“Sono come il Natale, perché sai che sto arrivando"
Charles Barkley
Come introdurre degnamente uno dei protagonisti NBA più singolari e controversi di ogni epoca?
Possiamo cominciare affidandoci ai modelli narrativi classici. Più precisamente, allo stereotipo dell’antieroe: l'eroe imperfetto o parzialmente cattivo che non è mai realmente o completamente malvagio, ma si oppone al bene per altre ragioni, mascherando una personalità originariamente positiva. Si distingue dalla tipica figura dell’antagonista che opera per scopi puramente disonesti.
“Sir” Charles Barkley è un antieroe perfetto. Siamo lontani dalle figure idealizzate da Lord Byron: il fascino forse è opinabile, ma di carisma ce n’è in abbondanza. Classe cristallina, potenza ed appetito fuori scala, un intrattenitore sublime che tende a dividere il pubblico con una sorprendente e consumata disinvoltura. Aggiungete una personalità debordante, una voglia di stare al centro del palcoscenico feroce, una discreta tendenza all'autolesionismo e la quasi totale (in)capacità di controllo delle proprie emozioni in pianta stabile. Una bomba ad orologeria che niente o nessuno potrà mai disinnescare: esploderà comunque, presto o tardi.
Ha messo definitivamente in soffitta lo stereotipo del buono e del cattivo presenti nell'animo umano, quello proposto tradizionalmente da “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”: nemmeno delle penne geniali e raffinate come Stevenson o Oscar Wilde (altro celebre argonauta della materia) avrebbero mai potuto immaginare qualcosa del genere. Cinematograficamente parlando, siamo vicini all’essenza dei personaggi griffati da Tarantino e il ruspante quanto indisciplinato John McLane interpretato da Bruce Willis. Una fiera icona dei film d’azione vecchio stampo. L’uomo sbagliato al momento giusto, con la battuta tagliente d’ordinanza.
Genesi di un Hall of Famer
Il conflitto interno tra la parte “buona” (sottovalutata) e la parte “cattiva” (troppo celebrata) ha generato un giocatore con l’impatto di un meteorite e l’unicità di un fiocco di neve. Tormentato ma amabilmente clownesco; ombroso e irascibile, ma a tratti savio e squisitamente teatrale; fisico e selvaggio alla bisogna sul parquet, ma delicato nel gesto tecnico quando necessario.
Sir Charles è un ragazzo grasso e sgraziato del profondo sud degli States che si è trasformato in una stella in tempi rapidissimi. Un adolescente di carattere, abituato a negoziare con una famiglia tutta declinata al femminile. In un’estate indimenticabile ha beneficiato di uno sviluppo in altezza che gli ha cambiato la vita.
Ricco di entusiasmo ma incapace di incidere nei primi anni di gioco organizzato al liceo, finisce regolarmente tra le fila della squadra riserve. In questi anni di formazione esprime caratteristiche da esterno puro e sovrabbondante, con tanto estro e creatività ma poche autentiche chance di farsi notare. Passato da quota 178 (e 100 kg…) a 193 centimetri (con peso al limite del credibile) poco prima della maggiore età, si trasforma in una sorta di cingolato che nel suo ultimo anno spazza via qualsiasi traccia di opposizione. Pur cresciuto in modo prodigioso, resta a un'altezza di riferimento proibitiva per un Vero Giocatore Interno (molto sotto i due metri), dato che con la sorprendente trasformazione ha velocemente spostato il suo corpo (e ovviamente il relativo tonnellaggio) sotto canestro, come si confaceva all’epoca.
Le sue caratteristiche sono sulla carta tutto quello che gli scout preferirebbero non vedere e/o analizzare. Mina alle basi il concetto di standard fisico per il ruolo. Qualsiasi ruolo. Sembra tutto sbagliato, privo di prospettive reali. La prima contraddizione di fondo è la più scontata di tutte: con estrema facilità fa cose che nessuno gli accredita, almeno dopo avergli lanciato la prima occhiata. L’esplosione tardiva e lo stile di gioco da esterno puro rischiano di tagliarlo fuori dal giro più importante delle borse di studio dei college, ma per fortuna quelli di Auburn decidono per un reclutamento fulmineo dopo aver assistito a una delle ultime gare del ragazzone prima del diploma.
I dubbi sono tanti e si stringono come una cintura sul suo abbondante stomaco, ma durano poco. Azzanna l’inerzia delle partite con irrisoria facilità. Beneficia della pazienza dello staff di Auburn smussando (appena) qualche angolo caratteriale e lavorando in maniera certosina su ogni aspetto tecnico. Lo fa con tempi insoliti, con grande umoralità e relativa incostanza, ma trova il tempo e il modo di ampliare le sue qualità. Apprende rapidamente i primi, veri rudimenti della Sacra Arte del Post Basso.
Il suo coach Sonny Smith prova ogni tipo di stratagemma per strizzare il suo potenziale al limite: vara regole via via sempre più complesse per arginare in qualche modo la sua indole negativa e il suo peso forma, ma come ammesso più volte spesso lo sanziona gratuitamente, semplicemente perché nota un maggiore impegno durante gli allenamenti punitivi rispetto a quelli canonici.
In poco tempo si assesta su un peso “forma” vicino ai 130/140 kg e umilia regolarmente avversari più alti di lui di almeno 10/15 cm. Giostra da centro puro nella metà campo difensiva per svariare in attacco a seconda delle necessità. È un uragano. Non va semplicemente a rimbalzo: praticamente sgonfia il pallone per l’esuberanza fisica che sprigiona. È talmente largo e agile da risultare illegale per i giocatori “comuni”. Spesso è anche effettivamente il più veloce in campo, ed esplora ognuno dei cinque ruoli non appena gli è possibile. L’unico limite che palesa a più riprese è l’effettiva consistenza del tiro da fuori, ma non ne ha semplicemente bisogno.
I media “ricamano” spesso sul suo duello con Melvin Turpin, centro di Kentucky, il prototipo fisico del centro dell'epoca e sesta scelta assolta del Draft 1984, enfatizzando le qualità del primo. Barkley lo brutalizza spesso, e quando prova a definire il suo gioco durante una celebre intervista lo prende ad esempio per descrivere il suo stile. «Per me è più facile abbassarmi perché posso mettere le chiappe sulle gambe di Melvin, ma Melvin può solo mettere le sue gambe sul mio, di culo». Sul campo di gioco è talmente versatile e “personaggio” da catalizzare naturalmente l’affetto degli appassionati. Non a caso, fa collezione di soprannomi e si diverte ad adottare in prima persona quelli più riusciti.
Il suo biglietto da visita resta il contropiede, soprattutto quando gioca in trasferta. Quando attacca il ferro, è garantita l’intimidazione (e lo spettacolo) agli avversari. Tendenza che sarà presto in grado di replicare a qualsiasi livello. Trangugia pizza in continuazione, praticamente una Tartaruga Ninja ante litteram. Termina in ogni caso la sua carriera universitaria lasciando un segno indelebile. Charles chiude il suo triennio vincendo con grande facilità il premio di giocatore dell’anno 1984 della Southeastern Conference, riscrive una quantità imbarazzante di primati — tra cui una pizza fatta recapitare prima di una gara in trasferta e consumata durante un riscaldamento — che gli valgono la nomina di miglior giocatore della decade 1980-1990 della SEC.
Una grande amicizia e una esclusione annunciata
Finito il suo ciclo universitario nella stagione 1983-84, nella tarda primavera si mette a disposizione del leggendario ed ultra esigente Bobby Knight per giocarsi un posto nel roster della squadra USA per le Olimpiadi 1984. Sulla carta ha poche possibilità, ma necessita disperatamente di migliorare il suo status per il Draft, visto che ha sul groppone pessime referenze da parte degli esperti collegiali per via della pittoresca personalità. Fin dal primo allenamento (che conta ben 72 candidati) è in assoluto la star più luccicante in uno dei contesti più competitivi e ricchi di talento mai assemblati a memoria d’uomo. Siamo all’ossatura del Dream Team del ’92: rispetto a Ewing, Jordan (!) e soci è praticamente uno sconosciuto a livello nazionale, ma per la stampa specializzata diventa la pietra di paragone preferita per descrivere pregi e difetti dei lunghi della squadra. È il principale argomento di conversazione dei giocatori stessi, e per la prima volta in assoluto si allena con costanza e diligenza. Qualche volta si offre di fare il playmaker nelle varie partitelle tra lo stupore generale. Stockton, tra il serio e il faceto, si tiene prudenzialmente alla larga dal “potenziale” rivale.
In molti hanno letto delle sue imprese ad Auburn e della sua bizzarra costituzione, eppure assistere alle sue giocate dal vivo lascia di stucco praticamente tutti. Ogni partecipante al camp ama rilasciare le sue impressioni a riguardo. Wayman Tisdale (seconda scelta assoluta del 1985 e poi ottimo giocatore NBA) è il più sincero e disincantato: «La quantità di cose che lui sa fare e io no è semplicemente stupefacente». Pete Newell — leggendario allenatore di lunghi ed osservatore speciale di Knight — se ne innamora perdutamente, come la maggior parte dello staff tecnico. Lo adora chiunque, a parte l’unico il cui parere conti davvero qualcosa. I suoi modi sono impossibili da digerire per un generale di ferro come Bobby Knight.
Arriva con merito fino all’ultimo taglio, ma viene allontanato ufficiosamente per “scarsa applicazione difensiva”, non senza polemiche e dissapori tra i vari assistenti. Anni dopo qualsiasi partecipante delle selezioni lo ricorderà come il migliore del gruppo. Durante il periodo dei Trials stringe una profonda amicizia con Michael Jordan, un legame destinato a segnare profondamente la vita e la carriera di entrambi i fuoriclasse. In ogni occasione positiva o negativa (sul campo e fuori) entrambi si daranno man forte, sostenendosi a vicenda. MJ in particolare si preoccupa di fornirgli assistenza (è sempre il primo a chiamarlo dopo ogni disavventura) anche nei momenti peggiori, e si dimostra un indispensabile guida per l’amministrazione dei suoi primi grandi guadagni.
Dalla guerra dei Fast Food al Doctor: un biennio ruggente (1984-1986)
L’obiettivo, però, è stato raggiunto. Il periodo trascorso con la squadra olimpica ne rafforza notevolmente la reputazione poco prima del Draft del 1984; da quasi sconosciuto è rapidamente comparso nella cartina degli scout più quotati. I Philadelphia 76ers si lanciano in un tanking selvaggio nell’ultimo mese di regular season nel tentativo dichiarato di arrivare a Jordan o Olajuwon. Fallito il piano “A”, la squadra della città dell’amore fraterno decide di procedere con decisione con il piano “B”. Segue assiduamente Charles da un paio di stagioni (ed in lui rivede qualcosa di Wes Unseld) e si convince ad investire la quinta chiamata assoluta.
Poco prima del Draft, Phila contatta il suo agente garantendo la classica “promessa” convinta di ricevere in cambio un sincero entusiasmo da parte di Barkley. I dirigenti, però, sottolineano anche di quanto dovrebbe scendere il piatto della sua bilancia come vincolo dell’accordo verbale. Una volta annunciato il compenso (circa 75mila dollari, ovvero il minimo) il “Sir” perde le staffe e pur di evitare la selezione ricorre alla sua unica possibile via di scampo: fallire i limiti di peso imposti dalla franchigia. Se la versione migliore di Barkley era quella presentata al camp olimpico, quella che si affaccia al professionismo è decisamente la peggiore. Per riuscire nel suo folle intento si lancia in un clamoroso tour de force tra fast food e ristoranti vari nei due giorni precedenti al Draft, e riesce nell’impresa di superare con slancio i 140 kg. Contro ogni aspettativa Philadelphia non si lascia minimamente condizionare, tanto da finalizzare la sua chiamata.
Nello spogliatoio dei Sixers trova dei veterani (Julius Erving, Mo Cheeks, soprattutto Moses Malone) in grado di far emergere le sue inebrianti qualità e di tenere a bada i momenti di pigrizia e sbandamento. Il carisma e l’azione dei grandi vecchi è tale che per la prima volta viene abbassata l’asticella intorno ai 110 kg a più riprese. Sul campo, però, non ha molti problemi di adattamento: in modo particolare, la sua fisicità e la sua intensità si sposano a meraviglia con la durezza proverbiale della lega in quel momento storico.
In pochi mesi di formazione è già in grado di ricevere e scambiare ogni tipo di colpi (sia in senso fisico che di puro trash talking) con personaggi del calibro di Larry Bird o di Magic Johnson. A metà della prima stagione viene più volte citato da Doctor J come unica possibilità di allungare la sua carriera nella lega. La pressione che comincia ad aumentare non influenza di una virgola il rendimento in costante ascesa.
La NBA del tempo (siamo ancora lontani dall’era LeBron) non ha mai visto evoluire una palla di cannone lanciata a piena velocità e programmata per attaccare il ferro senza alcun tipo di sosta. E raramente si è trovata a fare i conti con una personalità di un simile livello. La sua freschezza riesce ad allungare di un paio di stagioni la finestra di competitività dei Sixers, una squadra logora quanto ricca di talento, ormai destinata a un malinconico tramonto. Moses Malone è in assoluto il giocatore che si spende maggiormente per la sua formazione, garantendo la giusta dose di durezza e di complicità necessarie a farlo rendere al meglio. Quando è il caso si scopre anche un realizzatore di assoluto livello, qualità che in passato non aveva dimostrato con continuità. Migliora anche il trattamento palla (già notevole) e soprattutto il tiro dalla media.
Nel giro di un paio di stagioni, Sir Charles è semplicemente uno dei migliori giocatori della lega. Tra lo stile di gioco rivoluzionario di MJ e la classica soap Magic/Bird comincia a stagliarsi la sua figura ingombrante. Riceve uno spazio notevole anche in televisione, col risultato di ingelosire buona parte dei veterani NBA meno celebrati, soprattutto nel finale di stagione. «Siamo stanchi di sentire in continuazione storie sulla Barkley-mania» ribadisce Terry Cummings, valente ala forte del tempo, poco prima di un epica battaglia in post-season. La sua immagine comincia a fare tendenza e far vendere decisamente bene.
Il giovane condottiero di Phila prende definitivamente le redini della franchigia (troppo presto…) nei playoffs del 1986 per pura emergenza, in particolare nella tiratissima serie a sette partite che vale le semifinali della Eastern Conference contro i Milwaukee Bucks. In palio c’è la poco allettante sfida contro i Boston Celtics di Bird. Il vecchio leader Malone è infortunato ed Erving ormai è solo un complemento e non un trascinatore: Barkley alterna sprazzi di pura trascendenza cestistica (mostruosi) a momenti di buio in cui viene tradito dagli eccessi di nervi, dovuti al carisma di Cummings e ai micidiali “mind games” di un acciaccato quanto stoico Sidney Moncrief. Perde più volte le staffe durante le partite e si rende necessario un robusto intervento della madre e della nonna (!) per ricondurlo a più miti consigli in corso d’opera. In un momento di frustrazione promette persino di non rilasciare mai più interviste a nessuno in carriera. Nello spazio di qualche settimana accumula materiale per un paio di libri.
Tutto e il contrario di tutto: benvenuti nel mondo di Chuck.
Al Timone di una bagnarola (1987-1992)
Privo della fondamentale tutela dei super-veterani e investito dei gradi di uomo-franchigia, il personaggio esplode fragorosamente in tutta la sua clamorosa vitalità — con gli innegabili pregi e i suoi più riconoscibili limiti. Affidato alle cure di Pat Croce (poi presidente della Phila di Allen Iverson) viene sottoposto a un clamoroso lavoro di affinamento fisico che lo porta ad incrementare le già strabilianti doti. Nonostante le numerose scappatelle alimentari, la percentuale di grasso corporeo è costantemente mantenuta poco sopra il 10%: un risultato eccellente considerata la “morfologia” e il grado di esplosività. Se le leggende metropolitane e i vari aneddoti da spogliatoio non mancano di sottolineare il suo appetito, in rare occasioni ne è riconosciuta la competitività e la buona etica del lavoro. Ma resta l’unica gemma di un contesto perdente.
Il suo arsenale tecnico migliora costantemente e lo porta a poter fare praticamente qualunque cosa sul campo da gioco, ma a conti fatti la selezione di tiro (spesso orrenda) e l’eccessiva fiducia nei suoi mezzi spesso tende a rivelarsi un boomerang. È sempre più vicino al ciglio della grandezza assoluta, ma manca sempre un nonnulla per raggiungerla pienamente. Il “Sir” è titolare del primo passo più sorprendente nella lega e di una capacità di assorbire i contatti più duri al limite del credibile. Al suo passaggio in aerea gli avversari vengono spazzati via come in una scena di Asterix contro i Romani, o semplicemente si ritrovano sconsolati ad ammirare l’ennesimo balzo prodigioso del leader dei Sixers verso il tabellone. E parliamo di un livello medio di fisicità tollerata oggi sconosciuta. È il bersaglio preferito della maggior parte dei più malfamati picchiatori che non esitano a riservargli il trattamento più duro possibile. Sulle spalle e sulle braccia porta i segni di clamorose e rusticane battaglie.
Pur alto come un semplice esterno, si trasforma nel rimbalzista più efficace e anticonvenzionale della storia del gioco, grazie ad un curioso mix di abilità aerea, atletismo puro e di clamoroso fiuto per la palla a spicchi. Salta con una rapidità e una cattiveria mai avvistata in una lega di atleti a cinque stelle come la NBA. Sfoggia una potenza pura “nonsense” poi replicata (e amplificata) solo da Shaq anni dopo. Aggira misteriosamente ogni tipo di taglia-fuori. Il suo dominio è felicemente sintetizzato da Mike Schuler (coach dei Blazers): «Barkley salta più in alto dei difensori più piccoli, è più veloce di quelli grossi, ed impone la sua stazza su quelli più rapidi: come puoi marcarlo?».
È in grado di regalare ai compagni tipologie di assist che solo anni dopo avrebbero fatto capolino nel repertorio dei playmaker più gettonati. Se in giornata è persino un difensore in aiuto in grado di cancellare a piacimento ogni giocata verso il ferro. Spesso eccede nel dribbling in palleggio e nel tiro da fuori, soprattutto nelle triple. In compenso, sovente recupera in prima persona il tiro finito corto con un rimbalzo offensivo in pieno traffico, magari concludendo col suo classico putback. È un carro armato agile come una gazzella.
Nella seconda metà degli anni ’80 il prodotto di Auburn mette a ferro e fuoco la lega di Stern sul parquet (producendo tra le altre cose vette statistiche mai cronometrate in precedenza) e fuori dal campo dove colleziona una serie di sfortunati eventi degni della serie tv. I progressi del “Crisco Kid”, però, non vanno di pari passo con quelli della squadra: se a ogni stagione il leader sembra aggiungere qualcosa di nuovo al suo gioco e ritocca costantemente verso l’alto i suoi limiti, il resto è un piccolo dramma sportivo.
Philadelphia sembra non azzeccare una singola mossa di mercato in grado di fornire l’apporto richiesto (e meritato) dal suo fuoriclasse. Nella stagione 1987-88 arriva la mancata qualificazione ai playoff e l’anno successivo andrà poco meglio con una bruciante eliminazione maturata al primo turno per mano di una versione modesta dei New York Knicks. Harold Katz è il principale responsabile delle grane dei Sixers: acquista la squadra nel 1981 al massimo del suo splendore e senza troppa fatica si gode il titolo arrivato quasi per inerzia un paio di stagioni dopo. Arriva a dirigere una dinastia sportiva in piena regola e al suo addio lascia solo le macerie di una franchigia disfunzionale e ricca di problemi. È ossessionato dalle entrate e con il passare delle stagioni taglia ogni spesa possibile arrivando vicino al modello “austerity” di Sterlingiana memoria con i Clippers. Ha poco riguardo nei confronti dei suoi veterani che riesce a far imbestialire regolarmente.
Il disastro si materializza compiutamente nel Draft del 1986, uno dei più complessi e tragici (basti pensare a Len Bias) della storia NBA. Katz dà il nullaosta per due trade consecutive (presto ridefinite le due peggiori della storia del team), liberandosi a cuor leggero della prima scelta assoluta e liquidando senza troppi complimenti Moses Malone. Compromette definitivamente il destino della squadra negli anni successivi avallando le scelte di Shawn Bradley, Clarence Witherspoon e Sharone Wright con selezioni di alta lotteria.
Alle soglie del 1990 Barkley (che trascina ormai una franchigia morente con ammirevole resilienza) arriva addirittura vicino alla conquista dell’MVP stagionale: solo Magic riesce, con poco margine, a negargli la soddisfazione di uno dei riconoscimenti più ambiti della lega, ma ovviamente in un contesto nettamente più favorevole e con un chiaro vantaggio a livello di pubbliche relazioni. Bill Walton (a sua volta leggenda NBA) lo descrive in modo ideale al suo apice: «Barkley è come Magic e Larry, non gioca in una singola posizione. Gioca qualsiasi ruolo, gioca a pallacanestro. Non c’è nessuno che fa le cose che fa Barkley. È un rimbalzista dominante, un difensore eccellente, un tiratore da tre, un penetratore, un playmaker». Una condotta extra campo meno chiassosa avrebbe probabilmente fatto la differenza, ma la situazione è semplicemente esplosiva. E la frustrazione cresce esponenzialmente ad ogni stagione.
Una popstar in piena regola
Barkley non è solo un talento da Hall of Fame, però: privo di una struttura solida alle sue spalle, deraglia spesso. Ridefinisce completamente l’approccio con i media da parte dei giocatori, è sempre disponibile a rilasciare interviste o dichiarazioni, si lancia a capofitto in ogni argomento ed è una delle prime gole profonde della lega.
Svela retroscena, la vita quotidiana dei giocatori, ogni eventuale stortura o piccolezza del suo proprietario (tanto da svelare i piani della possibile cessione di Doctor J ai Jazz), sfrutta ogni possibilità di motivare dei compagni sempre un passo (o due) indietro a lui. È un insider NBA in un momento in cui la maggior parte dei giornalisti spesso si limita a reggere semplicemente il microfono. Intrattiene a 360 gradi. Un pioniere in piena regola.
Cerca di attirare investitori locali, pubblicizza la squadra senza sosta, e riesce a sdoganare definitivamente la teatralità successiva a un canestro importante che oggi è norma e regola. Litiga spesso con i tifosi per “caricarsi” ulteriormente, ma quando è in vena scherza con gli spettatori delle prime file come un consumato showman. Inaugura la saga delle finte risse con le mascotte avversarie. Fa sorridere e molto spesso sul campo fa seguire alle parole anche i fatti.
Catalizza naturalmente attenzioni, critiche, lodi, clamorose gaffe, incidenti: è una calamita irresistibile che attrae tutto quello che lo circonda. Jordan — che si preoccupa anche di rinegoziare i suoi accordi con la Nike visti i buoni uffici — ha un bel da fare per cercare di tenerlo lontano dai guai, anche perché sono i guai che non vogliono restare lontano da Barkley. Finisce coinvolto regolarmente in risse di vario genere nei palazzetti, scazzottate in locali e viene sorpreso in compagnia di una pistola. Non c’è grande tema o argomento scottante che non lo veda prendere posizione. Paga le conseguenze delle sue azioni senza fare una piega e a fronte di gesti deprecabili trova sempre il modo di porre rimedio. Rischia di essere escluso dal Dream Team del ‘92 per la pessima aura pubblica e il consueto carico di piccoli e grandi incidenti, ma l’insolita linea morbida di Rod Thorn (il responsabile NBA delle multe e sospensioni dei tempi) e la consueta benevolenza di MJ riescono a spegnere ogni voce critica riguardo la convocazione.
E tanto per cambiare risulta il migliore realizzatore della squadra più forte di sempre con 18 punti di media e il 71% dal campo, probabilmente il vero MVP della manifestazione di Barcellona 1992. Si fa in ogni caso “riconoscere” e trova il modo di scatenare un putiferio quando decide di far assaggiare i suoi gomiti al povero angolano Herlander Coimbra, con un gesto assolutamente gratuito e davvero poco olimpico. Pacchetto completo, come al solito.
Un piccolo, grande capolavoro (1992-93)
Nella off-season del 1992, dopo otto stagioni in cui ha generosamente donato alla causa dei Sixers i suoi anni migliori, si arriva all’epilogo inevitabile: viene finalizzata la sua cessione ai Phoenix Suns. Sin dal 1988 il suo nome ha fatto capolino in varie trattative e Katz ha persino meditato di cederlo ai Los Angeles Clippers per ricostruire la squadra a suon di scelte di lotteria.
Barkley sbarca in Arizona dopo le Olimpiadi di Barcellona, ha lavorato duro in estate ed è in forma eccellente. Soprattutto, ha voglia di mettere a frutto le esperienze e le varie lezioni apprese a Phila. Sente di avere poche occasioni per vincere il titolo e non ha tempo da perdere.
Al momento del suo arrivo nel deserto diventa il monarca assoluto di una realtà emergente ed entusiasta. È lo sportivo più famoso ed influente mai apparso in città (e buona parte dell’Arizona): praticamente costruisce una sorta di Reality Show attorno alla sua figura. Viene seguito ovunque, fa notizia anche quando si ferma a bere un caffè. Con buona sorpresa dei più pessimisti, il “Sir” dimostra di reggere egregiamente la pressione e la nuova realtà. La luna di miele è lunga e fruttifera.
La squadra è gestita con acume e buon senso. Il roster è competitivo ma a parte Barkley latitano Hall of Famer o fuoriclasse assoluti. Il backcourt si regge su Kevin Johnson (play razzente e talentuoso), sulla materia grigia di Danny Ainge e sul tiro da fuori del generoso Dan Majerle. Dal pino fa capolino lo stagionato ma valido Tom Chambers. Cedric Ceballos è un secondo anno ondivago ma talentuoso. Manca un vero centro, ma è un difetto comune a molte squadre del tempo. Per firmare Ainge e strapparlo via con forza dalla corte di Portland, Jerry Colangelo (la mente dei Suns) è stato costretto ad elargire un triennale molto impegnativo, perciò si punta a vincere subito. Il roster ha qualche pecca di profondità (compensato dai lampi dei rookie Richard Dumas e Oliver Miller) ma è coeso ed è pronto a leggere la stessa pagina del libro dal primo giorno di allenamento.
Paul Westphal è stato appena promosso a capo allenatore dopo anni da assistente ma ottiene subito rispetto e fiducia. Durante il training camp ha modo di correggere la squadra e di ridefinire il ruolo del suo fuoriclasse: Barkley viene definitivamente confinato vicino a canestro (ormai fatica a gestire i minuti in ala piccola) per evitare il solito massacrante lavoro a tutto campo, tipico delle stagioni precedenti. Si cerca di gestire al meglio le sue energie e di suddividere le responsabilità tecniche con tutta la squadra. A intervalli regolari emerge qualche problema di chimica con Kevin Johnson anche a causa dei numerosi infortuni del secondo e del suo stile poco ortodosso. Piccole grane che non offuscano un quadro pressoché idilliaco.
Il risultato è un’annata semplicemente straordinaria. Viene raggiunto il miglior record NBA (62-20) con il miglior attacco delle lega e una difesa entusiasta che, nonostante i limiti di buona parte dei protagonisti in materia, brilla per compattezza e grinta. Il gioco espresso è un riuscito mix di uso disinvolto del tiro da fuori e una presenza determinante sotto le plance grazie a Sir Charles, che raggiunge l’agognato titolo di MVP.
I rapporti in spogliatoio funzionano alla grande, in particolare grazie alla supervisione costante di Ainge e a un approccio più amicale con i tanti giovani da parte di Chambers, storicamente poco avvezzo a pazienza e compromessi. Il Crisco Kid supporta, motiva, intrattiene e aiuta i compagni quando in difficoltà. Ogni elemento porta il suo mattoncino alla causa. Su tutto e tutti vigila Colangelo, che regala ai Suns una modernità di gestione e un efficacia che solo Mark Cuban sarà in grado di replicare anni dopo.
Nei playoff emergono le prime difficoltà, ma Phoenix le supera quasi tutte con uno slancio determinato e disinvolto, pur spendendo un’incredibile quantità di energie per arrivare alle sospirate Finals. Se nel primo turno contro i Lakers (faticoso oltremodo) qualche campanello di allarme suona nella mente dello staff, i turni successivi con gli Spurs e soprattutto contro i Sonics (che arrivano alla settima) dimostrano ancora una volta qualità e ferocia agonistica. Per spegnere le ambizioni di Seattle è necessaria tra le altre cose una prestazione da 44 punti e 24 rimbalzi (ai danni di un giovane Shawn Kemp in piena ascesa) di un Chuck in piena missione. Per molti la sua migliore di sempre.
L’epilogo è dietro l’angolo. In finale arriva lo scontro con i Chicago Bulls del suo amico Jordan a caccia del terzo titolo di fila. Chicago, priva di vera competizione ad Est, ha praticamente giocato a scartamento ridotto nelle gare precedenti ed è decisamente “fresca”. Magic e qualche veterano in giro per la lega — o, se vogliamo, anche LeBron James oggi — criticano aspramente il rapporto fraterno della strana coppia, ma in campo è una sfida senza quartiere. Chicago ha un telaio superiore ed è costruita sull’onniscienza di MJ e la mostruosa versatilità di Scottie Pippen, eppure è ricca di tensioni e problemi che ne riducono il potenziale. I Suns arrivano vicini all’impresa ma palesano a più riprese stanchezza e una certa mancanza di abitudine ad un clima che per gli avversari è assolutamente normale. Il numero 23, tanto per cambiare, stabilisce ancora una volta una insindacabile supremazia.
Phoenix e il suo leader (che chiude le Finals con 27 punti, 13 rimbalzi e 5.5 assist di media con una tripla doppia in gara 4) si fermano ad un passo dal sogno, contro il giocatore più forte della pallacanestro moderna che prima di salutare il basket per la prima volta dipinge sei prestazioni in fila da 31, 42, 44, 55, 41 e 33 punti. La più alta media mai tenuta in una serie di Finale NBA, 41 punti.
Alti e bassi; il massacro di Nelson e l’inizio della parabola discendente (1994/1996)
La luna di miele tra Barkley e i Suns si interrompe bruscamente nella successiva estate. Per la prima volta in carriera, alla soglia dei 30 anni, cominciano i primi segnali di cedimento di un fisico irripetibile sempre spinto al massimo, in tutti i sensi. Allo stesso tempo, cominciano ad affiorare le prime spine: cala drasticamente la sua pazienza con la stampa e con il tipo di attenzioni che continua a calamitare naturalmente.
Il “Sir” si abbandona a un estate di relativo riposo per dare sollievo al corpo e per recuperare da un paio di stagioni di selvaggia intensità che lo hanno praticamente visto sempre in campo. Lo staff dei Suns cerca di gestire al meglio la situazione, ma l’armonia dello spogliatoio evapora velocemente tra malintesi vari.
Phoenix resta una squadra competitiva (registrando un notevole 56-26 di record) ma perde dopo una sola annata il suo vero fattore X. Manca con continuità il miglior Charles (visibile solo a ondate) e la coesione dell’anno precedente. Il numero 34 si presenta ai nastri di partenza della nuova stagione con una schiena a pezzi e noie muscolari varie alle gambe. Il telaio scricchiola. Il risultato è un avvio decisamente problematico, tanto che si comincia a parlare di possibile ritiro. Fioccano terapie, lavori specifici durissimi in sala pesi (storica nemesi), ma la situazione migliora solo nella seconda parte di stagione.
Tirato nuovamente a lucido per quanto possibile, e con un nuovo record positivo al saldo della bilancia, si rassegna velocemente a giocare con uno stato generale molto lontano dal 100%. Quando la schiena gli concede tregua è ancora in grado di demolire ogni malcapitato avversario di giornata, come attesta il mefistofelico 23/31 dal campo registrato contro gli Warriors nei playoff del 1994. Provocato da Don Nelson — che non ne riconosce appieno il valore e non lo raddoppia — il fuoriclasse dei Suns si produce in una performance da 56 punti (la terza miglior prestazione assoluta al tempo in postseson) e travolge la staffetta composta da Webber e Gatling che si dà il campo per (provare a) difendere contro di lui. Al tutto aggiunge i consueti effetti speciali. Sono gli ultimi lampi accecanti di una stella che si va offuscando e che deve cominciare a temere gli acciacchi più degli avversari. Dopo un primo quarto da 17 punti, Chuck si rivolge alla panchina occupata da Nelson: «Lascia che te lo chieda di nuovo: non vuoi raddoppiarmi?». Risposta: «Puoi farne quanti ne vuoi». «OKAY!».
Pur lontano dal suo massimo splendore ma ancora discretamente esplosivo, è più che sufficiente per restare nell’alta borghesia della Western Conference e probabilmente l’unica vera speranza di sopravvivere nei playoff per i Suns. Tuttavia le concrete possibilità di titolo svaniscono dopo la stessa stagione 1993-94.
La produzione complessiva resta assolutamente degna di nota: la sua consistenza di rendimento resiste e si adatta ai vari malanni nelle edizioni successive; lo stile di gioco diventa più speculativo e smaliziato; il mestiere lo conduce in salvo anche quando le martoriate articolazioni si fanno sentire. Le abilità di realizzatore puro calano progressivamente, ma le doti di rimbalzista restano da assoluto riferimento per la lega. Quando le cose peggiorano anche in regular season, con il calo generale del resto della squadra (1995-96) arriva una prevedibile sconfitta al primo turno contro gli Spurs (in cui Charles vende cara la pelle), e il nuovo divorzio arriva puntuale. La versione ‘96 del Crisco Kid è probabilmente la migliore della seconda parte di carriera e viene cristallizzata dalla nuova squadra olimpica.
La seconda medaglia d’oro ad Atlanta è una formalità. La sua leadership basta e avanza per condurre il gruppo USA ad un perfetto 8-0. Sorretto da una buona condizione, accumula 12.4 punti di media con un clamoroso 81.6% dal campo.
L’ultimo tango (1997-2000)
Houston lo acquista in estate per tentare di dar vita ad un trio di star assolute: Chuck si aggiunge ad Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler in una squadra che solo qualche anno prima ha dominato la confusione relativa al primo ritiro di Jordan. Barkley si focalizza in un ruolo da operaio specializzato, preoccupandosi principalmente di apportare alla causa rimbalzi (33 nella sola gara di esordio) e presenza fisica nel pitturato. Sulla scia della incoraggiante annata precedente, il rendimento resta a buon livello almeno quando riesce ad indossare la divisa. È probabilmente l’ultima apparizione a livelli degni del suo buon nome.
La stagione è fortemente condizionata da un paio di brutti infortuni che lo limitano a sole 53 apparizioni in regular season. Nei playoff si consuma una brutale quanto affascinante sfida contro i Jazz di Stockton e Malone in piena seconda giovinezza, e la franchigia mormone prevale in sei partite: ancora una volta i suoi lampi non bastano per vincere una serie tiratissima.
Da questo momento in poi ogni partita del “Sir” merita di essere vista col malinconico sottofondo di “Missing” di Vangelis. Fa effetto vederlo faticare tanto: le ultime due vere annate scivolano via tra varie incomprensioni con i dirigenti dei Rockets (oltre che con Pippen, arrivato a dargli man forte) e sono funestate dagli stessi problemi di peso che lo avevano condizionato da giovanissimo. Non mancano le consuete risse, tanto che i suoi scontri con Charles Oakley e Shaq ricordano a intervalli regolari al resto della lega che il leone è invecchiato ma sempre vivo. La vena da istrione puro, in compenso, è sempre all’altezza dei giorni migliori. Anzi, probabilmente si è affinata.
Lo stile di gioco diventa esageratamente statico e l’esplosività lo abbandona quasi del tutto. Spesso è costretto a rifugiarsi in elementari appoggi al tabellone e nelle serate peggiori diventa un facile bersaglio per i famelici stoppatori in giro per la lega, e in molti gradiscono il suo scalpo. Anche nella sua versione “light” resta in ogni caso un rimbalzista sopra media per efficacia ed istinti, a prescindere dalla freschezza e dall’atletismo (sempre maggiore) degli avversari.
Durante la sua ultima stagione si infortuna gravemente alla muscolatura di un quadricipite dopo poche partite proprio nella “sua” Phila, ma si rifiuta di abbandonare la lega e di lasciare in modo così malinconico il basket giocato. Dopo quattro mesi di intenso lavoro rientra in campo giusto il tempo per catturare il “solito” rimbalzo offensivo e concludere con un putback. Un canestro memorabile che commuove ogni appassionato e che lo vede ritirarsi ufficialmente pochi secondi dopo.
Retaggio
Impossibile cercare una sintesi del personaggio Barkley. Tecnicamente merita di comparire nei primi 20 giocatori della storia NBA e prima della apparizione dei Duncan e dei Garnett poteva indiscutibilmente fregiarsi dell’etichetta di miglior ala forte della storia, probabilmente in coabitazione con il contemporaneo Karl Malone. Senza dubbio alcuno è stato al suo apice uno dei giocatori più completi e versatili comparsi nella lega. Ha garantito intrattenimento, solide argomentazioni agli appassionati per risse da bar e liti da negozio del barbiere.
Centimetro per centimetro è il miglior rimbalzista dell’era moderna, al di là dei pur impressionanti numeri. Un carattere complesso unito a un attitudine autodistruttiva non gli ha impedito di dominare e segnare un epoca. Il suo “prime” è stato delittuosamente sprecato in un contesto che lo ha privato di un degno supporting cast nei momenti decisivi della stagione. I suoi atteggiamenti da istrione ed il suo modo di approcciare pubblico e stampa hanno fatto da apripista per la generazione successiva. Si può amare, si può odiare, ma è impossibile da ignorare.
Oggi è tanto per cambiare l’opinionista del mondo NBA più discusso e discutibile, ma anche uno dei più genuini e riconoscibili. Dispensa battute al fulmicotone senza soluzione di continuità. E il “povero” Shaq ne fa spesso le spese.
Più di qualche volta strappa un sorriso malinconico quando si lancia (oggi come allora) con assoluta generosità in battaglie e crociate di ogni genere. Tutte e sempre rigorosamente controproducenti. Senza arrendersi, mai.
Grazie, Sir Charles.