«Even if you don’t want to hear me, you’re going to hear me»
Per prime sono arrivate le comparsate a bordo campo al Pauley Pavillion di UCLA, per incitare a viva forza il figlio Lonzo. Poi le interviste nelle quali lo definiva molto più forte del due volte MVP Steph Curry. Quindi è arrivato a sfidare sua Maestà Michael Jordan in uno contro uno, finendo poi a lanciare la sua linea di scarpe. Negli ultimi mesi Lavar Ball ha inanellato una serie di sparate che si possono fare concorrenza solo l’una con l’altra, alzando esponenzialmente l’asticella della spavalderia fino ad entrare nei territori della fantascienza. Questo bombardamento quotidiano ha spinto a viva forza il pubblico a ritenerlo un chiacchierone da Bar Sport, un folgorato che indubitabilmente rovinerà la carriera a suo figlio. Certe figure in America sono definite “Helicopter Dad”, quei genitori che passano le partite dei figli a litigare con gli altri genitori su quale sia il pargolo più forte.
LaVar Ball è sicuramente tutto questo. Ma è anche molto, molto altro.
LaVar, come Kanye West, è sotto controllo ma non è sotto il vostro controllo. La sua strategia comunicativa non è comprensibile a una prima lettura ed è solo una parte di un progetto visionario, se non propriamente folle, che avrà un suo primo traguardo nella Green Room del Barclays Centre nella notte italiana. In un’intervista rilasciata ad USA Today dal magniloquente titolo “LaVar Ball and his boys are here to change the world”, LaVar, seguendo l’esempio di quel baller di Oscar Wilde, spiega chiaramente la sua ricetta: anche chi non ha la minima intenzione di volerlo ascoltare, prima o poi sarà costretto a farlo. E non importa che se ne parli bene o male: l’importante è che se ne parli.
Se quello era l’obiettivo, non c’è alcun dubbio che sia stato raggiunto con lode: dei Ball si è parlato, si parla e si parlerà senza sosta. Il percorso di avvicinamento al Draft del figlio maggiore Lonzo è stato trasformato in un interminabile reality show che non ha eguali nella storia recente. Nonostante più volte la vita dei Ball sia stata associata a quella della famiglia Kardashian, non bisogna sottovalutare i notevoli risultati sportivi che i tre hanno raggiunto negli ultimi anni. Infatti le pazze gesta dei tre di Chino Hills sono arrivate solo recentemente al pubblico generalista, ma la loro storia inizia molto tempo fa, esattamente quando un giovane LaVar incontrò camminando in un corridoio dell’università di Cal State la sua futura moglie, Tina, scelta «per la sua altezza, lunghezza e fertilità».
Chino Hill Lab
Lei: centro biondo della squadra di basket femminile. Lui: appena tornato in California dopo una parentesi non memorabile a Washington State, la cui carriera sportiva si stava esaurendo. Quale momento migliore per varare il personale progetto di eugenetica di LaVar? Come se il darwinismo sociale si fosse impadronito dei padri sportivi che passano su Italia 1 il sabato pomeriggio, LaVar innesca il suo piano segreto per la conquista dell’NBA: «Mia moglie sapeva che volevo tre ragazzi, ed è quello che ho avuto».
C’è uno scientismo primitivo dietro ogni decisione di LaVar, un obbedire a leggi naturali più antiche dell’uomo. La dominante fisicità da stregone, lo sguardo luciferino. I tre vengono battezzati seguendo una tradizione che pulsava forte nell’albero genealogico della famiglia Ball (i fratelli di Lavar erano in ordine: LaValle, LaFrance, LaRenzo, LaShon) e investiti da subito di un compito da prescelti: cambiare il gioco. Dobbiamo dare a LaVar ciò che è di LaVar: la sua ambizione è pari solo alla sua sbruffonaggine, e non ha mai cambiato il suo piano originale - anzi, ha fatto di tutto perché questo piano funzionasse.
Lonzo, LiAngelo e LaMelo diventano la ragione di vita di LaVar, che abbandona ogni sua aspirazione professionale - era stato preso nella practice squad dei New York Jets e dei Carolina Panthers - per allenare giorno e notte i suoi ragazzi. Si trasferiscono in una canonica villetta nella zona residenziale di Chino Hills, a est di Los Angeles, tra Anheim e Riverside: tre camere, cucina in open space, piscina sul retro, ma soprattutto un canestro attaccato al muro nel giardino sul retro - l’immancabile elemento di ogni favola sportiva che si rispetti - che LaVar asfalta personalmente come prima dopo aver firmato il contratto di acquisto.
C’è una mistica ben definita che accompagna la crescita di questi fenomeni della palla arancione, un time-lapse di tiri contro lo stesso ferro mentre intorno cambiano le stagioni, aumentano i numeri delle Jordan, crescono i fratelli. La famiglia Ball rientra perfettamente nell’archetipo: la sveglia la mattina suona molto presto per consentire la sessione di tiri prima di andare a scuola, poi subito dopo la campanella si ritorna presto per quella pomeridiana, accompagnata da qualche ora di palestra. Le uniche interruzioni a questa meccanica quotidianità sono gli allenamenti con la squadra del liceo di casa che i fratelli Ball hanno portato dalla totale anonimità ad essere la numero 1 d’America nel 2016.
Quando la famiglia Ball si abbatte come uno tsunami sulla Chino Hills High School, i pargoli erano già un fenomeno locale nel circuito AAU con l’immancabile logo Big Baller Brand. Nella testa di LaVar, trasformare in un ottovolante impazzito l’esperienza scolastica della sua prole era solo un ulteriore tassello nel progetto, un gradino da salire nella scala che porta fino all’apogeo cestistico. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per i BBBallers. Dopo anni passati ad assemblare il sogno, calcolando al millimetro ogni incastro per far scattare il meccanismo perfetto, finalmente Lavar può schierare tutti e tre i suoi tre figli in una competizione ufficiale, esattamente come nel giardino di casa. Se sapessimo davvero cosa c’è nella testa di Lavar diremmo che l’esperimento è andato esattamente come il patriarca lo aveva immaginato. Non potendo, ci limitiamo ai freddi numeri, che però esemplificano in qualche modo il grado di leggendarietà della stagione di Chino Hills e dei Balls Brothers: 35 vittorie, 0 sconfitte. Una perfect season resa ancora più impressionante dagli scalpi collezionati dagli Huskies: LaSalle, Bishop Montgomery, Montverde Academy. Alla fine saranno 11 le squadre classificate nazionalmente ad essere sconfitte.
Un dominio totale contraddistinto da uno stile di gioco rivoluzionario, radicale, che mischia i ritmi frenetici della Loyola Marymount di Paul Westhead e le selezioni di tiro dei contemporanei Golden State Warriors. Le partite di Chino Hills sono una mareggiata di contropiedi fulminanti, jumper da centrocampo e passaggi da Cirque du Soleil; l’eterodossia del loro gioco diventa ben presto materiale di culto. Quella che era stata una palestra ai margini del panorama cestistico californiano viene assalita fin dalla mattina da centinaia di avventori alla disperata ricerca di un biglietto. È quasi sempre uno sforzo inutile perché la maggior parte resta fuori nel parcheggio, mentre dentro si celebra un rito a metà tra gli Harlem Globetrotters e lo Spring Break: un trip collettivo dentro un futuro così vicino ma allo stesso tempo irriproducibile, legato indissolubilmente all’immaginazione del suo creatore.
LaVar ha la sua rivincita. I suoi estenuanti allenamenti, modellati su principi inaccettabili fino a pochi anni fa, trovano la loro consacrazione in campo. «L’unico brutto tiro è un tiro su cui non ci si è mai allenati. È meglior tirate da otto metri completamente smarcati piuttosto che da più vicino ma con un uomo addosso». Alla faccia di Mark Jackson, come ha recentemente scritto anche Kevin Pelton, l’approccio iconoclasta non solleticherà i palati più nostalgici, ma ha le maggiori possibilità di essere quello vincente. E nulla ha la follia calvinista di LaVar, la cui visione ha creato una delle squadre più atipiche e vincenti della pallacanestro liceale rompendo ogni regola pre-costruita.
Lonzo è un playmaker in realtà aumentata, capace di plasmare la partita a sua immagine e somiglianza toccando il pallone il meno possibile, anzi scagliandolo spesso e volentieri con futuristici baseball pass che incendiano la transizione degli Huskies. LiAngelo è il più simile alla figura paterna, grazie alla sua forza bruta con la quale punisce i suoi coetanei rei di non alzare 150 chili di panca piana. LaMelo è il più iconico dei tre, con le sue meches naturali à la Odell Beckham Jr., la passione per i colori fluo e il range alla Steph Curry nonostante non abbia i muscoli per fare un layup. In qualche modo rappresenta l’ultimo stadio dell’esperimento di LaVar, che spesso ricorda come sia il suo progetto migliore, costretto fin da bambino a scontrarsi con avversari più grandi e prestanti di lui o semplicemente a lottare contro i due fratelli maggiori per la sopravvivenza domestica.
È divenuto un fenomeno social per aver segnato un tiro da centrocampo segnalando all’avversario il punto dal quale avrebbe fatto canestro e chiuso una partita con 92 punti a referto, surclassando i precedenti 72 di LiAngelo. Uno dei tanti highlights di una stagione sotto i riflettori ma alla quale è mancato l’acuto vincente: Chino Hills infatti è stata sconfitta nei quarti di finale dopo un sanguinoso supplementare. Evidentemente i tre insieme valevano ben più della somma delle parti e la centralità di Lonzo in quel sistema non era sostituibile da un giorno all’altro.
The Royal Tenenball
Rivedendo ora i video di quella stagione irripetibile, infognati nel bel mezzo di Mock Draft e continui shitstorm, si ha la sensazione che quella possa essere stata la più limpida versione della famiglia Ball. Prima della fama nazionale, degli haters, delle comparsate in ogni show televisivo, prima che Lonzo si trasferisse nel campus di Westwood rompendo l’equilibrio dell’adolescenza, c’era qualcosa di magico nell’unica stagione dei Ball Brothers a Chino Hills. Aveva la stessa consistenza del primo sorso di birra, l’odore di un libro appena stampato, l’innocenza della spiaggia la mattina all’alba: portava con sé quel senso di finitudine che rende le cose speciali. Forse, al netto della bulimia ossessiva di LaVar per la conquista del mondo, in quel momento subito dopo la vittoria contro La Salle in finale della CIF Open Conference, rimontando ferocemente nel secondo tempo e vendicando la sconfitta dell’anno precedente contro San Ramon Valley, c’era la realizzazione della sua visione. Non soltanto la vittoria, ma soprattutto l’aver imposto un modo di giocare totalmente nuovo nel completo scetticismo. I suoi figli, cresciuti con l’unico scopo di diventare campioni, lo erano effettivamente diventati ed erano pronti per conquistare il palcoscenico mondiale.
L’attore principale di questa saga familiare rimane però il patriarca. È lui che domina ogni aspetto del branding dei suoi figli. In un’epoca che ha trasformato tutti in influencer e in “imprenditori di se stessi”, nella famiglia Ball vige ancora una visione novecentesca in cui i figli fino al raggiungimento della maggiore età sono sotto la tutela del padre. E se a lui sono concessi tutti gli istrionismi immaginabili, Lonzo, LiAngelo e LaMelo devono rigare dritto. Niente feste, cattive compagnie o atteggiamenti sopra le righe: i tre conducono una vita estremamente monotona, che sfiora il monacale se non andassero a scuola con fuoriserie a tre zeri. Le distrazioni in casa Ball si esauriscono ai videogiochi o alle collezioni di scarpe. D’altra parte l’impegno richiesto in palestra è massimo e allo stesso tempo non deve in alcun modo interferire sui risultati scolastici, che per LaVar sono un motivo di vanto tanto quanto quelli sportivi. Tutti e tre hanno dei voti così alti da poter andare a UCLA anche senza borsa di studio. L’educazione, così come il basket, è considerata una possibilità per garantire ai propri figli una vita di successo ed è tenuta in massima considerazione.
Durante una lite con Stephen A. Smith, nel momento culmine dell’isteria, quando entrambi sono rossi in viso e al limite delle loro capacità polmonari e stanno per passare alle mani, improvvisamente l’opinionista di ESPN si ferma e gli fa i complimenti per come, nonostante tutto, abbia cresciuto i propri figli da black man. Cioè in un ambiente ostile, dovendo affrontare tutte quelle difficoltà che definiscono la vita di un afroamericano in America. LaVar ha deciso di affrontarle chiudendosi a riccio: tutta la sua sbruffoneria trova un senso quando si capisce che è in larga parte orientata a proteggere i suoi figli, a creare uno spazio sicuro dentro il quale potessero concentrarsi al massimo per raggiungere i traguardi prefissati. Assomiglia sempre più a un leone che cerca di difendere la propria famiglia nella savana.
Ovviamente c’è l’altra faccia della medaglia da considerare. LaVar non vive nella savana ma vicino Los Angeles e la sua aggressività molte volte è stata esagerata, più performativa che realmente costruttiva, contribuendo a mettere in difficoltà i suoi ragazzi invece di aiutarli. Poi ci sono gli effetti collaterali. Cresciuti in una realtà ovattata dagli strilli del padre, non sappiamo ancora quanto si sia sviluppata la personalità dei tre. Nelle numerose uscite di gruppo in previsione del Draft sono sembrati spesso in balia della verve di LaVar, incapaci di andare oltre a sorrisi di circostanza. Ormai hanno accettato che sia lui a gestire lo spettacolo e loro hanno solo dei posti in prima fila. Lonzo, il più grande e l’unico in procinto di lasciare il nido, sta affrontando tutto il percorso di avvicinamento alla nottata del Barclays Center come una snervante via crucis, sfinito dalla ovvia pressione pre-Draft tra interview, workout e tour promozionali per le sue nuove scarpe.
Il rapporto tra Lonzo e suo padre è stato già lungamente sviscerato, e contestato. Sia LeBron James che Kyrie Irving hanno sollevato il problema di quanto l’influenza di LaVar possa alla lunga risultare dannosa per il figlio, ricevendo indietro insulti in carta bollata. Addirittura a Irving ha risposto che lui non si può permettere di metter bocca perché «non sa com’è crescere con entrambi i genitori» - ignorando, o forse no, che la madre di Irving è venuta a mancare quando lui aveva 4 anni.
Il problema però va ben oltre queste liti. Come nel film di Wes Anderson che inaugura l’hipsteria, anche in questo caso non sappiamo quanto i tre baby-fenomeni reggano le aspettative con le quali sono stati imboccati fino dalla più tenera della età. È lecito chiedersi se e quando ci sarà una incrinatura nella parabola che dovrebbe terminare la propria corsa in cima al mondo.
Molti dei più grandi tra gli sportivi di questa generazione sono stati la realizzazione solida dei sogni dei loro genitori, spesso atleti di buon livello che non erano mai stati in grado di far il definitivo salto e che avevano convogliato la loro ossessione nel sangue del loro sangue: Kobe Bryant, Andre Agassi e Tiger Woods hanno solo contribuito a rendere il cliché ancora più abusato, dimenticando per strada chi invece non è riuscito a rispettare le aspettative paterne ed è stato sbranato dalla competizione. I Ball sono stati cresciuti con i sogni dentro al biberon e hanno sempre dato l’impressione di credere fervidamente nella strada che gli è stata tracciata innanzi, ma se mai scopriranno di essere solo dei buoni giocatori e non la rivoluzione che gli altri vedevano in loro, nessuno può sapere come reagiranno.
Air Jordan vs Air Ball
Recentemente la famiglia Ball al completo è stata invitata dal sito web/magazine di cultura pop Complex a fare un giro nel paradiso in terra per ogni sneakerhead: il Flight Club.
I muri di scarpe ancora incellofanate in attesa che qualcuno accenda un mutuo per venire a salvarle sono le quinte perfette in mezzo alle quali discutere dell’altra grande passione familiare oltre al basket: le scarpe da gioco. Dopo aver tentato degli accordi con le maggiori case di abbigliamento sportivo, i Ball hanno scelto una strada inconsueta lanciando autonomamente, attraverso il loro marchio di abbigliamento, la prima signature shoe di Lonzo, la ZO2 Prime. Una scelta indubbiamente coraggiosa e allo stesso tempo molto controversa, visto che il prezzo di lancio delle scarpe è stato fissato a 495$, praticamente il doppio delle competitors più costose sul mercato e ai livelli delle sneaker delle più famose case di moda. Lo stesso LaVar ha giustificato una mossa così spregiudicata come una scelta di inserirsi «in una nuova fascia di mercato, sopra le calzature sportive di Nike, adidas e Under Armour ma poco sotto scarpe di designer high-end come Gucci, Prada e Louis Vuitton». Non è certamente una scarpa per tutti: chi la vuole deve essere in grado di strisciare la carta senza esitare e dimostrare così a tutto il mondo di essere un autentico Baller, una definizione cara a LaVar che richiama alla casata d’ordinanza e allo stesso tempo definisce un’estetica ben precisa.
Essere Baller significa in un certo senso far parte della famiglia Ball, ovvero sposarne i principi della esclusività e della riconoscibilità. Dalla bio del sito si legge che “la missione è fornire una linea di abbigliamento che rifletta il significato di essere un Big Baller attraverso ciò che si indossa”. Come insegnano ai workshop di marketing, ora non si vende solo un prodotto ma un’esperienza, una nuova identità. Subito sotto infatti si invita la clientela a fidarsi del Big Baller Brand come scelta di lifestyle per ogni occasione.
Esattamente in linea con il personaggio, il brand di Lavar è incredibilmente ambizioso e non si accontenta di entrare nel mercato, ma vorrebbe da subito comandarlo. Non c’è spazio per i fraintendimenti: nonostante in campo lo stile dei Ball sia pirotecnico e sopra le righe, non c’è nulla di imprevisto nella loro linea di abbigliamento. Le grafiche sono semplici, quasi rubate da uno stock di photoshop, funzionali a illustrare il logo, sia come sigla sia in versione distesa. Tutto gira attorno all’auto-celebrazione dello status di Baller in ogni sua possibile sfumatura, riducendo di fatto le potenzialità di un brand in quelle di una pagina Facebook che per tirar su qualche soldo cominciano a fare merchandise.
Non c’è nulla di male a voler sfruttare la celebrità sportiva della propria famiglia per vendere qualche maglietta: un caso simile si è avuto recentemente quando il padre di Malik Newman ha cercato di costruire un lookbook intorno al figlio quattro volte campione statale, progetto naufragato dopo la tragica stagione da freshman a Mississippi State. Le cose cambiano profondamente quando al posto delle magliette stampate in casa si mette in vendita una scarpa, anzi una signature shoe, ovvero il punto d’arrivo della riconoscibilità di un giocatore di basket. Solitamente, prima che uno dei grandi brand decida di rilasciare una scarpa da gioco legata al nome di una stella, c’è bisogno che quest’ultima abbia consolidato negli anni una posizione di vertice nell’Olimpo della lega e che, allo stesso tempo, sia qualcosa in più di un semplice eccellente atleta, ma bensì uno in grado di attrarre le fantasia dei tifosi, di trasformarsi in immaginario. Mentre quasi tutti i giocatori hanno un contratto di sponsorizzazione tecnica, i soli ad avere una signature shoe tutta loro sono i vari James, Durant, Curry e Irving. Gente perennemente all’All-Star Game, e gente che ha lavorato anni prima di arrivarci.
Il processo di lavorazione di una scarpa è il più lungo nella filiera della moda: si parte da un’idea di base a cui viene data vita lentamente assemblando le varie parti, dalla tomaia alla suola, scegliendo con cura forma e materiali. Serve competenza nel processo tecnico, conoscenza dello sneaker game e una certa dose di inventiva e creatività. Lonzo ha affermato di aver disegnato la sua scarpa in tre o quattro ore senza l’ausilio di nessun designer, affidandosi prevalentemente al suo gusto personale mixando tra le scarpe che più gli piacciono. Infatti osservando bene la ZO2 si notano i riferimenti alla Kobe 8, alla Kobe 11 e alla tecnologia Ultraboost di adidas: il collage che ti aspetti da un diciannovenne senza alcuna competenza a cui viene chiesto di disegnare una scarpa da gioco.
Ovviamente però le critiche più dure non sono arrivate per il design rubacchiato - d’altronde lo fanno anche nomi ben più quotati di Lonzo - quanto per il prezzo richiesto. Chiedere 495 dollari per un paio di sneaker è considerato un’eresia in un’industria che in gran parte è rivolta ad un pubblico giovane, adolescenziale. Già ai tempi delle prime Jordan - ora saldamente tra le scarpe da basket più costose sul mercato - il dibattito a proposito se fosse etico lasciare che dei ragazzi spendessero tali somme per le proprie scarpe solo per avvicinarsi ai propri beniamini. Quando si moltiplicarono le rapine nei confronti di chi girava con un paio di Jordan ai piedi, varie superstar dell’epoca cominciarono a fare scarpe a prezzi di retail molto più popolari per combattere l’ondata di violenza. Tra i più accesi furono Shaquille O’Neal con le Shaq Attack per Reebok e Stephon Marbury, che addirittura lanciò la sua linea attraverso la catena di abbigliamento Steve & Barry’s, con scarpe a prezzi da discount.
Dieci anni dopo lanciare una scarpa a prezzi supersonici non crea più gli stessi dilemmi etici in un mercato che ha fatto del reselling un mondo sotterraneo, ma certe cannonate risvegliano un sopito senso di indignazione. Secondo George Raveling, direttore marketing basket per Nike, Lonzo Ball «è la cosa peggiore successa al basket negli ultimi 100 anni». Avendo James Naismith alzato la prima palla a due nel 1891, diciamo che non è rimasto molto tempo per compiere altre tremende malefatte. Intanto Phil Knight, co-fondatore dello swoosh, si è dichiarato disposto a mettere sotto contratto Lonzo ma ovviamente non alle cifre mostruose richieste da LaVar, che ha offerto i servigi dei tre figli per nove rotondi zeri dietro all’uno iniziale. Il talento è indubbio, ma nessuno se la sente di scommettere tutti quei soldi su un giocatore (o su tre giocatori) che deve ancora firmare il suo primo contratto professionistico. Non tutti però giudicano folli le mosse di LaVar.
Sonny Vaccaro, storico shoe executive che ha rivoluzionato il mercato con il suo camp ed è stato una figura chiave nel portare Kobe Bryant ad adidas, ha espresso un reale interesse verso le mosse di LaVar. «Mi piace la sicurezza in sé, ci vuole molto coraggio per esprimersi così. Se tutto funziona per il meglio questa potrebbe diventare una delle più grandi storie di sempre». Le scarpe però, nonostante siano delle scarpe da collezionista («per i quali il prezzo non è così importante», dice Vaccaro), sarebbero dovute uscire in un secondo tempo perché «ora rischiano di inimicare tutta una fascia di pubblico che si fermerà solo al numero sull’etichetta senza considerare altri fattori».
Invece Lonzo sarà il primo giocatore ad arrivare alla Draft Night con le sue scarpe personalizzate. Anche questa ovviamente è una scelta che LaVar aveva già in mente da molto tempo, diciamo da quando si era trovato in aperto contrasto con le organizzazioni dei tornei AAU dominati dalle squadre sponsorizzate dai brand sportivi. Si può essere d’accordo o no con lui, ma è indubbio che il suo approccio verso il mondo sia profondamente affascinante: per certi tratti assomiglia a un Don Chisciotte contro i mulini a vento.
There Will Be Ball
C’è un retrogusto particolare nella costanza con la quale LaVar si è seduto dalla parte del torto: quello che contraddistingue i palati di chi ha sempre cercato lo scontro diretto come esperienza di crescita. Non è un caso infatti se ogni volta che deve ribadire il suo ruolo da maschio alpha lo faccia sventolando il guanto di sfida e demandando il singolar tenzone. Se ci affidiamo alle sue parole, non esistono campioni che non possa ridurre alle lacrime in 1 contro 1, proprio come un Barry Lyndon qualsiasi. Ma si sa che le qualità e le energie che portano un uomo a conquistare una fortuna sono spesso le stesse che lo portano poi a perderla.
Così LaVar è riuscito con grande abilità a costruire un impero dalla polvere, piegando a suo vantaggio le velleità dei canali comunicativi tradizionali, trasformandoli de facto in un unico spazio pubblicitario 24/7 per i suoi figli e il suo brand. Più le sue uscite erano eccessive, blasfeme, più altri show lo invitavano nella speranza di far impennare lo share, in un effetto domino che ancora oggi non da segni di rallentamento. Ad ogni nuova provocazione il suo territorio di conquista si espande a macchia d’olio, seguendo quello che aveva affermato nell’intervista a USA Today. Nessuno arriverà a questo Draft senza aver mai sentito il nome di Lonzo Ball.
Ma allo stesso tempo in molti sono arrivati ad un punto di saturazione, pronti a sbroccare all’ennesima goccia, e non sempre LaVar è stato cialtrone inoffensivo. Uno dei punti più bassi del tour auto-promozionale di LaVar è stato raggiunto durante una puntata dello show The Herd in cui si è scagliato contro la reporter di Fox Sports Kristine Leahy, rea di essere una hater di BBB. Dopo non aver voluto rivelare quante paia di scarpe avesse fino a quel momento venduto, LaVar ha gentilmente invitato la giornalista a non occuparsi più di lui con un cadenzato «stay in your lane» ripetuto a volume sempre crescente. Leahy stava criticando la scelta di LaVar di non aprire il suo business anche ad una clientela femminile.
LaVar qui riesce a condensare in un breve scambio di battute tutto ciò che non funziona nel suo stile comunicativo: l’aggressività ingiustificata verso l’intervistatore, la necessità ad ogni parola di ribadire il suo ruolo di maschio dominante e la conseguente svalutazione del femminile. Tutti difetti purtroppo spesso riscontrabili nel mondo sportivo, in qualche modo connaturati all’interno di un sistema che fa della competitività e del successo le uniche misure di valutazione, ma che Ball senior glorifica fino a trasformarli nel suo personale gotha di valori.
Qualche settimana dopo, sul sito del brand è comparsa in vendita una maglietta con sopra stampato “Stay in yo lane", una tag line con la quale potrete dare consigli di vita senza neanche dover aprire bocca. Viene anche specificato che è stata messa in produzione by popular demand - dev’essere proprio così visto che, siete liberi di crederci o no, ne è stata fatta anche una versione in canottiera espressamente rivolta al mercato femminile. Ovviamente è il primo capo della collezione femminile di BBB.
Il rapporto con le donne di LaVar è forse l’esemplificazione più forte del suo modo di vedere il mondo. Nonostante abbia scelto la moglie per i suoi attributi fisici, la presenza di Tina nella vita di LaVar è stata fondamentale nella riuscita del suo piano diabolico. Sebbene meno fotogenica del marito, è l’unica a poter rivaleggiare con lui in competitività e cieca determinazione. E siccome il basket è un gioco di squadra, la signora Ball ha sempre giocato nel team di famiglia, anche nei tornei AAU, finché questo febbraio è stata colpita da un grave infarto. Lonzo era ad un allenamento di UCLA quando ha ricevuto la notizia ed è subito corso in ospedale: LaVar era già lì ad aspettarlo e sarebbe rimasto lì per molto tempo, perdendosi anche l’ultima partita collegiale del figlio, la sconfitta alle Elite Eight contro Kentucky.
Per la Festa del Papà, sul famoso sito The Players’ Tribune è comparsa una lettera scritta da Lonzo in prima persona. Il titolo è inequivocabile: “To the loudest guy in the gym”. È un inno alla normalità, un racconto dietro le quinte del reality show vissuto dai Ball nell’ultimo anno. Come polaroid sul muro si susseguono le colazioni energetiche, le ripetute sulle colline, lo stereo a tutto volume prima delle partite, le tante incredibili vittorie, le poche brucianti sconfitte. Lontano dalle telecamere - «che fanno un po’ impazzire mio padre», ammette Lonzo - si consuma la quotidianità di una famiglia che ha avuto in testa fin dal primo momento un solo obiettivo. Un lungo percorso che si snoda attraverso i garage della suburbia californiana, le palestre scolastiche di metà America e i palazzi neoclassici di UCLA, dove tutti e tre i Ball hanno già ricevuto una borsa di studio.
Quando durante notte della Draft Lottery, Mark Tatum alzava il cartoncino con sopra il logo dei Los Angeles Lakers, non si accendeva soltanto il sorriso di sollievo di Magic. A molti chilometri di distanza anche LaVar vestito dalla testa ai piedi del logo BBB in purple&gold si libera in un ghigno, la sua versione del sorriso, e comincia a declamare verso Lonzo e le camere di ESPN «Te l’avevo detto, te l’avevo detto». I Lakers hanno tenuto la loro seconda scelta al Draft e ancora una volta Lavar ha avuto inspiegabilmente ragione. Vent’anni fa ha deciso che il suo primogenito avrebbe giocato in NBA e lo avrebbe fatto nella cornice più scintillante possibile: ora è ad un passo dal mandare Lonzo allo Staples Center dimostrando di avere molta più programmazione della dirigenza gialloviola.
È difficile prevedere quale sia la dimensione di un fenomeno come quello dei fratelli Ball, se davvero rivoluzioneranno il mondo della pallacanestro grazie alle idee paterne o rimarranno un circo locale, un po’ come quei freak show che dell’inizio del secolo scorso giravano ogni minuscolo centro urbano, ma alla fine non arrivavano mai nelle grandi metropoli.
Di una cosa possiamo essere certi: LaVar Ball ci terrà aggiornati passo dopo passo.