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L'altra Los Angeles
29 mar 2018
LA FC, la nuova franchigia di MLS, ha grandi ambizioni, un tifo autentico e una rivalità sincera con i Galaxy. E ha cominciato il campionato alla grande.
(articolo)
18 min
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È bastata la prima gara casalinga della nuova stagione di MLS, ad Atlanta, per sfracellare l’ennesimo record di presenze. Ad assistere dagli spalti ai colpi impietosi di Miggy Almirón e Jozef Martínez sul malcapitato DC United c’erano oltre settantaduemila spettatori. Va da sé che sia stata una domenica sera molto rumorosa, quella dell’11 Marzo alla Mercedes Benz Arena: eppure, nonostante il boato continuo degli appassionati della Georgia, nonostante i tamburi e le trombe, in lontananza si poteva avvertire, insinuante, il sibilo stridente del treno dell’hype che parte da Los Angeles. La nuova squadra da seguire del campionato è anche la dimostrazione di quanto il testimone passi rapidamente di mano in mano, nella staffetta delle aspettative, negli Stati Uniti.

I losangelini sono a punteggio pieno dopo aver vinto le prime due gare della loro storia. Nel weekend, dopo aver riposato negli ultimi due turni di MLS, torneranno in campo per una sfida importantissima nel loro processo di costruzione identitaria: il derby contro i Galaxy, che giusto per tenere bassi i toni hanno appena ingaggiato Zlatan Ibrahimović. A Salt Lake City, al termine dell’ultima partita giocata, ad abbracciarsi dopo un tonante 5-1 al Real c’erano 16 calciatori che si allenano, giocano insieme (e forse si conoscono) da poco più di un mese, anche se a vederli in campo non si direbbe per niente. Se siete quel tipo di persona che si fa venire i sudori freddi di fronte alle novità, al cambio di contesti, ai progetti che partono da un’idea abbozzata sulla tovaglietta di un pub, forse per motivarvi dovreste guardare un po’ di più alla MLS.

Quella è la maxi storia di come la MLS è cambiata, capovolta, sottosopra sia finita. Con l'arrivo del Los Angeles FC. La partita contro Real Salt Lake, peraltro, è stata la prima visibile in streaming su Twitter, grazie a un accordo visionario tra MLS, Univision Deporte e il social network.

Quella tra Atlanta e LAFC promette di essere la sfida dell’anno, se non sul campo, almeno a livello simbolico. Atlanta ha messo in mostra un modello virtuoso di genesi societaria e identitaria che - surrogato dagli entusiasmanti risultati sul campo nella prima stagione, con i playoff conquistati arrivando quarti nella Eastern Conference - ha contribuito ad innalzare di una buona spanna l’asticella delle aspettative nei confronti di tutti i newcomers.

Mettetevi adesso nei panni di LAFC, che sarà chiamata quest’anno a essere la nuova Atlanta, con in più l’aggravante di rappresentare Los Angeles, con tutto quello che comporta in termini di esposizione mediatica, valore culturale, potere immaginifico. Stephen Knox, in un pezzo di qualche tempo fa su The Ringer, ha ben riassunto - modellandolo sul processo per gradi affrontato dall’Atlanta United - gli step attraverso i quali un’entità fumosa, un embrione che vive soltanto nel campo delle idee e delle progettualità, pian piano assume una consistenza organica.

Sono essenzialmente questi quattro:

1) Prendi una proprietà che non abbia il braccino corto

2) Prendi gente, nello staff, con un pedrigree

3) Investi in giocatori bravi e giovani, anziché in nomi altisonanti

4) Quando arriva il momento di attrarre fan, ricordati che avere uno stile è importante

Ovviamente LAFC ha rispettato pedissequamente ognuna delle tappe. Anzi, ha fatto di più: ha aggiunto un ideale punto zero, un prerequisito che potremmo riassumere così: "Assicurati che ci sia una ragion d’essere potente per la tua esistenza".

L'altra Los Angeles

A differenza di Atlanta e Minnesota, che hanno colmato una lacuna in termini di bacini d’utenza, insediandosi in realtà affamate di calcio e troppo a lungo sprovviste di squadre che potessero rappresentare un territorio più o meno vasto, la metropoli di Los Angeles ha sempre avuto almeno una squadra che tenesse alto il suo vessillo, fin dagli albori della MLS.

I Galaxy sono uno dei dieci club fondatori, nonché tra i più vincenti, della lega. E per quasi un lustro è esistita anche una seconda squadra, i Chivas USA, con la quale i Galaxy condividevano anche il campo di gioco, anche se a nessuno è mai sembrato si trattasse davvero di un clásico. Più, forse, la perpetuazione dell’eterno scontro USA vs Messico.

Per certi versi è proprio dall’esperienza Chivas che muove i passi la prima fondamentale mission di LAFC: dare forma materiale a un genius loci, quello della losangelinità latina (o chicana, come a volte viene definita), incapace di riconoscersi nello spirito elitario e marcatamente WASP (cioè: White, Anglo-Saxon, Protestant) dei Galaxy.

A Los Angeles ci sono 5 milioni di messicani, il gruppo minoritario di gran lunga più nutrito dell’intera California, e degli States. Nel 1998, in occasione della finale di Gold Cup tra Messico e USA, tre quarti dei 91mila spettatori presenti al Coliseum Memorial erano messicani. Una presenza complicata da ignorare, e complessa da metabolizzare.

Con il pensiero alla forte presenza e impronta latina, Don Garber, commissioner della MLS, abbracciò nel 2010 l’idea dell’emanazione statunitense dei Chivas de Guadalajara: «Abbiamo bisogno di squadre “diverse”». Fino ad allora il calcio in California era una questione per bianchi, per la middle class, per i contesti suburbani. Ma, nonostante la creazione di una squadra spiccatamente latina, le cose non cambiarono veramente. Di fatto l’esclusività dei Chivas si tradusse presto in un meccanismo di esclusione. «Se sei un giovane del sud della California e non hai un background messicano o latino», lamentava Alexi Lalas «e ti chiedi se hai la stessa opportunità di giocare con i due club di Los Angeles la risposta è no, e non so se è il tipo di messaggio che la MLS vuole dare».

Non era effettivamente quello, il messaggio desiderato. Alla fine della stagione 2014 i Chivas hanno chiuso i battenti e l’idea di una nuova seconda squadra a Los Angeles, per la MLS, non significava solo assistere alla creazione di un nuovo modello di business, alla costruzione di un nuovo stadio, alla messa in moto di un apparato comunicativo e di marketing guerrigliero. Significava anche voler andare a solleticare il ventre molle della città, fare leva sugli istinti primordiali che il calcio irrazionalmente sa risvegliare. Creare i presupposti per lo scontro, per la rivalità, per la contrapposizione.

Ancora prima della prima partita ufficiale, lo scontro tra tifoserie si è già manifestato con una dinamica decisamente street. Un murales di Carlos Vela è stato vandalizzato. A primo acchito è sembrata una vendetta cittadina - in realtà una questione che affonda nei codici e nei valori della street art.

LAFC è il negativo dei Galaxy: giocherà nel cuore pulsante di LA, visto che il Banc of California sorge a pochi passi dal Memorial Coliseum, in contrapposizione alla location suburbana dello StubHub Center di Carson. I suoi sostenitori sono millenials, immigrati di seconda generazione, chicanos, coreani. E mentre i Galaxy indossano una maglia bianca, LAFC ha scelto come propri colori societari il nero e l’oro. Una combinazione di colori che strizza l’occhio ai Raiders, un’altra franchigia sportiva capace in NFL - a metà degli anni Novanta - di guadagnarsi la lealtà incondizionata delle classi più umili, più disagiate, più “pericolose”.

Creare un forte senso di appartenenza

Tom Penn, presidente e co-proprietario di LAFC, vede il soccercome strumento di unione per le masse suburbane, collante per le minoranze: non un concetto iper-innovativo. Però almeno si sforza di portare il discorso a un livello superiore di complessità: «La questione, ora, è vedere se riusciamo a farlo in una maniera diversa».

L’approccio che il suo reparto marketing - significativamente battezzato marketing for culture and community - ha dovuto abbracciare è stato coraggioso, ma anche l’unico possibile: il punto di partenza nella creazione di identità è stato dare vita a delle "esperienze". Per intenderci: vendere meno e condividere di più. Il risultato è stato quello di infondere nella fan base un senso di appartenenza ideale, astratto, se si considera che per i primi tre anni di progetto non c’è neppure stata, fisicamente, una squadra da tifare.

“Magic” Johnson è uno degli investitori della prima ora nel progetto LAFC. In un’intervista, con il caschetto in testa nel cantiere del Banc of California in costruzione (aprirà i battenti ad aprile), sottolinea soprattutto il legame con la comunità, l’inevitabile ripercussione che la nascita di una squadra, di uno stadio, apporterà in termini di creazione di posti di lavoro: sembra più un progetto culturale e filantropico che uno sportivo. Una fondazione più che un club. Un progetto che muove i passi da una visione condivisa con i tifosi, spesso impegnati loro stessi in azioni di sostegno alla comunità.

Il lavoro del reparto marketing - guidato da trentenni con esperienze pregresse nel campo dell’entertainment, menti già al servizio di realtà come Apple o YouTube - è stato prezioso e capillare. Strada per strada, quartiere per quartiere, hanno forgiato l’immaginario e le aspettative del tifoso in divenire. Qualcuno lo definisce "neuromarketing": la creazione di una connessione emozionale a un brand, che diventerà dirimente quando il consumatore si troverà di fronte a una scelta. Nella fattispecie, la scelta è tra quale delle due squadre di LA sostenere.

Più di un anno prima dall’apertura della stagione inaugurale di MLS, LAFC aveva già venduto 14mila abbonamenti. Per uno stadio che ne dovrebbe contenere 22mila. Che ancora non esisteva, e nel quale chi avrebbe giocato, alla fine, si sapeva mica. «(I tifosi Galaxy) ci dicevano “Non avete uno stadio, non avete un allenatore”. Ma se siamo capaci di dimostrare tutto questo sostegno senza neppure uno stadio, un giocatore, un allenatore, allora siamo davvero una squadra reale» , dice un tifoso.

Ad aver funzionato particolarmente è stato il coinvolgimento della fan base in tutti i processi di autodeterminazione. «I tifosi non vogliono qualcuno che gli racconti una bella storia», dice Rich Orosco, vicepresidente esecutivo del reparto Brand & Community. «Vogliono essere parte di una narrazione collettiva. [...] Per molti versi è come una campagna elettorale. Dobbiamo promuovere la nostra visione e sperare che ci seguano».

I tifosi si sono fidati, e hanno cominciato a strutturarsi in organizzazioni e gruppi già da pochi mesi dopo l’annuncio della fondazione della franchigia, cioè anni prima che si giocasse la prima partita ufficiale. Alcuni gruppi erano semplicemente orfani dei Chivas, o sorti spontaneamente in contrapposizione ai Galaxy. Altri sono nati da zero.

Oscar Ric dei “Cuervos” racconta: «Il club ha sempre sottolineato come stessimo costruendo tutto questo insieme. Ci hanno fatto domande sul design dello stadio, su come avremmo voluto fossero le curve, che sponsor avremmo preferito. Il fatto che abbiano preso in considerazione il nostro punto di vista è incredibile». Anche la genesi della tifoseria segue sentieri particolarmente creativi. I “Relentless” si presentano come il braccio armato della tifoseria in trasferta, perché «il 90% dei nostri membri lavorano alla Southwest Airlines, e dal momento che lavoriamo per una compagnia aerea e possiamo volare praticamente gratis abbiamo deciso che vogliamo seguire la squadra in più trasferte possibili».

L’aspetto più inusuale di tutta la palingenesi di LAFC è che non si è mai posta, nei confronti dei sostenitori, con un approccio del tipo: "Questo è quello che vi vogliamo offrire". È stato ribaltato il punto di vista: "Cosa vi aspettate da questo club?". E poi, ancora più nel profondo: "Come possiamo aggiungere qualcosa alla vostra cultura del tifo?". Il risultato è stata un’accelerazione e al contempo un’intensificazione del processo di identificazione, che nella storia del soccer non ha precedenti.

Prima di tutto, una questione di business

Ovviamente LAFC non è un progetto esclusivamente culturale. Lo è, in una maniera così totalizzante e massiva come nessuna altra franchigia MLS, prima, era riuscita a fare. Ma è, innanzitutto, una questione di business. Tom Penn, un ex dirigente della NBA, è uno di tre co-proprietari di LAFC. Gli altri sono Peter Guber, imprenditore nell’area dell’entertainment che in California possiede già due altre franchigie sportive, gli LA Dodgers e i Golden State Warriors, e Henry Nguyen, capitalista di rischio di origini vietnamite, il primo ad aprire un McDondald’s a Ho Chi Minh.

Nguyen è il vero ideatore del progetto: dopo aver conosciuto Don Garber al Global Sport Summit di Aspen, organizzato da Penn, nel 2012, ha coinvolto nel progetto di portare una franchigia MLS nell’area losangelina l’azionista di maggioranza del Cardiff City, Vincent Tan, e il proprietario del QPR Ruben Gnalingam. Penn, che nel frattempo si era innamorato del soccer assistendo a una partita in casa dei Portland Timbers, ha raccolto la proposta con entusiasmo.

La cordata degli investitori si è poi allargata includendo al suo interno la storica calciatrice statunitense Mia Hamm, Magic Johnson, l’ex campione di baseball Nomar Garciaparra e il fondatore di YouTube Chad Hurley. Un insieme disomogeneo di esperienze, retroterra e competenze, che sembrano costituire la vera spina dorsale, il vero collante di tutta l’esperienza LAFC.

Se volete seguire in diretta la costruzione del Banc of California Stadium.

Non esistono formule di successo, solo tentativi di avvicinarcisi, per approssimazione. A Los Angeles, come in ogni posto in cui si comincia a edificare una franchigia partendo dalle fondamenta, hanno provato ad abbinare a una pianificazione astuta lo spirito di adattamento che richiede l’improvvisazione. Più che nelle strategie, la "losangelinità" affiora soprattutto nei modi: un approccio glocal, ammantato di sensibilità urbana, uno spirito familiare che forma sostenitori emotivamente coinvolti, prima che semplici tifosi.

Secondo poi, una questione di campo

Alla pianificazione del contesto, a un certo punto, deve però necessariamente subentrare il meccanismo selettivo che porta alla creazione della squadra. Bob Bradley può non essere il tecnico più entusiasmante o suggestivo, è una colonna filosofica del calcio americano, oltre che un bravissimo formulatore di metafore. Per spiegare come ha gestito l’evoluzione fondativa della squadra cita un concerto di Bruce Springsteen a Lipsia, in cui il Boss, dopo aver ricevuto dal pubblico un cartello con il titolo di una canzone che avrebbero voluto sentir suonare (“You never can tell” di Chuck Berry, significativamente), comincia a relazionarsi con la sua band, accennare accordi, intonare la melodia, che solo quando tutti sono sintonizzati sulla stessa onda emotiva può deflagrare in tutta la sua compiutezza.

Tutto comincia da un’idea. «E mano a mano che aggiungi giocatori», dice Bradley, «devi rivedere la tua idea di partenza. Vuoi una squadra divertente, capace di controllare il gioco, di crearlo. Ma ci sono mille sfumature per farlo». E calciatori che compiono scelte diverse, in maniera diversa.

Il direttore sportivo, o per meglio dire il capo delle operazioni sportive, è John Thorrington. Nato in Sudafrica, Thorrington è stato uno dei primi calciatori americani a giocare in Europa. A diciassette anni ha rifiutato la carriera universitaria a Stanford e ha firmato per il Manchester United. Non è mai sceso in campo in un match ufficiale ma si è allenato regolarmente con la prima squadra, dove è rimasto folgorato dalla saggezza tattica di Sir Alex Ferguson, prima di disimpegnarsi in una parabola stranissima, in cui ha racimolato pochissime presenze in giro per l'Europa, con Bayer Leverkusen, Grimsby Town e Huddersfield. Un’esperienza calcistica europea più simile a un continuo stage, che a una carriera da professionista.

La prima idea di calcio di LAFC è quella di Thorrington. A un anno di distanza dall’esordio, nel gennaio del 2017, quando ancora la rosa era un foglio bianco, diceva: «Non voglio darmi una scadenza e prendere il miglior allenatore possibile all’avvicinarsi della scadenza. Voglio il migliore per noi. E se questo significa dover aspettare un altro mese, lo faremo». Il suo obiettivo era quello di costruire uno staff tecnico che avesse, oltre a tutti i requisiti che una buona squadra deve avere, una personalità eminentemente losangelina. Che, nelle sue parole, significa un po’ fatta di glam e un po’ intrisa di grinta. «Los Angeles è un luogo in cui regna l’estetica», diceva. «Dobbiamo bilanciare sostanza e stile. E dare vita a una squadra che i tifosi si divertono a seguire perché incarna il profilo dei nostri tifosi».

Il potere dell'immedesimazione

Nonostante dal 2015 si siano rincorsi nomi più o meno plausibili di calciatori in predicato di diventare le nuove stelle di LAFC (si è parlato insistentemente di Rooney, e anche di Zlatan Ibrahimovic, finito poi dalla parte "sbagliata" della città), è sembrato subito chiaro che il primo designated player della nuova franchigia sarebbe dovuto essere l’epitome dello spirito della squadra. Per questo l’obiettivo si è soffermato a lungo su Javier “Chicharito” Hernández: sufficientemente nel prime time della sua carriera, perché ormai la convinzione che la MLS sia un cimitero degli elefanti è abbondantemente superata; abbastanza alla ricerca di un rilancio; decisamente vicino al cuore pulsante dell’anima latina del club.

Invece, a ottobre, a essere annunciato come primo acquisto della storia di LAFC è stato Carlos Vela. Un volano perfetto in termini di predisposizione al marketing. Ma anche «un giocatore che riafferma tutto quello che è il nostro club: i suoi valori, la connessione con la città, un calciatore che mette in chiaro com’è che vogliamo che sia il nostro calcio», nelle parole di Bradley. All’arrivo in aeroporto, Carlos è stato accolto dai tifosi che hanno intonato “Cielito Lindo”, una canzone popolare messicana.

A distanza di 13 anni dalla sua esplosione al Mondiale U17 giocato in Perù, che vinse con il Messico della generazione dorata di cui facevano parte anche Gio Dos Santos e Héctor Moreno, Carlos Vela è alla ricerca di un contesto che possa rigenerarlo. Il dipanarsi della sua carriera in Europa non è mai stato completamente all’altezza delle aspettative fomentate in Perù: Vela ha sempre galleggiato in uno specchio d’acqua riparato dalla barriera corallina, senza mai spingersi oltre, con il risultato finale di rimanere troppo piccolo per il mare aperto. Nel 2011 ha lasciato temporaneamente anche la "Tri", come i tifosi chiamano la nazionale messicana, per non sentirsi psicologicamente preparato a rappresentare il suo paese.

«Vela viene criticato per tutto», ha detto lui stesso, riferendosi a sé in terza persona. «Qualsiasi cosa decida, sempre ci sarà qualcuno che penserà male o lo criticherà». A Los Angeles vuole riconquistare, in primo luogo, la fiducia in se stesso. Arriva in una squadra, della quale è il leader tecnico incontrastato, nella quale vuole tornare a sentirsi importante, al centro del progetto tecnico e delle attenzioni del pubblico. Resterà da vedere come convivrà con la necessità intrinseca di vincere subito: un ideale con il quale non si è mai trovato estremamente a suo agio.

Il primo gol non è un gol, ma un golaaaaaaaaaaazo.

Ma al di là della facile retorica nella quale si rimane imbrigliati all’arrivo in una nuova squadra, oltre la volontà di scrivere la storia, Vela a Los Angeles insegue anche obiettivi più secolari, a partire dalla riconquista della fiducia di Osorio, e una maglia della "Tricolor" al prossimo Mondiale. «A giugno gli altri saranno stanchi; io, invece, sarò nel pieno della mia freschezza fisica», ha sottolineato con furbizia, e neppure troppo a torto. Già nelle prime partite Vela ha dimostrato di essere di un livello decisamente superiore rispetto alla media, ma anche particolarmente ispirato a prescindere, e soprattutto calato appieno nel mood di stupire e divertire il suo pubblico: si aggira sul campo con l’autorevolezza e lo swag di uno Snoop Dogg con la maglia numero 10.

Nell’idea di Bradley, Vela è il perno centrale delle manovre d’attacco, attorno al quale ruotano il costaricano Ureña, il giovane ghanese Latif Blessing e Diego Rossi, ventenne uruguaiano con il quale Vela - che probabilmente vede nel giovane prospetto charrúa una specie di se stesso che sta facendo le scelte giuste - ha subito instaurato un feeling calcistico impressionante.

Rossi è la vera sorpresa di questo inizio di MLS, e allo stesso tempo la riconferma di una dinamica che, forse, non è ancora stata elaborata e metabolizzata nella maniera giusta. Il fatto che un prospetto così giovane abbia scelto gli Stati Uniti e non l’Europa è abbastanza eloquente di come la MLS sia percepita oggi al di fuori della MLS, soprattutto in Sud America: non solo una fonte di reddito preziosa, quasi all’altezza di Cina ed Emirati, ma anche un trampolino di lancio anziché un "buen retiro", in cui maturare fisicamente e tecnicamente (non dimentichiamo che quest’anno, in MLS, è arrivato anche il giovane argentino Ezequiel Barco, che agli ordini del “Tata” Martino, ad Atlanta, potrà sicuramente maturare più di quanto avrebbe fatto scaldando qualche panchina europea) prima di affondare il colpo alla loro carriera e attraversare l’Oceano. Dopotutto LA sembra essere più di ogni altro quel tipo di posto in cui nessuno sembra voler piantare le tende, e nasconde una borsa sotto al letto.

A Los Angeles, Rossi è arrivato grazie all’intuizione dell’ex attaccante colombiano dei Galaxy Juan Pablo Angel, oggi consulente per il mercato latino per LAFC. L’impatto è stato devastante: prima di lui soltanto un altro rookie era riuscito a segnare nelle prime due partite della storia di una nuova franchigia: Fredy Montero, nel 2009, con Seattle. Per restituire una misura di quanto sia stato centrale nel rendimento finora di LAFC, basta osservarlo nel match con Salt Lake: due gol e tre assist, un coinvolgimento pressoché totale nella manovra offensiva della sua squadra.

Se Vela e Rossi continueranno su questi ritmi, se l’aura patinata di LAFC riuscirà a uscire indenne dallo scontro col suo doppelgänger cittadino più longevo, forse la MLS avrà trovato un nuovo modo per arricchire di significato un campionato che sta diventando di anno in anno sempre più complesso. La rivalità tra le due squadre appare davvero sincera, meno plastificata di quanto non sembri a uno sguardo esterno tutto quello che si muove a Los Angeles, come piaceva ripetere a Andy Warhol.

«LA è un microcosmo degli States. Se LA crolla, crollano gli States»: è una frase di Ice-T, e non vedo perché non debba essere vera anche la formulazione opposta. Los Angeles potrebbe riuscire dove New York ha fallito, imporsi come la nuova frontiera del soccer yankee, contagiare il paese con i suoi pionieri in maglia nero e oro, sponsorizzata da YouTube.

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