era stata organizzata neanche una cerimonia di benvenuto, e la moglie del nostro presidente, sprovvista di accredito, è stata persino costretta a pagare un biglietto di 10 euro. A fine partita solo due giocatori della Juventus si sono resi disponibili per una stretta di mano. I professionisti non si sono rivelati molto professionali».
Non risultano repliche della Juventus, quindi fu così che andò a finire, con i ragazzi di West Auckland non più minatori e per la prima volta nella loro storia internazionale sconfitti, abbacchiati, un po' delusi, superati dal progresso che ha reso il carbone un elemento non più così decisivo per lo sviluppo energetico di un Paese, ma ancora in tempo per salire su un treno per Stresa e godersi il weekend e lo spettacolo delle Isole Borromee.