Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Non ci sono asterischi nella vittoria dei Lakers
12 ott 2020
LeBron James e compagni sono stati la miglior squadra della bolla.
(articolo)
8 min
Dark mode
(ON)

Se ora, dopo questa lunghissima stagione e al termine di una gara-6 che si è risolta piuttosto in fretta, il titolo 2019-20 dei Los Angeles Lakers vi appare in qualche modo inevitabile, facciamo insieme uno o due passi indietro. Certo, una squadra che può contare su due giocatori del calibro di LeBron James e Anthony Davis non può essere definita un underdog, e i gialloviola sono sempre stati considerati tra le candidate più credibile al titolo. Ma ad aprile dell’anno scorso, quando lo scambio per arrivare a AD doveva ancora compiersi e il clamoroso addio di Magic Johnson aveva lasciato la franchigia in disarmo senza guida né nella dirigenza né in panchina, immaginarsi i Lakers campioni nella stagione successiva sembrava pura utopia — anche perché James era reduce dalla stagione più martoriata dagli infortuni della sua carriera e, neanche troppo sommessamente, si cominciava a parlare del tempo che passa anche per lui.

Invece il titolo che hanno alzato questa notte nasce soprattutto da quel momento di sbandamento, non solo perché ha dato loro la possibilità di creare chiarezza dirigenziale lasciando Rob Pelinka come unico responsabile della dirigenza, ma anche perché il passo indietro di un personaggio carismatico e ingombrante come Magic ha tolto un bel po’ di drama alla franchigia più chiacchierata dell’intera lega. Sembrava impossibile che i Los Angeles Lakers potessero avere una squadra normale, con un allenatore dal tono di voce pacato e dimesso, con un’identità di gioco definita, basata soprattutto sulla difesa, una gerarchia di squadra senza gelosie e tentativi di sopravanzamento, con zero chiacchiericcio in spogliatoio, lamentele sulla stampa o voci fatte filtrare ad arte ai giornalisti appostati fuori a caccia di uno scoop.

Sembrava impossibile perché di candelotti di dinamite pronti a esplodere ce n’erano a bizzeffe: la presenza di James e la pressione che mette sulle sue squadre è già di per sé un catalizzatore di attenzioni non richieste, figuriamoci nella franchigia più scrutinata e tifata della lega; il primo anno di Anthony Davis in un grande mercato e con le aspettative di vincere il titolo - lui che non aveva mai superato il secondo turno di playoff a New Orleans - era un’incognita; la presenza di vari veterani dal carattere particolare come Dwight Howard, Rajon Rondo e DeMarcus Cousins poteva creare grattacapi; l’ombra lunga di Rich Paul e dei suoi assistiti della Klutch Sports era un tema tutt’altro che secondario; e quel Jason Kidd voluto sulla panchina dalla dirigenza sembrava pronto a prendere le redini della squadra alla prima mezza difficoltà di Frank Vogel.

Insomma, il risultato più sorprendente del titolo vinto dai Lakers non è tanto che lo abbiano conquistato (per quanto non fosse per nulla scontato, vista la qualità sulla carta di squadre come Clippers e Bucks), quanto che ci siano riusciti senza momenti difficili auto-inflitti, compattandosi in maniera sorprendente attorno a un evento drammatico come la scomparsa di Kobe Bryant dello scorso gennaio. Da un momento tragico, che avrebbe potuto avere ripercussioni negative, i Lakers hanno trovato le forze per salire ulteriormente di livello, e per quanto sia brutto dover per forza citare Kobe per parlare di questa vittoria (e i Lakers ieri notte hanno fatto un buon lavoro nel non nominarlo troppo e/o invano), è inevitabile che quel 26 gennaio abbia rappresentato un momento di svolta per la narrazione del 17° titolo NBA della loro storia.

I Lakers hanno onorato la memoria di Kobe Bryant come meglio potevano.

Aver dovuto affrontare come gruppo un lutto di quella magnitudine e aver dovuto portare avanti la legacy di Kobe ha alzato ulteriormente le aspettative su di loro, tuttavia i Lakers non hanno mai provato a schivare questa responsabilità o a minimizzarla. Certo, a volte hanno esagerato, come nel caso della narrazione legata alle magliette nere imbattute per quattro gare di playoff (che gli si è poi ritorta contro in gara-5 contro Miami) o il grido “KOBE” dopo il buzzer beater di Anthony Davis in gara-2 contro Denver. Ma non era neanche semplice gestire una situazione così emotivamente prosciugante come la morte di una leggenda globale, e in generale l’intera franchigia ha onorato la memoria del suo giocatore più importante come meglio ha potuto. Chiedere di più era francamente difficile.

La squadra più forte della bolla

In gara-6 i Lakers hanno legittimato una cavalcata playoff in cui sono stati chiaramente la squadra più forte della bolla, o quantomeno quella più continua nel rendimento e completa sui due lati del campo. Non avremo mai la riprova se in condizioni normali con il pubblico, le alternanze tra casa e trasferta e i viaggi tutto sarebbe andato comunque in questa maniera, ma nelle condizioni che si sono trovati ad affrontare, LeBron James e soci hanno tirato fuori le loro qualità meglio delle altre supposte contender prima della ripartenza. Non è colpa loro se Bucks e Clippers si sono sciolte al secondo turno (anche se hanno poi battuto le due squadre che li avevano eliminati, giusto per togliere ogni dubbio) e non è responsabilità loro se alcuni giocatori chiave per gli avversari si sono infortunati (anche perché ogni titolo NBA allora avrebbe una lunga serie di asterischi, che fortunatamente non finiscono sugli albi d’oro).

È merito loro invece aver alzato il livello difensivo nel momento più importante, come fatto già nelle serie precedenti anche con avversari diversissimi come Blazers, Rockets e Nuggets (serie più insidiose di quanto le abbiano fatte apparire chiudendole sempre in cinque partite). Hanno saputo aggiustarsi e modificarsi in corsa, piegando il proprio roster attorno a LeBron James e Anthony Davis, senza perdere mai la propria identità di gioco. E proprio questa loro capacità di restare sempre sé stessi nonostante allo stesso tempo trovassero il modo per limitare i diretti avversari, cambiando quintetti e rotazioni a seconda delle necessità, è stata la qualità che alla fine li ha portati a trionfare.

Certo avere in squadra il miglior difensore della lega, capace di difendere l’avversario più forte, spesso ridicolizzandolo, e allo stesso tempo intimidire chiunque osava avventurarsi al ferro ha aiutato i Lakers a essere così versatili. Anche in gara-6 Anthony Davis ha stoppato qualsiasi cosa salisse oltre i dieci piedi regolamentari del canestro, costringendo Miami ad una prestazione da 55% al ferro a cui mancano una valanga di tiri rifiutati per paura che venissero rispediti al mittente. E se non bastasse una metà campo, anche in quella d’attacco AD è stato un rebus irrisolvibile per tutte le difese della bolla, che non avevano nessuno di così lungo, esplosivo e completo da opporgli.

L'accessorio più importante dei festeggiamenti: la maschera da sci.

Il compagno che LeBron James sognava da una vita, e che finalmente ha potuto abbracciare nella sua diciassettesima stagione da professionista. Il nativo di Akron ha per l’ennesima volta scritto gli ultimi capitoli del suo romanzo sportivo, che quando verrà chiuso avrà lo spessore di una Enciclopedia Illustrata. Il quarto titolo NBA - con tre squadre diverse -, il quarto premio come MVP delle Finals chiuse sfiorando la tripla doppia di media, ma soprattutto una leadership indiscutibile, che ha portato anche giocatori che sembravano ormai sul viale del tramonto (Dwight Howard, Rajon Rondo, J.R. Smith) e fuori dai radar NBA (Alex Caruso su tutti, ma anche la redenzione di KCP) ad essere un gruppo coeso con in testa solo l’anello.

I Lakers hanno dominato tutti gli attacchi affrontati nella bolla, per ultimi gli Heat tenuti ieri notte ad un rating offensivo da incubo (90 punti per 100 possessi). Prese finalmente le misure e sfiancati gli avversari i Lakers hanno soffocato Miami nel primo tempo, negando tutte quelle azioni lontano dalla palla che li avevano fatti soffrire nelle ultime partite (in questo l’inserimento di Alex Caruso in quintetto, +20 di plus-minus alla fine, è sembrato quasi tardivo). I Lakers hanno difeso in maniera decisamente più disciplinata soprattutto contro Jimmy Butler, arrivato con la lingua di fuori dopo le enormi prestazioni in gara-3 e 5 della serie, non casualmente coincise con le uniche due vittorie di Miami.

Ma se gli Heat hanno avuto bisogno di due prestazioni storiche del loro leader per darsi una chance e contemporaneamente approfittare di una prova sotto media da parte dei loro avversari per vincere, significa che i Lakers erano la squadra più forte di questa serie, ed è un merito che lo abbiano legittimato in gara-6 con autorità in un secondo quarto da 36-16 in cui sembravano volare mentre gli altri camminavano, veleggiando poi fino ai festeggiamenti finali per far scoppiare la bolla.

Già, la bolla. Considerando i problemi che le altre leghe in giro per il mondo stanno affrontando per portare avanti il loro business sportivo, essere riusciti a portare a termine oltre 100 giorni di questo esperimento senza neanche avere un caso di positività tra giocatori, staff e addetti ai lavori è un risultato che — un po’ come il titolo dei Lakers — ora potrebbe apparirci normale, ma non lo è per niente. Non è stato né semplice né indolore, avendo anche affrontato un momento di crisi come lo sciopero cominciato dai Milwaukee Bucks, ma aver incoronato una squadra vincitrice al termine di playoff regolari, con partite di pallacanestro vere per varietà tecnico-tattica, storyline e competitività è un risultato che nessuno dovrebbe dare per scontato.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura