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L'Argentina sull'orlo del precipizio
09 ott 2017
La nazionale albiceleste è costretta a fare i conti con l’ipotesi di un’esclusione dal Mondiale. Come si è arrivati a questo punto?
(articolo)
13 min
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“Casa Tomada”, uno dei più celebri racconti di Julio Cortázar, è la storia di un fratello e una sorella, dalla relazione un po’ ambigua, la cui casa, a un certo punto, viene “occupata”. È una casa imponente, ereditata dai trisavoli e quindi simbolo della memoria che si perpetua di generazione in generazione, della tradizione, dei lasciti. Viene occupata non si sa bene da quale entità, né come, o perché: i due fratelli si limitano a prenderne atto, come se non potessero farci nulla, come se non fossero pronti a essere partecipi di un avvenimento del genere. Vengono prima confinati in una sezione ristretta di casa, e una volta constatata l’impossibilità di ribellarsi alla “presenza”, escono di casa, chiudono la porta a chiave e gettano le chiavi nel tombino.

Il racconto può essere considerato “fantastico” per certi aspetti, ma l’elemento fantastico consiste in quella tensione misteriosa che si crea per via dell’entità occupante. È una sfida alla nostra comune visione razionalista: ci mette di fronte al fatto che non si può ricondurre tutto alla logica della comprensione. “Casa Tomada” ha ispirato una pletora di studi, che hanno provato a vederci allegorie politiche, sociali, psicologiche: c’è chi l’ha accostato alla cacciata di Adamo e Eva dal Paradiso. Il punto centrale è che a escludere i fratelli dalla casa, a espellerli, è una presenza non meglio definita, che si appalesa con un «suono indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto, o un soffocato sussurro di conversazione».

La stessa tensione la stiamo vivendo nell’ultimo tratto del cammino di qualificazione ai prossimi Mondiali dell’Argentina, il meccanismo con cui assistiamo al lento scivolamento della squadra di Sampaoli fuori dalla più importante competizione mondiale è molto simile a quello che ci è necessario per apprezzare la lettura di Casa Tomada: l’accettazione di un’intrusione dell’inverosimile, del fantastico nel quotidiano.

Possibile? Sta succedendo davvero? Cosa sta succedendo esattamente?

Anche l’ossatura narrativa del tragitto dell’Albiceleste nel girone eliminatorio sudamericano non si distanzia molto da quella del racconto cortazariano: all’interno della Selección, dentro ognuno dei suoi componenti, a un certo punto si è fatto largo qualcosa di ignoto, che paralizza e annichilisce, al quale gli “occupati” non sono stati in grado di reagire.

Quello che solitamente chiamiamo psicodramma

Obbligata a vincere a Quito, che non espugna dal 2001, per essere sicura almeno del ripescaggio, l’Albiceleste è a un passo da quello che sarebbe uno degli psicodrammi più dolorosi della sua intera storia calcistica. Il percorso attraverso il quale si è arrivati a questo punto verrebbe ricordato come una via crucis in cui ogni stazione ci introduce a un nuovo mistero glorioso.

Come può esistere un così alto differenziale tra potenziale offensivo ed efficacia espressa?

Per provare a dare una risposta, ammesso e non concesso che ne esista una del tutto esaustiva, non si può ricorrere esclusivamente a ragioni calcistiche. È impossibile, per esempio, spiegare solo calcisticamente, e con razionalità, come Messi, il più forte giocatore al mondo (o uno dei due più forti) immerso nel contesto Albiceleste, una delle cinque Nazionali con maggiore portata mitopoietica a livello mondiale, diventi un calciatore semplicemente migliore degli altri, ma più frustrato degli altri, privo del solito potere di piegare la realtà alla propria volontà.

Aver dimostrato di essere il migliore non gli è di aiuto in nessun modo per rifuggire dalla pressione, casomai la acuisce: genera un tipo di aspettativa che è impossibile scrollarsi di dosso perché ecumenica. La avvertono tutti: lui, i compagni di squadra, i tifosi, la dirigenza, la classe politica. Cosa ha “occupato” le loro menti? Come siamo potuti arrivare a tutto questo?

Venerdì 6 ottobre, il giorno successivo al pareggio casalingo contro il Perù, nel ritiro di Ezeiza, alle porte di Buenos Aires, Messi, Mascherano, Biglia e Di Maria sono andati a vedere un’amichevole della Sub-20 contro le riserve del Racing. Nel fatto che non si sono allontanati dal ritiro c’è chi ha visto un esempio di commitment, e chi - con un pizzico di malignità - la volontà di mascherare da comportamento esemplare l’impossibilità di raggiungere in giornata chi Rosario, chi Misiones, chi Santa Fe.

Sampaoli, in conferenza stampa, ha detto che «il peggio ormai è passato», come a voler esorcizzare ogni potenziale futuro scenario, sgombrare il campo dagli incubi. E se il peggio, invece, dovesse ancora arrivare?

Nel percorso di qualificazione dell’Argentina ogni balbuzie, ogni tentennamento, ogni capitombolo affonda le radici in quella che, dal 2014 alla metà di quest’anno, è stata la più grave crisi istituzionale vissuta dalla Federazione. L’avvicendamento di tre tecnici nell’arco del percorso eliminatorio ne è stato ovviamente il primo e più evidente risultato: ogni commissario era, ed è, l’espressione di una volontà progettuale però impossibile da realizzare nel breve termine, soggiogata dall’importanza totalizzante di qualificarsi a Russia 2018.

La scelta di Sampaoli come conductor per l’ultimo tratto delle qualificazioni, in quest’ottica, se da una parte avvalora la volontà di costruire un impianto anche ideologico intorno alla Selección, fatto di precise idee di gioco e coerenza di scelte, dall’altra appare atipica - e chissà se del tutto azzeccata - proprio per l’irriducibilità al pragmatismo delle contingenze dell’hombrecito.

Per mezzo dell’ostinazione, attorno al bozzolo di sicurezza autoindotta di Sampaoli si sta costruendo una squadra con idee tattiche forti, eppure si tratta di una sicurezza sempre più ostentata, come è tipico di chi, le sicurezze, le sta perdendo suo malgrado. In una delle ultime conferenze stampa ha sottolineato come ai suoi calciatori, per raggiungere l’obiettivo di fare gol (in gare ufficiali, nella gestione Sampaoli, non ci sono ancora riusciti), serva pazienza: «una parola composta da pace e scienza».

In generale, però, il primo a non avere pazienza sembra proprio Sampaoli, apparso molto nervoso fin dall’esordio in Uruguay: la tensione genera un’atmosfera elettrica, che a sua volta provoca quella che a oggi sembra il peggior nemico dell’Albiceleste: la paralisi emozionale.

Il culto animista per le scelte

La AFA ha deciso di far disputare il match fondamentale contro il Perù - a pari punti con l’Argentina - all’Estadio Alberto José Armando, la Bombonera: uno scenario inusuale, dal momento che l’Albiceleste gioca quasi tutte le partite casalinghe al Monumental. Una scelta, però, carica di valenze simboliche, richiami cabalistici, sfide alla sorte: un complesso processo con cui la federazione voleva infrangere una volta e per tutte un tabù.

Su quel prato, nel ‘69, l’Argentina aveva fallito la qualificazione al Mondiale di Messico ‘70, bloccata sul pari proprio dagli andini. E la Federación Peruana de Fútbol, per motivi opposti ha unito alla spedizione l’autore di quel gol drammatico, Oswaldo “Cachito” Ramírez, come una sorta di amuleto vivente.

Affidarsi alla mistica boquense, intessere un’intricata rete di rimandi e hyperlink al passato recente della sua storia con lo scopo di creare una sovrastruttura di significati che avrebbe dovuto in qualche modo essere d’aiuto (l’ultima qualificazione agonica, strappata dall’Albiceleste di Maradona nel 2009, aveva avuto come protagonista mitico - proprio contro il Perù - Martín Palermo, simulacro xenéize, autore di una rete nei minuti di recupero e sotto un diluvio da poema epico), ha finito per sovraccaricare l’emozionalità del momento, invalidando il risultato finale.

È stata, soprattutto, la più adamantina dimostrazione di come l’intero apparato decisionale della Selección si muova spinto da una visione del mondo primitiva e quasi tribale, che influenza non solo i meccanismi di scelta federali, ma probabilmente anche quelli tecnico-tattici del campo. Sampaoli ad esempio ha lasciato fuori Mauro Icardi, sul quale aveva investito nelle gare con Uruguay e Venezuela, puntando tutto sul “Pipa” Benedetto, idolo di casa, la scelta “degli argentini”.

Sampaoli sembra scegliere i propri giocatori sia sulla base della forte coerenza tattica del suo gioco, sia su quella dell’aliento, della motivazione, del trasporto emozionale, persino del patriottismo, e contribuisce a creare una scala di valori in cui il giudizio di merito sull’apporto dei giocatori al piano partita si basa più sulla divisione tra pecho fríos e valientes che su precisi compiti tattici. Un contesto complicato da decifrare, per chi non lo partecipa, e che quando le cose non funzionano a dovere crea facilmente distorsioni di valutazione, semplificazioni emotive.

Anche il ritorno tra i titolari dello Jefecito risponde a una logica di visceralità.

La mistica, e per certi versi la scaramanzia, dimostrano tutta la loro fallibilità e caducità quando non si specchiano nella realizzazione di un desiderio. Al “Chiqui” Tapia, presidente dell’AFA, hanno svaligiato casa mentre era alla Bombonera.

Un altro esempio di mistica che prende una strana piega. La Noblex, società leader nella produzione di elettrodomestici in Argentina e sponsor della Nazionale da una decina di anni, prima delle gare contro Perù ed Ecuador ha rilanciato un’offerta promozionale (già inaugurata con l’approdo di Sampaoli) impegnandosi a rimborsare agli acquirenti l’importo di un televisore di ultima generazione (circa 1000 euro) nel malaugurato caso in cui l’Argentina non si fosse qualificata per Russia 2018. Nelle ore successive al pareggio contro il Venezuela, sul sito del produttore altre 300 persone hanno acquistato la tv.

Oggi lo shop online dell’azienda risulta chiuso per «termine della promozione».

Identità svuotata

Il simbolo più rilucente dell’inconcludenza dell’Albiceleste, della frustrazione di questo hic et nunc storico, suo malgrado, è il capitano, l’uomo più rappresentativo, il calciatore più iconico della sua generazione e - per motivi opposti a quelli che avrebbe desiderato - dell’epopea futbolistica argentina degli ultimi anni: Lionel Messi. Altri calciatori di indubbio spessore mondiale - Di Maria, Higuain, Mascherano, Icardi stesso per quanto poco coinvolto nel percorso svolto fin qui - hanno visto il loro potere ridursi a contatto con le fibre patriottiche della camiseta albiceleste, sciogliersi in un brodo di inefficacia; ma nessuna prestazione deludente riesce a fotografare lo stato di salute della Selección meglio delle scelte prese da Messi in merito al suo rapporto con la Nazionale nell’ultimo biennio.

Dopo aver annunciato il ritiro, in seguito alla sconfitta in finale di Copa América Centenario, Messi è tornato sui suoi passi cambiando anche la percezione degli hinchas che gli erano avversi, che non lo sentivano come loro rappresentante. Messi si è caricato l’intero fardello delle sorti della sua Nazionale come Atlante la volta celeste: il gioco di Sampaoli conta sugli abbassamenti di Messi persino per impostare l’azione, spesso dietro le linee del proprio centrocampo, oltre che dell’attacco. Il resto della squadra gli gira intorno, come i tangueros nella figura del molinete. Se l’Argentina crolla, Messi crolla con lei. Ancora una volta l’emotività contraddice l’ovvio del calcio: un insuccesso, per quanto grave, non può dipendere da un giocatore, eppure un eventuale mancata qualificazione dell’Argentina sarà un buco nella biografia di Messi più grande di quanto lo sarò in quello dei suoi compagni.

Martín Caparrós, su The New York Times, ha scritto che se Messi non dovesse «vincere una Coppa del Mondo, la sua storia sarebbe la storia di un fallimento: la sconfitta del migliore di tutti».

Contro il Perù ha tirato due volte contro la porta avversaria (e con l’altro tiro ha colpito il palo), creato 6 occasioni da rete, vinto 7 duelli su 12. Ma non è stato sufficiente, non del tutto.

Il problema di base è che tutte le avversarie affrontate finora hanno perfettamente compreso e anticipato le mosse del 3-3-3-1 sampaoliano: hanno schierato due linee di 4, a volta con un centrocampo che diventava a 5 e una sola punta, creando muraglie nella zona centrale del campo per isolare il gioco sulle fasce, cioè dove i problemi dell’Argentina in transizione offensiva - soprattutto per via di un Di Maria particolarmente poco ispirato - si dimostrano con più evidenza.

L’inefficacia offensiva è un dato di fatto: l’Argentina ha il secondo peggior attacco del girone, dietro la Bolivia ultima in classifica, e l’ininvidiabile record di 73 tiri verso la porta avversaria senza fare gol. L’ultima rete è arrivata su calcio di rigore; l’ultima su azione, contro il Venezuela, è stata un’autorete.

Sampaoli ha dichiarato a più riprese di non cercare schemi, ma intese, relazioni tecniche. Affinità elettive che non hanno funzionato - come quella tra Dybala e Messi - o che il contesto ha atrofizzato - come nel caso di Di Maria.

Il risultato più evidente è l’appalesarsi, in ognuna delle ultime gare, di un canovaccio simile: quindici minuti di offensivismo sfrenato, seguiti da un immobilismo che genera modifiche dell’impianto tattico, che a sua volta causa revisioni strategiche, che porta allo stallo. Un mattanza irrisolta in cui Messi è il rais di una tonnara timida, in cui alla brutalità degli arpioni si antepone la paura di sferrare l’attacco decisivo, o di esserne all’altezza.

Il peggior scenario possibile

L’ultima giornata delle eliminatorie CONMEBOL sarà qualcosa di più di una macelleria messicana: sarà una yawar fiesta. La yawar fiesta è la corrida andina: un condor viene legato a un toro, che innervosito dal puntello degli artigli sul garrese si agita all’interno dell’arena, attorniato dai matadores, fin quando non si decide di dar termine alla corrida facendo saltare in aria il bovino con una carica di dinamite.

Un rituale indigeno raccontato nell’omonimo romanzo di José Maria Arguedas, tutto incentrato sullo scontro di civiltà tra il mondo indio e quello occidentale, che non riesce a comprendere la valenza mitica del rito e per questo vorrebbe “normalizzarlo”.

È complicato prevedere cosa potrà accadere nell’ultima giornata del girone eliminatorio senza mettere in conto che, in teoria, possa saltare in aria anche il toro al centro dell’arena. Va detto che l’Argentina, nonostante il cammino deludente, è in ogni caso ancora padrona del suo destino: vincendo a Quito sarebbe certa almeno degli spareggi con la Nuova Zelanda (dovrebbe sperare in una serie di incastri favorevoli affinché possa qualificarsi direttamente).

Nel disgraziato caso in cui, invece, non dovesse riuscire a qualificarsi, l’impatto economico - oltre che nell’immaginario - sarebbe insanabile: l’AFA perderebbe i 15 milioni di dollari che la FIFA riconosce a tutte le squadre classificate alla manifestazione, il che comporterebbe una riduzione del budget federale di circa il 50%.

Come ha dichiarato l’impresario Guillermo Tofoni, consulente della Federazione per l’organizzazione delle amichevoli internazionali durante l’ultimo tratto della presidenza Grondona, il danno sarebbe incommensurabile anche in termini di perdita di appeal: oggi l’Albiceleste guadagna un gettone di 1 milione di dollari per ogni partita disputata in Europa, e 1,5 milioni per i match in Africa o Asia. Soldi che si dimezzerebbero nel caso in cui non riuscisse a solcare i campi di Russia 2018.

L’idea di un Mondiale senza Argentina, e senza Messi, è un pensiero che al solo evocarlo fesa il cuore: la scorsa settimana Klinsmann ha dichiarato a Sport Bild che Russia 2018 sarebbe il palcoscenico sul quale Messi, finalmente, una volta per tutte, potrebbe compiere la sua consacrazione, eguagliando Maradona.

L’AFA ha già ha accettato nei mesi scorsi di disputare un’amichevole contro la Russia il prossimo 10 novembre, in occasione della re-inaugurazione del rinnovato stadio Luzhniki, che sarà la sede della cerimonia d’apertura, e della finale, di Russia 2018.

Sarebbe dovuta essere la celebrazione anticipata di una delle principali candidate alla vittoria finale, e invece rischia di non giocarsi, perché in quegli stessi giorni l’Albiceleste potrebbe essere impegnata nella gara di playoff interzonale contro la Nuova Zelanda.

Sempre che non si verifichi lo scenario peggiore di tutti: vale a dire, che il match abbia effettivamente luogo, e sia l’occasione di utilizzare, per l’ultima volta, all’interno della stessa frase, le parole Messi, stadio e Mondiale.

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