Jedi Mind Tricks
Mentre l’intera NBA si godeva l’estate di riposo, Jabari Parker prendeva l’unico volo diretto che collega la città di Milwaukee con la capitale del Perù, Lima. Nel sedile accanto al suo c’era Suki Hobson, la nuova trainer dei Bucks e specialista nella rieducazione delle articolazioni del ginocchio. Nel suo rivoluzionario piano di recupero, tra esercizi pliometrici e dorsali, ha trovato spazio per un viaggio last-minute insieme al suo protetto, seconda scelta assoluta del Draft del 2014, il nuovo campione che doveva, nei sogni dei tifosi, caricarsi la squadra sulle spalle e iniziare una lunga e complicata risalita nei ranghi della lega.
Invece, durante una gara a Phoenix il 15 dicembre 2014, mentre correva verso il ferro avversario tra quattro maglie Suns, spostandosi da sinistra verso destra nel più classico degli eurostep, il piede d’appoggio si inchiodò al parquet e il ginocchio si torse come se fosse stato montato al contrario. Rimase a terra un paio di minuti, poi venne sollevato di peso e portato a braccia dentro lo spogliatoio dai suoi compagni di squadra. Rottura del legamento crociato anteriore. Fu la fine della sua stagione da rookie, dopo sole 25 gare di regular season. E mentre Milwaukee volava verso un’inaspettata post season, a lui toccava solo osservare a bordo campo.
Quando a gennaio poi la squadra si imbarcò verso Londra per giocare contro i Knicks in uno dei Global Game che da alcuni anni l’NBA usa per allargare ancor di più i propri confini, Jabari rimase nel Wisconsin. Per lui il trekking tra le Ande rappresentava un risarcimento per quel viaggio perso a inizio anno e un’occasione per allontanarsi, anche solo per qualche giorno, dagli States. Continuare la riabilitazione sotto il cielo peruviano ha aiutato Jabari a staccare la spina e a non farsi travolgere dal pessimismo.
Per Suki le lunghe camminate in altura non avevano solo uno scopo turistico. Servivano innanzitutto per rinforzare le gambe, rimaste troppo tempo inattive, e per far lavorare il cuore in lunghi sforzi prolungati senza dover ricorrere al meccanico uso del tapis roulant. Inoltre i sentieri di montagna con tutte le loro insidie, i cambi di pendenza, i terreni sconnessi, rappresentavano una sfida soprattutto mentale per rimanere concentrato su ogni passo lungo tutta la durata dell’escursione, per non farsi sorprendere dalle possibili trappole disseminate dalla natura, per stare sempre in the game, come si direbbe in termini cestistici.
Jabari, grande appassionato di Star Wars, l’ha definita come la sua missione Jedi, come se il Perù fosse il suo personale Dagobah nel quale scoprire tutti i segreti della Forza. «In a dark place we find ourselves, and a little more knowledge lights our way» diceva Yoda al suo giovane Padawan, quasi ricalcando le parole che il giovane Jabari sentiva spesso quando andava a giocare a basket con il fratello Christian.
Un canestro in chiesa
I Parker hanno avuto una relazione con il gioco diversa rispetto a molti loro coetanei: per loro il campetto in cemento sotto casa era off-limits. Secondo i genitori, questi angoli d’asfalto nella giungla della Windy City erano troppo pericolosi e per papà Sonny e mamma Lola il posto in cui crescere nel modo migliore la propria prole era situato al 5200 di University Avenue, Chicago — l’indirizzo della più vicina chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, o per comodità chiesa mormone.
Perché mamma Lola è una delle poche donne di colore ad aver abbracciato la variazione sul tema cristiano proposta quasi due secoli fa dal predicatore e massone Joseph Smith. Suo nonno è stato il secondo tongano battezzato dai missionari mormoni durante la loro prima missione evangelica nell’isola polinesiana e la famiglia negli anni ha seguito la nuova fede del patriarca. È quasi superfluo aggiungere che Sonny Parker la incontrò per la prima volta dentro un grande magazzino di Salt Lake City — lei studentessa a BYU, lui giocatore dei Golden State Warriors alla ricerca di una camicia oversize.
Nonostante Sonny non sia convertito alla fede delle moglie, ha frequentato con lei le funzioni mormoni e le ha delegato anche l’educazione dei figli. Jabari quindi nello zainetto Nike, oltre a un paio di Jordan e alla canotta da gioco, ha sempre con sé The Book of Mormon, il testo sacro scritto da Smith che affianca la Bibbia.
A Simeon, la sua High School, c’erano due mormoni su 1.588 studenti, e lui era l’unico di colore: «Dovevo spiegare spesso che non tutti i mormoni vengono dallo Utah e che non sono tutti bianchi. Tutti pensano che io sia diverso, ma diverso in modo positivo. Sono molto felice di ciò, la mia fede mi aiuta a mantenere i piedi ben saldi sulla terra».
C’è inoltre un ulteriore aspetto da non disprezzare. Come ogni chiesa mormone, anche in quella frequentata dai Parker, contrapposto all’altare oltre l’ultima fila di sedili di legno, è installato un campetto in miniatura, un’oasi laica in linoleum in un tempio di preghiera. Perché per i seguaci del movimento di Joseph Smith, i luoghi di culto non sono semplicemente posti da frequentare nei tempi comandati dai riti ecclesiastici, ma spazi destinati alla collettività, in cui i fedeli possono spendere anche il loro tempo libero. È un modo per tenere insieme la comunità, dicono. Per farla crescere sotto lo stesso tetto.
Per i Parker questa comunità si è presto trasformata nella loro seconda casa. Subito dopo la scuola il tragitto portava a quel campetto nel retro della chiesa e spesso restavano lì a sfidarsi in infiniti uno contro uno fino a quando i genitori non li andavano a recuperare. A volte scappavano nella notte e andavano a finire una qualche partita rimasta incompiuta a causa dell’intervento patriarcale.
Grazie a questo allenamento ossessivo, lontano dalla confusione in molti casi violenta del playground, il gioco di Jabari, fino dalle scuole medie, era estremamente rifinito, privo di ruvidezza. Nonostante l’altezza, sapeva portare la palla come il più abile dei playmaker e tirava con una naturalezza quasi innaturale. Poi c’era la componente fisica strabordante a renderlo un predestinato. Ma un predestinato che pochi conoscevano.
The best High School player since LeBron James Is...
Per la città di Chicago è stato come scoprire un diamante grezzo in una cripta sotterranea, un Gauguin nascosto dietro una crosta dal rigattiere. Quando Parker atterrò nell’universo delle High School chicagoan era già una superstar in the making. Venne reclutato — o meglio, come dirà il suo futuro Coach Robert Smith, Sonny e Lola reclutarono per Jabari — uno dei più prestigiosi programmi dello stato dell’Illinois: Simeon Career Academy.
Sotto la guida di Smith a Simeon pochi anni prima aveva giocato e vinto quello che Jabari considerava il suo idolo, il figlio prediletto della Windy City, colui che ha raccolto l’eredità di MJ ai Bulls e che a quel tempo veniva acclamato dallo United Centre come futuro MVP. Per ogni ragazzino cresciuto nella Chicago di quegli anni, Derrick Rose è l’epigone sulla quale confezionare le proprie ambizioni. E per chi indossa la stessa canotta che lo ha condotto a due storici titoli nazionali rappresentava un ulteriore stimolo — e allo stesso tempo un’ulteriore pressione.
Jabari non solo accettò la sfida ma la stravinse, complice anche l’intervento di Coach Smith che per la prima volta ruppe con la tradizione del suo predecessore, lo storico Bob Hambric, secondo la quale nessun freshman poteva far parte della squadra (no, neanche Derrick Rose). Tutti volevano veder giocare Jabari: era lui la stella, era lui l’attrazione, era lui che vendeva i biglietti. E così insieme al suo amico Kendrick Nunn (ora a Illinois) divenne il più giovane titolare per Simeon.
Nelle sue quattro stagioni liceali, la squadra di Smith chiuse con il record complessivo di 118 vinte e 15 perse. Vinse il torneo al suo primo anno e lo rivinse l’anno successivo eguagliando il back-to-back di D-Rose. Entrando nella stagione 2011-12, Simeon era la squadra numero uno nella nazione per ESPN e Parker il suo leader. Arrivarono all’ennesima finale e, nonostante Proviso East costrinse i Wolverines a una continua rimonta giocando la partita della vita, Jabari conquistò il terzo titolo consecutivo.
Era il primo non senior a vincere il premio come miglior giocatore dello stato dell’Illinois negli ultimi 32 anni. Venne inserito in ogni tipo di quintetto in giro per l’America. Finì sulla copertina di Sports Illustrated con lo strillo di “Miglior giocatore liceale dai tempi di LeBron James”. La lista di college che gli offrirono una borsa di studio era più lunga dell’elenco telefonico di South Shore, il quartiere di Chicago in cui abitava. Eppure doveva ancora iniziare il suo ultimo anno di scuola — quello che avrebbe dovuto certificare la sua consacrazione, se ce ne fosse stato ancora il bisogno.
E invece l’anno da senior di Jabari fu il più difficile e complicato della sua carriera, almeno fino a quella serata di Phoenix. Prima di iniziare l’ultima stagione con i Wolwerines venne convocato per la selezione Under 17. Jabari era la stella del Team USA ai Mondiali che si svolgevano in Lituania, la squadra era la chiara favorita e rispettò i pronostici sconfiggendo in finale l’Australia di Dante Exum con un rotondo 95-62. Parker ne segnò 12 in 14 minuti, ma ricevette brutte sensazioni dalla pianta del piede destro e chiese all’allenatore di essere sostituito. Disse che quando appoggiava il piede a terra gli sembra di poggiarlo su un letto da fachiro. Finito il Mondiale lo portarono subito a fare le lastre, e l’esito confermò ciò che in molti temevano: frattura nella parte anteriore del piede destro.
Jabari sperimentò l’esperienza più dolorosa della sua vita: per la prima volta dovette passare svariati mesi senza giocare a basket. «Fu davvero difficile e deprimente per lui non poter giocare» ha ammesso Sonny. «Gli dicevo che usare il proprio corpo è come andare in bicicletta: le cose che hai imparato a fare ti ritornano indietro se lavori duramente per ottenerle».
La squadra se la cavava bene anche senza di lui, veleggiava verso l’ennesima post-season ma Jabari sapeva di doversi far trovare pronto nel momento più importante della stagione. Passò tutte le giornate con i suoi compagni, partecipando agli allenamenti anche solo per portare l’acqua o gli asciugamani, poi, quando i genitori andavano a dormire, verso mezzanotte, scendeva giù dal letto, apriva la porta di casa e cominciava a correre per le strade di Chicago, dove a dicembre il sudore non faceva neanche in tempo ad appiccicarsi alla maglietta che si era già congelato. Poi tornava a casa, si metteva a letto e puntava la sveglia alle 5:30, l’ora in cui tre volte a settimana si svegliava per ringraziare il Signore per avergli concesso un altro mattino.
Quando finalmente ricevette il via libera per tornare sul parquet, la sua voglia di competere era talmente esasperata che il torneo diventò quasi una passerella. Trascinò Simeon alla quarta finale in quattro anni e la sfida contro Stevenson High School fu praticamente inesistente, con Simenon a dilagare 58 a 40. Un trionfo. Mentre tutti i giocatori festeggiavano al centro del campo, uno rimase in panchina con la testa che scompariva tra le mani.
Poi si girò verso gli spalti dove c’era Sonny. «Mio padre non è stato in grado di seguire questa stagione come le altre. Quest’anno volevo mostrargli quanto sia felice di vederlo qui anche se è in dialisi. Il solo fatto che sia riuscito a venire a vedere la partita è straordinario».
L’importanza di ripartire, di superare le difficoltà che la vita ti mette davanti senza perdersi nel pessimismo e nell’autocommiserazione: questo era il messaggio della medaglia che Jabari regalò al padre a fine gara. Una lezione che sarebbe diventata nuovamente utile quasi due anni dopo.
The Coach K Experience
Essere il prospetto numero uno della Nazione è un po’ come essere ossessionato dagli acquisti online: il postino della tua zona sa che ogni mattina si dovrà svegliare e consegnare al tuo indirizzo gran parte delle missive che ha in borsa. Tra tutte le lettere che i Parker trovano ogni giorno nella cassetta della posta spiccano quelle scritte dalla mano di Mike Krzyzewski, per tutti Coach K., colui che da quasi 40 anni guida il programma collegiale più esclusivo d’America.
Duke University negli anni è divenuta non solo la meta dell’élite bianca dell’East Coast, ma anche il possibile sogno di selezionati afro-americani provenienti da famiglie a denominazione controllata. Per un ragazzo di città l’occasione di entrare a far parte di questa ristretta cerchia è irripetibile. Jabari sapeva quanto Durham fosse il trampolino giusto per planare in NBA nel miglior modo possibile, ma allo stesso tempo non voleva abbandonare i luoghi dov’era cresciuto. Non per pigrizia o nostalgia, ma perché, come quando scelse Simeon, bisognava dare indietro qualcosa alla comunità. Inoltre Sonny era in dialisi e avrebbe voluto evitargli lunghi viaggi per poterlo veder giocare. Rimase indeciso con Michigan State, che poteva contare su un grande coach come Tom Izzo, su una grande tradizione, su molti ragazzi che provenivano da Chicago e che, soprattutto, distava solo tre ore da casa.
Il 18 ottobre 2012, 48 ore prima che Jabari annunciasse il suo impegno verso un college, Krzyzewski si presentò davanti alla porta di casa Parker. Gli mise in chiaro quali erano i traguardi che si sarebbe dovuto porre se avesse deciso di vestire il blu dei diavoli: Giocatore dell’anno, Campione nazionale, prima scelta del Draft. Jabari sorrise e accettò.
Le aspettative erano alte, ma Jabari le rispettò quasi tutte. Segnò più di 20 punti nelle prime sette partite, la seconda delle quali nella sfida con Kansas, il college di Andrew Wiggins. Si giocò allo United Center, il campo di casa per quelli con residenza a Chicago: Parker praticamente da solo tenne in gara Duke con 27 punti e 9 rimbalzi. Con la partita ancora sul filo nell’ultimo minuto fu costretto a spendere il suo quinto fallo su Wiggins lanciato in contropiede. Perso il loro miglior marcatore, i Blue Devils persero anche la partita. Tutti gli osservatori rimasero però impressionati dal gioco del freshman locale.
Per Coach K. Jabari non doveva lasciarsi inscatolare in un ruolo o in una definizione: doveva giocare come se avesse in mano le chiavi della partita per 40 minuti filati. E Jabari eseguì: segnava in tutti i modi possibili, correva in contropiede, asfaltava gli avversari in post, tirava da tre, gli schiacciava in testa.
Così Parker chiude la permanenza di Maryland nella ACC.
Purtroppo la squadra intorno a lui non era competitiva come ci si aspettava, poiché mal bilanciata e senza peso sotto canestro. Duke chiuse la stagione con un non esaltante 26W-8L e ricevette una terza testa di serie per il torneo. L’esperienza di Parker a Duke però finì nel peggior modo possibile, perché i Blue Devils vennero sconfitti al primo turno da Mercer, in un upset che fece gongolare mezza America.
Per Jabari fu una batosta tremenda e per un momento pensò anche di tornare a Durham per la sua stagione da sophomore. Sentiva che la sua presenza nel college basket era stata incompleta, che doveva ripagare sul campo la fiducia e il sostegno del popolo biancoblù — discorsi che nell’era dell’One-and-Done diventano semplicemente impossibili.
Poi, oltre a Duke, ci sarebbe un’altra istituzione ad aspettare le scelte del giovane Parker: la Chiesa di Cristo dei Santi degli ultimi giorni. Come ogni mormone che si rispetti, anche Jabari, raggiunti i 19 anni, doveva decidere se iniziare una missione di due anni in giro per il mondo a contribuire alla proselitismo del culto, mettendo in pratica il passo del Vangelo di Matteo “andate dunque e ammaestrate tutte le Nazioni”. Casualmente 19 sono anche gli anni richiesti dall’NBA per dichiararsi eleggibili per il Draft.
Fu una scelta delicata. Da una parte c’era l’istituzione ecclesiastica — che formalmente non obbliga i suoi adepti a partire in missione ma, diciamo, lo raccomanda caldamente —; dall’altra c’era la possibilità di entrare nella lega professionistica più spettacolare del globo, raggiungendo il primo traguardo della sua carriera.
Due anni sono un tempo indecifrabile per ogni adolescente — figuriamoci per chi è anche il miglior giocatore di basket della nazione. In quel momento le squadre facevano a spintoni per accaparrarselo, ma dopo due anni di inattività sarebbero state ancora lì in fila ad aspettarlo? Tutti i grandi sportivi mormoni hanno saltato l’attività missionaria preferendogli l’altra fede, quella agonistica. Mentre Jabari si trovava nel pieno della confusione decisionale, arrivò una telefonata di Danny Ainge, GM dei Boston Celtics, il giocatore di basket più famoso di sempre a essere affiliato alla Chiesa LDS (scusa Jimmer!). Anche lui aveva deciso di non intraprendere il percorso missionario.
«Jabari, tutti dovrebbero preparasi per una missione, ma non credo che tutti debbano andare in missione. Tu hai un talento, usalo per raggiungere più persone possibili, fai che ciò diventi la tua missione». Erano le parole che Parker voleva sentirsi dire. Finalmente il Draft del 2014 era al completo.
Everything is good, time heals all wounds
«A volte si può partire da una situazione negativa e trasformarla in una positiva, ed è ciò che Jabari ha fatto». Jason Kidd prese in mano la panchina dei Bucks una settimana dopo che il giocatore di Duke venne scelto con la seconda scelta assoluta nel Draft del 2014 e diventò subito un padre putativo per Jabari, con il quale condivide le pressioni e le aspettative di arrivare nella lega con l’etichetta di Superstar già appuntata sulla maglia di gioco. (Kidd fu la seconda scelta assoluta da California esattamente vent’anni prima che il nome di Parker venga pronunciato da Adam Silver).
L’infortunio gli tolse dopo neanche due mesi una delle pedine chiave su cui ricostruire una franchigia che veniva da un anno disgraziato, chiuso con 15 vittorie e 67 sconfitte, il punto più basso della loro storia. «Penso che abbia imparato molto a causa dell’infortunio. Ha lavorato sodo per migliorare il suo corpo ed essere pronto a tornare in campo convinto dei suoi mezzi». E non sono parole di circostanza. Secondo John Henson è tornato più forte di prima, più veloce di prima. «Sono molto eccitato dal vederlo di nuovo in campo, è una parte fondamentale di ciò che saremo come squadra e come organizzazione».
Jabari stupisce tutti al ritorno dopo la pausa estiva: il lavoro compiuto da Suki Hobson ha fatto ricredere quelli che credevano a un recupero incerto. Un’altra volta Parker non si è limitato a fare i baby steps, a gattonare, ma ha ripreso subito a correre. Si è nuovamente chiuso nell’oscurità di una cripta e ha lavorato duramente su se stesso, lontano dagli occhi dell’intera NBA. Al suo fianco questa volta però non c’era il fratello Christian ma una fisioterapista cresciuta nelle campagne inglesi, il cui account Twitter è stato l’unico modo che abbiamo avuto per sbirciare sulle metodologie di recupero.
«Jabari ha capito che aveva un’ opportunità per cambiare molte abitudini che lo aiuteranno a migliorare in futuro». Per il preparatore atletico dei Bucks Scott Barthlama questi mesi in palestra hanno consentito a Parker di correggere errati pattern nei movimenti biomeccanici e, data la sua giovane età, è stato possibile ripartire da zero, ricostruendo dalle basi un nuovo rapporto con il suo corpo. Il concetto chiave è stato proximal to distal movement, ovvero far in modo che, rinsaldando il suo centro gravitazionale — in questo caso gli addominali e il plesso solare — sia in grado poi di attivare con più efficienza gli arti esterni guadagnando in bilanciamento e potenza. Lo scopo era di non essere più dominati fisicamente dai lunghi avversari, rendendo il gioco di Jabari più esplosivo e dinamico.
Ma il piano di recupero di Jabari non è fatto solo di tappeti elastici, trazioni alla sbarra, cyclette e palle mediche. Ad affiancare il lavoro fisico è subentrata anche una particolare attenzione all’alimentazione. Come spesso accade, i giovani che entrano nel circuito professionistico, anche quelli che si distinguono per una brillante etica lavorativa come Jabari, hanno bisogno di essere indirizzati verso un regime alimentare che massimizzi le prestazioni. Ora Parker, subito dopo un allenamento o una partita, prima ingerisce un frullato ad alto tasso proteico, poi pasteggia con salmone grigliato, cous cous, insalata e frutta.
Tutto entro un’ora dallo sforzo fisico. Nonostante fosse circondato per l’intero periodo della riabilitazione da professionalità di alto livello, la persona su cui ha dovuto fare il maggior affidamento è rimasta se stesso. «La prima cosa che mi ha detto entrando in casa è stata “Papà non devi dispiacerti per me”», ammette Sonny, «Non si è mai lamentato o chiuso in se stesso per tutto il tempo che è rimasto lontano dal campo di gioco».
Un po’ troppo lontano dai campi, visto che i bambini nemmeno sanno chi sia.
Jabari ha proseguito in silenzio e nell’ombra, preferendo incontrare i ragazzi nelle palestre delle scuole del Wisconsin piuttosto che i giornalisti. Non bisogna dimenticare che Jabari è ancora minorenne per la giurisdizione statunitense e, che come suggerisce il suo allenatore Jason Kidd, va ancora considerato un rookie.
«L’idea era di mostrare la crescita» spiega a chi gli chiede perché durante la convalescenza si è lasciato crescere i capelli, «ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo i progressi che sto facendo nella lunghezza dei miei capelli. Mi ricorda che la scalata non è sempre piacevole e che devo essere consapevole da dove vengo e dove voglio arrivare».
Il pomeriggio del 4 novembre, dopo quasi undici mesi di terapie, allenamenti e rinunce, entra nel negozio di Kenny Lock, il barbiere che lavora dietro il campo d’allenamento dei Bucks. Le larghe ciocche di capelli cadono a terra: è finalmente arrivato il momento di chiudere il cerchio, di voltare pagina. La sera stessa, per la sfida contro i Philadelphia 76ers, Jabari si presenterà non più in borghese ma indossando la nuova uniforme con il cervo sul petto.
Il risveglio della Forza
Il 15 dicembre, un anno esatto dopo l’infortunio, Jabari è in coda con altri suoi coetanei davanti a un multiplex di Madison per acquistare il tanto desiderato ticket per il settimo episodio della sua saga preferita. Gli ultimi 365 giorni sono ormai distanti, cristallizzati in una galassia lontana.
Nella vittoria al Bradley Center con la quale Milwaukee ferma a 24 la storica striscia vincente di Golden State ne segna 19 con 9 rimbalzi, season high in quel momento. Sembrerebbe essere il punto di svolta per lui e per i Bucks, e invece la stagione prosegue come una montagna russa impazzita. La squadra che aveva stupito tutti l’anno precedente non trova più la sua dimensione vincente, lenta e pasticciona in difesa quanto scoordinata e inefficiente in attacco.
L’addestramento di Jabari soffre della discontinuità del team. Ci sono partite — o meglio tratti di partita — in cui vola letteralmente sopra gli avversari, schiacciando dentro l’anello qualsiasi palla passi a due-tre metri dal ferro. In altri rimane ai margini della proto-flex offense dei Bucks, una specie di centrifuga in cui i giocatori volteggiano come avvoltoi attorno all’area pitturata per poi fiondarsi uno alla volta verso il canestro.
Come Zach Lowe ha scritto in un articolo su ESPN, Jabari ora è un gigantesco pezzo di cera ancora da modellare. Ci si interroga su quale sia la sua dimensione offensiva, se sia possibile assegnargli un ruolo fisso o se sia più consono seguire le indicazioni di Coach K e lasciarlo giostrare per il campo, sfruttando la sua capacità di creare mismatch in qualsiasi situazione. La sua velocità lo rende immarcabile per le ali grandi mentre la sua potenza fisica domina il post quando accoppiato ad avversari più leggeri. Sulla carta è una formidabile arma d’offesa, sul campo risulta spesso troppo simile alle caratteristiche dei suoi compagni, rendendo la manovra d’attacco stagnante e prevedibile.
Il nuovo anno ha portato nuova linfa alla squadra affidata temporaneamente a Joe Prunty, e nel mese di gennaio ha cominciato a ritrovare quella chimica di squadra necessaria per competere in un sempre più duro Est. Jabari nella sacca di Babbo Natale ha trovato più minuti e più sicurezza nel jumpshot, due elementi che hanno contribuito a rendere i suoi numeri più sostanziosi. Entrato in NBA con la reputazione di quattro tattico, non ha mai dato l’impressione di poter essere un tiratore affidabile dalla lunga distanza. Se a Duke il 20% del suo attacco era costituito da triple (collegiali), in questa stagione ne ha prese solo 9 — senza che nessuna abbia ancora raggiunto il fondo della retina.
Non è ancora dato da sapere se e quando Jabari diventerà un tiratore affidabile, ma nelle ultime uscite ha ritrovato un po’ più di ritmo nelle gambe per essere finalmente efficiente nelle conclusioni dalla media distanza, sia in catch and shoot sia dal palleggio. La percentuale con cui lui e Giannis mettono il tiro da fuori cambia drasticamente le spaziature dei Bucks, evitando di creare un imbottigliamento sotto il canestro stile Trastevere il sabato sera. Nella striscia di inizio anno questi tiri cominciano ad entrare con maggior regolarità e i Bucks hanno infatti chiuso gennaio per la prima volta sopra il 50% nel singolo mese, con vittorie contro Bulls, Hawks e Heat.
Gioca ancora solo in avvicinamento e in transizione, ma è un bel giocare.
In questo scorcio di 2016 Jabari viaggia a quasi 14 punti di media con il 52% dal campo, in un trend positivo che sembra non doversi fermare (solo quattro volte sotto la doppia cifra nel 2016, con tre escursioni sopra i 20 dopo la pausa per l’All-Star Game). Che l’infortunio di Phoenix sia finalmente da considerarsi come un semplice incidente di percorso sulla strada che porta Jabari Parker verso la vetta della National Basketball Association?