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La vendetta perfetta di Toronto
12 dic 2017
La squadra canadese ha vinto la MLS Cup per la prima volta nella sua storia dopo aver dominato in regular season, battendo in finale i Seattle Sounders.
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Resistendo per un attimo alla tentazione di mangiarsi tutta la terra e bersi tutto il mare, il numero 7 con la maglia rosso sangue rallenta di colpo la corsa: la curva che si staglia dietro la rete appena gonfiata, le bandiere che sventolano, il magenta dei fumogeni che si mescola all’aria gelata dell’Ontario, i compagni di squadra che gli si fanno incontro, ogni cosa che lo circonda sembra sul punto di implodere. Con un gesto liberatorio, ma serafico, Víctor Vásquez si sfila la maglia, e la mostra al pubblico prima di essere sommerso da un abbraccio ecumenico.

L’esultanza di Víctor suscita rimandi, strizza l’occhio maliziosa a certi ben precisi precedenti: prima di diventare la quintessenza della provocazione, o una celebrazione semplicemente spocchiosa, quel gesto è già stato - nella sua manifestazione originaria - l’attestazione di una superiorità incontestabile. Nonostante arrivi dopo una rete dall’estetica discutibile, è comunque proprio per questo l’esultanza più iconica almeno di questa stagione di MLS.

Mancano trenta secondi all’epilogo della finale di MLS Cup, e quel gesto un po’ premeditato, un po’ ingenuo nell’istintività che lo genera, è il suggello della definitività del risultato: è la rete del 2-0 contro i Seattle Sounders, che sta consacrando il Toronto FC sulla vetta più alta del soccer yankee.

Víctor Vásquez è stato compagno di squadra di Messi per tredici anni. Insieme sono cresciuti nella Masia, e c’era chi pensava che quello destinato a grandi cose fosse lui e non l’argentino. «Erano di gran lunga tra i migliori della squadra», ricorda Cesc Fábregas. «Quando Leo arrivò, c’era qualcuno che era ancora più forte di lui, ed era Víctor», dice Piqué. Il destino li ha portati a competere su livelli differenti, per obiettivi impossibili da confrontare.

Portare la prima MLS Cup a Toronto, fuori dai confini degli Stati Uniti, seguendo la direttrice che sta spostando il baricentro del calcio nordamericano sempre più verso nord, non equivarrà a vincere un Clásico per la maggior parte del pubblico, ma rimane un successo storico da tutti i punti di vista.

L’ossessione del trionfo

Il Toronto FC ha concluso la miglior stagione della sua storia inanellando un triplete difficilmente replicabile, che ha il sapore del coronamento di un percorso pressoché perfetto: Canadian Championship, Supporter’s Shield (il titolo che va a chi ha collezionato più punti in entrambe le Conferences), e infine MLS Cup nella rivincita contro Seattle, a un anno di distanza dalla finale del 2016.

Quando tra vent’anni ripenseremo alla MLS degli anni Dieci ci sopraggiungerà il ricordo di Toronto, una squadra bellissima da osservare, capace di giocare un calcio fluido e irresistibile, forse la formazione più completa nella breve storia della competizione.

Solo quattro anni fa era ancora la peggior squadra della MLS. Perenne fanalino di coda della Eastern Conference, eppure amatissima dal suo pubblico: la media spettatori dal 2007 al 2014, i primi sette anni di vita della franchigia, non è mai scesa sotto i 20mila.

Nel 2015, per la prima volta nella sua storia, ha conquistato la qualificazione ai play-off: era la seconda stagione di Michael Bradley e la prima di Giovinco e Altidore. Uscì subito, ridimensionato da un Montreal all’apice della sua forma, con un Drogba in versione angelo sterminatore.

Eppure nel giro di tre stagioni ha saputo ribaltare la sua narrativa, arrivando sul gradino più alto del podio: quest’anno si è battuta con l’ostinazione di chi deve dimostrare a tutti i costi, anche per espiare la vergogna di una finale persa in casa senza aver fatto nulla per meritarselo, di essere la miglior squadra del campionato. «Quattro anni fa, quando ho firmato, la MLS Cup era il sogno da coronare», ha dichiarato Bradley. «Nell’ultimo anno è diventata un’ossessione».

Le ossessioni, come scriveva Yukio Mishima, spesso sfociano nelle perversioni. E la perversione di Toronto è stata quella di dover abbattere ogni record: 69 punti nella Regular Season, picco mai raggiunto da nessun altro club; 20 partite vinte (eguagliato il record di Seattle nel 2014); 74 reti segnate, il secondo miglior risultato nella storia MLS, più del doppio delle reti subite.

Guidata da una concentrazione inedita di uomini di assoluta qualità e esperienza - Jozy Altidore, Michael Bradley, Sebastian Giovinco - Toronto è stata per buona parte della stagione una schiacciasassi, come si dice. Così superiore al resto delle rivali, da marzo a ottobre, da essere giunta ai play-off con la pressione tipica dei favoriti. Con l’impressione, inoltre, che se non avesse raggiunto l’acme agonistico alzando la coppa, tutti gli sforzi fatti in stagione sarebbero stati vanificati.

Più della somma delle parti

Come spesso accade negli sport di squadra, la legittimazione della superiorità di un team in qualche modo trascende, pur passandovi ineluttabilmente, dalla consacrazione dei singoli interpreti: il risultato finale finisce per essere qualcosa di più della semplice somma delle parti.

Sarebbe ingenuo trascurare però il ruolo che hanno avuto, nella metamorfosi di Toronto da Armata Brancaleone a Juggernaut quasi imbattibile, gli innesti nel corso degli anni di alcune individualità: primo fra tutti, ovviamente, Sebastian Giovinco.

L’impatto della “Formica Atomica” sulla MLS, dal momento del suo arrivo, ancora ventisettenne, nel 2015, è stato così devastante da segnare un vero e proprio spartiacque non solo nella storia del club canadese, ma di tutta la competizione. Nella sua prima stagione a Toronto, Giovinco ha vinto la classifica dei cannonieri e degli assistman, il premio per il gol dell’anno, è stato designato come il miglior newcomer nonché, alla fine della stagione, come MVP. Come ha scritto Emanuele Atturo in un pezzo di qualche tempo fa, l’impressione che spesso suscita Giovinco immerso nel contesto MLS, è che sappia in qualche modo camminare sulle acque: un’aura di onnipotenza lo circonda mentre calcia punizioni, affonda dribbling, arresta palloni spioventi da sessanta metri con la grazia di chi impenna con la moto tenendosi con una mano sola.

Dal suo arrivo sono passati circa tre anni ma questo non significa che Giovinco non sia rimasto una specie di alieno in MLS, ancora oggi. Nonostante ciò, il suo gioco ha subito una certa metamorfosi, soprattutto nell’ultima stagione: pur mantenendo inalterati i suoi standard (un mortifero tasso di conversione tiri in porta/reti segnate superiore al 30%), pur confermandosi come il tiratore seriale più compulsivo della MLS (141 tiri verso la porta avversaria, anche più di David Villa), Seba ha segnato qualche rete in meno (17 quest’anno, contro le 23 della stagione d’esordio e le 21 dell’anno scorso) e più in generale non ha avvertito l’obbligo morale di caricarsi sulle spalle tutto il potenziale offensivo della squadra, condiviso quest’anno proprio con Víctor Vásquez.

Il lievitare del resto della squadra attorno a lui l’ha soltanto reso meno appariscente, ma non per questo meno incisivo. Rimangono quei momenti in cui Giovinco s’illumina di luce propria, diventando etereo alla vista dei difensori che dovrebbero marcarlo. Non è un caso che nelle due reti segnate da Toronto nella finale ci sia il suo sigillo, un assist per Altidore e un third pass in occasione della rete finale di Víctor Vásquez, due gesti tecnici che ci hanno ricordato quale sia il talento più sublime di Giovinco nel contesto della MLS: l’imprevedibilità, l’impossibilità di essere disinnescato.

Víctor Vásquez è il giocatore che ha contribuito di più a sollevare Giovinco dall’obbligo di inscenare ogni settimana uno one-man-show. Giunto a Toronto a Febbraio, appena trentenne, pur non avendo avuto l’impatto da fissione del nocciolo nucleare di Giovinco, ha comunque trovato il modo per farsi nominare newcomer dell’anno. Nelle prime 17 gare con Toronto ha segnato 3 gol e messo a punto 10 assist: al termine della Regular Season sarebbe stato il secondo miglior assistman della MLS, a una sola lughezza da Sacha Kljestan dei New York Red Bulls.

Víctor Vásquez veniva da un’annata scialba in Messico, con il Cruz Azul, dove si era trasferito dopo cinque stagioni di buon livello con il Bruges, che a sua volta aveva scelto come refugium peccatorum dopo la parentesi esaltante e frustrante allo stesso tempo di un lustro al Barcellona, in cui aveva vinto praticamente tutto senza giocare praticamente mai.

Vanney ha ritagliato per lui un ruolo da trequartista puro nel rombo di centrocampo spolverato nelle occasioni più importanti, tra le quali la finale contro Seattle: Víctor ha ripagato la fiducia supportando Giovinco e Altidore in quello che si è dimostrato essere il miglior attacco della lega in stagione, se non - probabilmente - uno dei migliori attacchi nella ventennale esperienza della MLS.

La rivincita di Jozy

Il perno centrale dell’attacco dei canadesi però rimane Jozy Altidore. Vincere la MLS Cup è diventata anche la sua privatissima e intima ossessione, specie dopo la catastrofica eliminazione degli USA dai Mondiali di Russia, un evento dalla portata annichilente per un’intera generazione di calciatori americani. «Quello successivo all’eliminazione, alla partita di Trindidad & Tobago, è stato uno dei periodi più duri della mia vita. I tre giorni più oscuri della mia esistenza: non ho letteralmente fatto niente, sono solo rimasto chiuso in casa».

Concentrarsi sul club è stata una specie di terapia: un viatico per mettere fine alla parentesi più depressa della sua carriera, l’occasione per ripagare una comunità, quella canadese, che ha abbracciato lui e Bradley in un momento complicato, senza farli sentire stranieri in casa loro.

«Toronto è una città che avvolge completamente i suoi atleti: lo capisci da solo quanto sia un onore, e allo stesso tempo una responsabilità, rappresentare la città, e farlo nella miglior maniera possibile».

A fine ottobre, in una delle ultime giornate di Regular Season, Toronto è impegnato sul campo dell’Atlanta United. La ferita dell’eliminazione è ancora troppo fresca, e ogni qualvolta Altidore o Bradley toccano palla, i sessantamila del Mercedes Benz Stadium li fischiano incessantemente. Quando nel secondo tempo Altidore segna il momentaneo 1 a 1 si porta le mani alle orecchie. «Sono cose con le quali ho a che fare da quando sono ragazzino», si schermisce. «E ho come l’impressione che non finiranno così presto».

Nella semifinale di Eastern Conference, alla Red Bull Arena in New Jersey, dove pure Altidore è cresciuto (al pari di Bradley), il copione si ripete. In maniera più accanita, se possibile. Altidore viene insultato, lo accusano di non essere un patriota. Durante l’esecuzione dell’inno non si porta la mano al cuore, non canta, tiene le mani incrociate dietro la schiena. Come sempre, d’altronde, perché è così che gli impone la sua religione: «Mia madre mi ha cresciuto da Testimone di Geova, e semplicemente certe cose non le facciamo».

Un tifoso, all’uscita del campo al termine del primo tempo, lo attacca, gli urla che non ha idea di cosa significhi rappresentare la sua nazione, che non morirebbe mai per la patria e per questo non merita la cittadinanza. Poco dopo Altidore ha uno scontro verbale con Sacha Kljestan, si spintonano, Altidore accenna una reazione e poi cade con una mossa plateale. L’arbitro li espelle entrambi. Salterà la gara di andata della finale di Eastern Conference contro Columbus. Al ritorno segnerà la rete decisiva.

Il rapporto che negli anni sia Jozy Altidore che Michael Bradley hanno instaurato con Toronto, con la sua tifoseria ma anche in senso più esteso con l’intera città, è fondamentale per comprendere la portata terapeutica che l’ambiente ha saputo esercitare nel recupero mentale dei due professionisti dopo la tragedia dell’eliminazione dal Mondiale. La capitale dell’Ontario ha rappresentato per entrambi un luogo di rifugio e supporto incondizionato, un porto sicuro in cui tornare, curare le ferite, ricucire le vele strappate, cominciare a pensare a quando salpare di nuovo.

Nonostante abbiano giocato a lungo all’estero, lontani dal Nordamerica, dopotutto, Toronto è pur sempre la squadra in cui sia Bradley che Altidore hanno militato più a lungo.

O Captain! My Captain!

Il commitment di Bradley con Toronto, città e squadra, ma soprattutto con la progettualità del club è ormai pressoché totale, e la vittoria in MLS Cup non finirà che per cementarla definitivamente.

Per la crescita della MLS, Bradley si è speso in prima persona. È stato uno dei primi calciatori, anche contrariamente alle opinioni dell’allora ct della Nazionale Klinsmann, a scegliere di abbandonare l’Europa all’apice della sua carriera, tornare da capitano degli Stati Uniti per dedicarsi alla crescita del panorama calcistico USA.

In questa stagione è stato in assoluto il miglior centrocampista difensivo dell’intero campionato, forse il miglior centrocampista tout court. Ha giocato per tutta la stagione davanti alla difesa impostando il gioco, dettando il primo passaggio e coprendo con l’ultimo tentativo di recupero del possesso.

Contro Seattle, in finale, ha giocato una partita monstre: ha toccato palla più di ogni altro giocatore (91 volte), con una percentuale di successo nei passaggi del 91,4%; ha recuperato 12 palle e vinto più della metà dei suoi duelli difensivi, 7/12.

Ha indossato la calma pacata del regista navigato quando, in fase di possesso, si trattava di organizzare la manovra, e l’aggressività del giovane esordiente quando - nei pochi per la verità, e pure timidi tentativi di attacco - i Sounders si affacciavano nella sua metà campo. I fischi non l’hanno mai distratto: scetticismi, invidie e insulti ne ha dovuti affrontare da sempre, da quando ha esordito coperto dall’aura negativa delle accuse di nepotismo (il papà era il ct della Nazionale) fino alle ultime drammatiche partite giocate in territorio statunitense dopo l’eliminazione dal Mondiale. «Riesco a focalizzarmi solo su ciò che posso controllare», si è difeso. «Non posso cambiare ciò che la gente pensa di me».

«Vincere la MLS Cup», ha dichiarato a caldo, dopo la fine della partita «è stato come chiudere un cerchio. La prima volta che sono arrivato a Toronto, l’autista che dall’aeroporto mi ha portato in centro ha percorso la 427 (la maggior arteria autostradale che congiunge l’aeroporto al downtown, NdA) fino a imboccare la Gardiner (autostrada, invece, che costeggia il Lago Ontario e percorrendo la quale si raggiunge il BMO Field, lo stadio del Toronto FC). E in tutte le migliaia di volte che poi sono venuto qua allo stadio non ho mai fatto quella stessa strada. Ieri mattina (il giorno della finale, NdA) ho fatto una corsa con Uber, all’autista ho detto: “Portami dove vuoi tu”. E questo mi ha portato sulla 427. Poi abbiamo imboccato la Gardiner, sempre dritti, fino allo stadio».

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