Per salutare al meglio il 2017 abbiamo raccolto le fotografie dei momenti che hanno segnato l’anno, per archiviarle nel nostro album dei ricordi. Qui trovate gli altri momenti già pubblicati.
L’Estadio Olímpico di Quito è un gòlgota a 2850 metri sul livello del mare, arena incastonata nelle Ande a metà strada tra la terra e il cielo. Lo stadio è intitolato ad Atahualpa, figura ambigua della cosmogonia Inca, re fedifrago ma anche condottiero indomito, sovrano ribelle con i pregi soprannaturali della divinità, e le debolezze terrene dell’uomo.
La sera dell’11 ottobre 2017, l’Estadio Olímpico è un proscenio pronto ad assumere le tinte fosche del patibolo: Leo Messi vi entra trascinandosi dietro la croce dell’incombenza, sulle spalle l’urgenza di una Passione da espiare. L’Argentina non è mai stata così vicina a non qualificarsi per un Mondiale. Ha vissuto parentesi buie e sconfitte cocenti, eppure non è mai successo che non si sia qualificata alla fase finale, tanto meno da quando la sua maglia numero dieci viene indossata da uno dei calciatori più forti della storia del calcio, cioè da un trentennio; o da quello che qualcuno pensa sia il più forte in assoluto, cioè da una dozzina di anni.
Foto di Pablo Cozzaglio / Getty Images
A tremila metri sul livello del mare, una sera di primavera, può capitare che ogni principio della fisica si ritrovi sovvertito, che la pressione non s’abbassi ma al contrario spinga, spinga comprimendo il torace. Manca l’ossigeno, si vive in apnea. «Ti tremano le gambe? Ti batte il cuoricino?» chiedono i telecronisti.
Dopo il pareggio in casa, alla Bombonera, contro il Perù, l’Argentina è costretta a vincere. Di fronte ha l’Ecuador già eliminato, che per la prima volta dopo dodici anni non è riuscito a qualificarsi al Mondiale. In Argentina nessuno ha voglia di parlare di cicli che finiscono, fondamenta da ricostruire, non di fronte al dramma incombente di un’immagine dalla portata storica, il più forte, l’eroe, il semidio piegato sulle ginocchia, sconfitto. L’abbiamo costruita tutti, nella nostra testa. Un’immagine che ci spaventava ed eccitava allo stesso tempo. La paura e la voglia irrefrenabile di essere testimoni del fracaso più grande.
Nell’attesa si annida una rabbia latente. Ci si avvicina alla gara con la riottosità nel cuore. Dopo la sconfitta in Copa América Centenario, Messi aveva lasciato la Selección. Poi è tornato, certo, come torna il figliol prodigo della parabola, o chi ha un conto da saldare nelle serie tv piene di spari. Messi è tornato richiamato da Bauza, ma non è cambiato poi molto. Neppure quando Bauza è stato esautorato, rimpiazzato da Sampaoli. Perché la storia di Messi in Albiceleste è sempre stata una storia di delusioni, di aspettative mai completamente soddisfatte. Jorge Lanata, scrittore e opinionista stimato, pacato nei toni e acuto nelle intuizioni, lo ha definito «il migliore al mondo e il peggiore dell’Argentina».
Anche se peggiore, in realtà, Messi non è mai. Neppure quando la squadra sembra non appartenergli, incapace di farsi guidare. A meno che non si decida di sposare la visceralità della vulgata, secondo la quale sei il migliore se sei sempre decisivo, oppure non lo sei mai.
«Entra Messi. Entra l’Argentina. Arriva il calcio»: così accompagnano i telecronisti l’ingresso in campo del suo condottiero, della squadra. Come fossero due entità distinte, l’una suddita dell’altra.
Nelle ultime partite, sotto la guida di Sampaoli, l’Argentina ha dimostrato di non avere un’idea di gioco coerente né strutturata. L’unica tattica limpida è quella di passarla a Messi, e vedere che succede, con un abbandono all’inteluttabilità che non si vedeva dai tempi del Messico, del 1986.
Foto di Juan Ruiz / Getty Images
Durante l’inno Messi tiene la testa bassa, come in chiesa durante la comunione, in raccoglimento. Ascolta i compagni cantare assumendo una postura innaturale, penitente, come se il collo gli si fosse spezzato sotto la pressione, «o juremos con gloria morir», perché si tratta di giocarsi la dignità, la faccia, qualcosa di più, un sentimento che sfugge alla razionalità dell’equilatero costruito sui vertici del calcio, della Nazione, del successo.
A Quito c’è la luce delle serate fresche di primavera; un vento leggero e l’umidità del crepuscolo distorcono le luci, l’aria rarefatta toglie lucidità.
Dopo 39 secondi Mascherano sbaglia un lancio. La palla termina tra i piedi di Aimar, centrale ecuadoregno coi piedi meno buoni dell’omonimo “Payaso”, che lancia in profondità; Romario Ibarra scambia con Ordóñez, si intrufola nell’area Albiceleste e segna. Nessuno sembra voler credere sia successo davvero.
Messi è stato accolto in Ecuador con l’atmosfera festante e guardinga del Cristo che entra a Gerusalemme. In Argentina, invece, hanno dedicato gli ultimi giorni a frantumare la sua immagine in mille pezzi, cercando poi di ricostruirla come in un puzzle indecifrabile. Hanno detto che «gli pesa la maglia addosso», che certe debolezze, sciatterie, prestazioni scialbe con il Barcellona non se le permette. Che è «dannoso per la Selección».
Il primo scemo del villaggio, dopo essersi alzato dal letto, la prima cosa che ha fatto nell’ultima settimana, negli ultimi mesi, mentre la casa andava in pezzi, è stata parlare male di Messi. Il primo degli opinionisti sportivi, uguale. Stessi concetti, espressi con similarità di contenuti e modi. Dev’essere la rabbia, e la paura, che ti fa incarognire così, che ti fa venire il cuore con le unghie nere.
Quando Messi tocca il primo pallone della partita i suoi sono già sotto, e sono passati soltanto tre minuti: ognuno dei compagni l’ha già sfiorata almeno una volta.
Sette minuti più tardi innesca Di María: il “Fideo” affonda sulla sinistra e gira un pallone che a prima impressione sembra rotolare troppo lentamente verso il centro dell’area, dove Messi sta sopraggiungendo; e sarebbe effettivamente lento se Messi decidesse di andarci con il destro, tentare il colpo di sponda, aprire il piede a ventaglio per indirizzare la palla sul secondo palo, mentre invece ci si avventa con l’interno sinistro, ed è un tocco destabilizzante, d’anticipo, d’astuzia, di resurrezione.
«Mi fa male il cuore», dice il telecronista. «Mi fa male il petto, mi fa male l’anima».
La partita contro l’Ecuador è stata la più maradonesca della carriera di Messi, non foss’altro in maglia albiceleste. Quella in cui è risaltato più prepotentemente il suo carattere strabordante, il carisma totalizzante.
«Dove sono i giocatori che si mettevano la maglia della Nazionale e sfondavano tutto?», si chiedeva solo pochi giorni prima Daniel Mollo, l’autore della sfogo diventato virale, in un turbinio sciovinista per Maradona e i Bei Tempi Andati.
Messi, a Quito, si è messo la maglia della Nazionale. Poi ha sfondato tutto.
Leandro Erlich, un artista argentino, nel 2015 ha inscenato una performance-installazione dal forte valore simbolico. Ha coperto l’apice dell’obelisco che si trova all’intersezione tra Avenida Corrientes e 9 de Julio, e di fronte al MALBA ha fatto installare una cuspide simile in tutto e per tutto a quella posta sulla sommità del monumento. Dal suo interno, osservando le finestre, i visitatori potevano osservare per la prima volta Buenos Aires dall’alto. Il significato profondo era che i simboli sono fatti per essere destrutturati, e che anche quelli più irraggiungibili, a un certo punto, possono (e dovrebbero) diventare accessibili.
Dopotutto era questo che gli chiedeva il suo Paese: aprirsi alla comunione ecumenica, compartecipare, trascinandoli. Quando al 19’ ruba palla, sradicandola dai piedi di un difensore, per poi portare l’Argentina in vantaggio, le nebbie del dubbio e del rancore si stanno già dissipando. «Te amo genio, genio, genio, genio».
Diego Simeone, in conferenza stampa, pochi giorni prima che il suo Atlético affrontasse il Barcellona, ha confessato di non aver mai dubitato che l’Argentina potesse qualificarsi. Dice di aver guardato la partita con serenità, perché sapeva che Messi avrebbe fatto quello che gli argentini gli chiedevano, che era poi, alla fine della fiera, quello che voleva lui.
Perché se c’è un’impressione che fuoriesce chiara dalla serata di Quito è che Messi abbia fatto esattamente qualsiasi cosa volesse: una delle poche prestazioni con la maglia dell’Argentina in cui è sembrato todopoderoso, onnipotente. Un’aura che trasuda dalla giocata che al 17’ del secondo tempo regala all’Argentina la tranquillità della qualificazione. Uno, due tocchi. Al terzo un pallonetto leggero. «Perdonali, Messi, perché non sanno quello che fanno» sussurra il telecronista due minuti più tardi, quasi pentito di aver dubitato di lui.
Quando l’arbitro fischia la fine, Messi è l’ultimo giocatore a toccare il pallone, come se spettasse a lui, per volere divino, riavvolgere il firmamento alla fine dei tempi, come fanno certi angeli negli affreschi medievali. Paredes, che è al suo fianco, lo abbraccia e pare volerlo nascondere, tenerlo per sé, portarlo a casa come si fa con le conchiglie dei posti esotici che visitiamo, e a cui rimaniamo indissolubilmente legati.
Al centro del campo, sommerso da uno tsunami d’entusiasmo, Messi festeggia con i compagni. I salti e gli abbracci continuano per un po’, anche dopo che Messi ha già preso la via degli spogliatoi, circondato da fotografi e uomini della sicurezza, emissari della federazione e poliziotti.
Foto di Juan Ruiz / Getty Images
Claudio Tapia, il presidente dell’AFA, lo aspetta alla fine del tunnel, nella pancia dello stadio. Lo abbraccia e lo accarezza con una delicatezza che non sapresti riconoscere a quelle mani così grandi.
Mani callose, mani terrene, alle quali vien voglia di invidiare l’opportunità che hanno di sfiorare un’iridescenza soprannaturale: la stessa che a noi è stato concesso solo di osservare con gli occhi, da lontano, eppure col rischio di rimanerne abbagliati.