Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La vittoria di Cole Hocker è l’upset di queste Olimpiadi
07 ago 2024
07 ago 2024
Un risultato impronosticabile nei 1500 metri maschili.
(copertina)
Foto di IMAGO / BSR Agency
(copertina) Foto di IMAGO / BSR Agency
Dark mode
(ON)

In una corsa dei cavalli del 1919 a Saratoga, NY, Stati Uniti, il leggendario purosangue Man o’ War - il cavallo da corsa più forte di tutti i tempi secondo una giuria messa insieme da ESPN - perde una gara per cui era dato favorito. La sconfitta sarà l’unica della sua carriera e a batterlo è un cavallo sì, discreto, ma che avrà davanti a sé nulla più che una buona carriera, il cui apice sarà il dispiacere inflitto a Man o’ War (e agli scommettitori). Il nome del cavallo è Upset.

Una leggenda popolare, poi sfatata, vuole che a partire da questo ribaltone il lessico giornalistico americano abbia mutuato la particolare accezione del termine upset per indicare la clamorosa vittoria di uno sfavorito, non solo nei contesti sportivi.

La vittoria di Cole Hocker nella finale dei 1500 metri maschili è l’upset perfetto di queste Olimpiadi.

I nerd del track and field ci hanno messo poco a rivendicare il fatto che sì, loro sapevano benissimo chi fosse Cole Hocker già prima che diventasse medaglia d’oro olimpica; e che no, in fondo la vittoria di Hocker non è poi tutto questo upset.

Cole Hocker ha 23 anni ed è alla seconda Olimpiade con Team USA; ha discreta esperienza internazionale coronata da un argento nei mondiali indoor di Glasgow a inizio 2024. Poco altro, e comunque risultati riconducibili alla sua fitta esperienza al College - roba molto USA-centrica. Nessuno poteva pensare che sul gradino più alto del podio ci potesse finire lui, e non Jakob Ingebrigtsen o Josh Kerr.

Il norvegese e il britannico hanno passato l’anno che ha separato i mondiali di Budapest da Parigi 2024 a montare uno dei dualismi più accesi nella storia recente dell’atletica. A non tutti sono piaciuti l’enfasi con cui la stampa di settore ha trattato la questione, né i toni con cui i due si sono affrontati verbalmente. Eppure, i presupposti per la credibilità dello scontro c'erano e all’incendiario battibecco social ha fatto seguito un botta e risposta in pista che ha elevato la situazione dal polverone del gossip a una rivalità vera e propria. Entrambi sono veloci, entrambi sono vincenti: entrambi hanno una lingua tagliente e nessuno dei due si risparmia nell’usarla. Entrambi sono invisi a una larghissima fetta di pubblico - ognuno ha il proprio gruppo di accoliti. Il materiale che hanno partorito in questi mesi tra interviste, dichiarazioni, prove su pista è roba da serie Netflix sul mezzofondo.

L’escalation tra i due è stata rapida e improvvisa quanto può esserlo la fiammata di un’azione decisiva nella finale dei 1500 metri di un mondiale, quello di Budapest in questo caso.

Il casus belli

Prima di Budapest del 2023 la storia tra Ingebrigtsen e Kerr era quella di due atleti che stavano più o meno pacificamente facendo i conti con le proprie carriere. Jakob - rampollo di una dinastia familiare portata avanti dai fratelli maggiori Henrik (campione europeo sui 1500 metri) e Filip (campione europeo nei 1500 metri e bronzo mondiale sulla stessa distanza) sotto la guida del padre - stava forgiando la sua immagine di enfant prodige dell’atletica norvegese, capace ad appena ventitré anni di dominare su 5000 metri (due titoli mondiali, tre titoli europei), 3000 metri (tre titoli europei indoor, uno outdoor alla Diamond League) e 1500 metri (oro olimpico condito da quattro ori europei tra indoor e outdoor). Josh Kerr, dopo una carriera under promettente, aveva pescato un bronzo olimpico a Tokyo (alle spalle di Jakob) e divideva lo scettro del mezzo fondo inglese con Jake Wightman - campione del mondo sui 1500 metri nel 2022, ai danni di Ingebrigtsen.

Nel groviglio dei trascorsi giovanili tra i due, è difficile stabilire se ci siano un momento e un luogo esatto dove le acque di quel fiume sotterraneo che è il fastidio reciproco dell’uno nei confronti dell’altro sia emerso per la prima volta alla luce del sole. Una serie di indizi sembrano puntare al mondiale di Budapest 2023. Il casus belli originario risale alla seconda semifinale - un concentrato di talento in cui tra gli altri si scontravano Jakob Ingebrigtsen, Josh Kerr, il campione del mondo 2019 Timothy Cheruiyot e (guarda guarda) Cole Hocker.

Durante la gara Ingebrigtsen decide di attenersi a un piano che con il senno di poi è un ibrido tra una strategia vera e propria e un mind game da villain dell’intera serie. Si nasconde nelle ultime posizioni per buona parte della gara, poi al suono della campana che segnala l’inizio dell’ultimo giro risale, risale e risale fino a vincere sull’ultimo rettilineo. Il piano è eseguito anche meglio di come deve essere stato pensato, ma per esagerare c’è l’aggiunta di un twist particolare. Sull’ultima curva, a circa 200 metri dal traguardo, mentre sorpassa tutti dall’esterno e si appaia a Josh Kerr, che aveva condotto praticamente tutta la gara, Ingebrigtsen comincia a chiamare il pubblico sugli spalti con un braccio. Il gesto è quello della mano che va su e giù, a dire “non vi sento”. Chiude lo show con un’esultanza post gara quantomeno ambigua per una semifinale, e che comincia già qualche metro prima di aver superato il traguardo, in faccia a Josh Kerr.

La finale di tre giorni dopo sembra una formalità: pochi si sognano di questionare l’oro di un Ingebrigtsen così in controllo della situazione, fresco campione europeo, dominatore alla Diamond League. Ci sono tutti i presupposti per cui il prodigio possa navigare senza troppi scossoni verso il primo titolo mondiale nei 1500 metri per lui e per la dinastia Ingebrigtsen (l’oro mondiale gli era sfuggito anche nella pur breve carriera giovanile). Il piano gara è praticamente opposto rispetto alla semifinale. Ingebrigtsen si mette da subito al comando, con l’intento di imporre alla finale il suo ritmo e le sue regole. La strategia sembra pagare: almeno fino a 250 metri dalla fine. Da qui in poi, la storia si ripete una prima volta. Per Ingebrigtsen sicuramente è una tragedia: per i numerosi detrattori che lo aspettano al varco dopo lo show della semifinale è un sollievo. Subito dopo aver tagliato il traguardo, nel pieno di un’esultanza sfacciata, Josh Kerr, gli occhialoni da corsa specchiati perennemente incollati al naso, rispedisce al mittente il favore ricevuto in semifinale con un gesto lasciato un po’ a mezz’aria: si volta verso l’interno, dove sa che c’è Ingebrigtsen, e cerca lo sguardo sconfitto del favorito.


Le interviste post-gara sono una prima spolverata di concime per far germogliare la rivalità. Josh Kerr mette in mezzo la retorica del lavoro e una velata frecciata al bene che vince sul male: «Ho sempre creduto in me stesso perché ho lavorato in maniera dura e onesta, e credo che alla fine la persona buona vinca sempre».

Ingebrigtsen tira fuori la sfortuna e un presunto virus alla gola che ne avrebbe minato lo stato di forma (senza però impedirgli di vincere i 5000 metri): «Complimenti a Kerr, ma mi sento un po’ sfortunato. Ho avuto la gola un po’ secca che si è trasformata in una specie di mal di gola… Ho fatto tutto il possibile e mi sento un po’ sfortunato».

La bomba è destinata a scoppiare da un momento all’altro, e non impiega troppo tempo per farlo. Succede quando Jakob mette le mani sul suo oro, quello nei 5000 metri. Alla domanda «in un rematch, saresti in grado di battere Kerr sui 1500 metri?», Ingebrigtsen tira nuovamente fuori la storia della sfortuna e del mal di gola, e poi si riferisce a Kerr con parole non proprio al miele: «è solo un altro runner». La replica arriva seduta stante: «che mi manchi pure di rispetto, intanto l’oro al collo nei 1500 ce l’ho io».

Sono le prime battute di una guerra verbale di logoramento che si trascinerà fino al tartan viola di Parigi.

Kerrgebrigtseng

Siamo solo all’inizio. Nel corso del rigido inverno pre olimpico, mentre Ingebrigtsen è davanti alla TV alle prese con un infortunio al tendine d’Achille, Kerr batte il record mondiale indoor delle due miglia, annichilendo in 8.00.67 il precedente tempo di sir Mo Farah (8.03.40). La replica dalla sponda norvegese del mare del Nord non è quello che definiremmo un capolavoro di diplomazia: «Sono contento che i miei avversari stiano migliorando, vorrà dire che non devo più correre da solo. In quella gara avrei potuto batterlo bendato».

Alla richiesta di una replica al commento pepato di Ingebrigtsen, Kerr ha replicato con un saggio «No comment». Non che il britannico sia (o sia stato) uno stinco di santo. A un paio di giorni dalla conquista del suo oro a Budapest, in un'intervista per Citius Mag Kerr è tornato sull’episodio dell’esultanza di Ingebrigtsen in semifinale, attribuendola a: «uno stato di insicurezza… qualcosa che anche io ho fatto [celebrare vittorie in semifinali e batterie] nei momenti in cui ero nel mio peggior stato di forma. Insicurezza e frustrazione, consapevolezza di non essere come al solito il centro dell’attenzione… insomma, ci ho visto una debolezza».

View post on X

Il lungo anno pre olimpico di quella che è stata rinominata la Kerrgebrigtsen si affaccia finalmente all’estate di Parigi 2024. Dopo il lungo inverno delle parole, a fine maggio 2024 la rivalità può finalmente tornare in pista sul tartan rosso di Eugene, Oregon, alla Boweman Mile, ribattezzata per la ricchezza del pacchetto atleti “la corsa sul miglio del secolo”. Lo scontro è aperto da una conferenza stampa in cui l’organizzazione riesce a mettere la coppia di fronte a un microfono, nella stessa stanza. Kerr taglia corto sulla richiesta di spiegazioni sull’andamento della loro relazione: «Non mi sembra che ci troviamo a una sessione di terapia matrimoniale». Su di sé, invece, è più prolisso: «Sono qui in veste di migliore al mondo, e voglio continuare su questa strada».

Kerr mantiene la promessa, e si prende tutto, di nuovo: corsa, record inglese sul miglio in 3.45.34 e un nuovo tassello con il suo nome sopra nella sfida con il rivale. Ingebrigtsen, alla sua prima uscita stagionale chiude subito dietro di lui, in 3.45.60. Se tre decimi alla prima prova, di rientro da uno stop sono ruggine c’è più che ben sperare.

È l’ultimo scontro diretto prima di Parigi. Per ridimensionare le quote di Josh Kerr - che a proposito di titoli sparati e benzina sul fuoco, in un’intervista per Citius Mag di metà luglio si definisce «il miglior mezzofondista al mondo sui 1500 metri» - agli imminenti Giochi Olimpici, Jakob Ingebrigtsen ha bisogno di una grande estate. La trova prima a Roma, con un doppio oro europeo nei 5000 e nei 1500 metri, e poi a Monaco, dove all’Herculis Meeting con un 1500 in 3.26.73 diventa il quarto essere umano a correre la distanza sotto la soglia di 3 minuti e 27 secondi.

Parigi 2024

Se prima delle Olimpiadi sembra che il pallino mediatico del gioco sia stato tutto in mano a Josh Kerr, Ingebrigtsen ha un ultimo colpo in canna. La risposta norvegese al guanto di sfida britannico è l’elezione di Ingebrigtsen ad aedo ufficiale dello status quo olimpico della nazione scandinava. La mossa di genio della royal family della velocità norvegese è una canzone pop: Ingen gjør det bedre (nessuno meglio di noi), intonata da un’inedita versione del terzetto in salsa Jackson 5 - rinominato The IngerbritZ.

Archiviata la sbornia dei 100 metri e delle scaramucce USA-Giamaica, per l’universo social dell’atletica una rivalità così spontanea, genuina, rampante come quella tra Ingebrigtsen e Kerr è un’occasione troppo ghiotta per non essere azzannata. Il contorno mediatico ha confezionato per la finale dei 1500 metri un abito di fuoco e fiamme: quello di una specie di scontro finale, una resa dei conti che pare più il main event di una pay-per-view WWE che una finale olimpica improntata alla sobrietà dei toni e alla celebrazione dei valori olimpici.

Un trailer dell’atto finale ci è stato concesso domenica 4 agosto, quando Josh Kerr e Jakob Ingebrigtsen si sono ritrovati di nuovo insieme dopo l’assaggio di fine maggio. La spunta Ingebrigtsen, che si porta a ruota nel giro di 0.16 decimi sia Kerr che Cole Hocker. C’è giusto il tempo per un ultimo giro ai microfoni, l’ultimo atto verbale della soap opera: Kerr promette la gara dei 1500 metri più difficile di tutti i tempi; Ingebrigtsen ricorda la sua indole da competitivo - che evidentemente non tutti i colleghi condividono con lui.

Con l’aria dello Stade de France carica dell’elettricità di una grande notte olimpica, allo start della finale dei 1500 metri comincia un’apnea lunga tre minuti e mezzo. È la gara che tutti si aspettavano, e che tutti volevano. Ingebrigtsen non varia il copione dell’ultima finale mondiale. Vuole fare il passo, vuole avere in mano le redini del gioco. Per ampi tratti di gara, l’unico contatto tra lui e il gruppo è il solo Thimoty Cheruiyot, che lo abbandona all’inizio dell’ultimo giro, quando il ritmo diventa davvero insostenibile, ma il gap con il pacchetto più agguerrito degli atleti è risanato. Le distanze cominciano ad assottigliarsi. Il primo a fare la sua mossa verso Ingebrigtsen è Kerr, che lo attacca all’esterno. Ma c’è un altro atleta che sta salendo a cadenza doppia rispetto a quella degli avversari: è Cole Hocker, che tra gli americani in gara non è sicuramente il più quotato tra le mine vaganti - la classifica delle possibili sorprese è guidata da Yared Nuguse.

L’ordito delle strategie salta nel momento dell’uscita dall’ultima curva. Qui anche un esteta del gesto della corsa come Ingebrigtsen comincia a fare a sportellate con Cole Hocker e lo costringe quasi a fermarsi tagliandogli la strada. È un attimo che lascia a Kerr lo spazio per attaccare il rivale. Con un ultimo disperato passo verso destra, Ingebrigtsen prova a riparare. Non basta: ha speso troppo, è risucchiato dai gorghi dell’avanzata forsennata di Kerr da una parte e Hocker dall’altra.

C’è chi nella vittoria di Cole Hocker dopo una gara che, almeno dalla prospettiva di Ingebrigtsen e Kerr, è per lunghi tratti una fotocopia della gara di Budapest dell’anno prima vede una sorta di ironia. L’enorme bomba che doveva essere lo scontro finale tra i due dominatori della scena pubblica dell’atletica leggera alla fine è stato più un palloncino carico d’aria, scoppiato da un ago affilato, insinuatosi con precisione nei punti deboli dei sui avversari. La chiosa del neo-campione olimpico è più un monito ai due litiganti che altro: «Era giusto che i titoli fossero per loro. Loro sono il campione del mondo e il campione olimpico. È stata una cosa buona che il mio percorso sia stato in sordina. Tutti nel field sanno chi io e Yared [Nuguse] siamo. Non avere tutto quel rumore attorno è stato un vantaggio».


Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura