Nell’esultanza di Giuseppe Giannini dopo il gol segnato agli Stati Uniti la sera del 14 Giugno di trent’anni fa, a riguardarla con attenzione oggi, mi sembra di trovare qualcosa che rimanda alla corsa di Tardelli nella finale del Mundial ‘82: stessi capelli al vento, stessi pugni chiusi, stesso mulinare di braccia. Non è un momento epocale - dopotutto si trattava solo di una semplice partita del girone eliminatorio: eppure c’è tutto il senso conclusivo di una scena compiuta. Quando l’ho vista, dal vivo, proiettata dal televisore minuscolo che tenevamo in balcone, sullo sfondo una campagna piena di lucciole, Giuseppe Giannini, per me, era qualcosa di più di un mito. Ovviamente non sapevo chi fossero Marco Tardelli, Enzo Bearzot e Sandro Pertini. Ma conoscevo perfettamente, o almeno con l’idea di perfezione che puoi avere a dieci anni, Il Principe.
È il primo vero affondo della partita con gli yankees. Carnevale amministra un pallone sulla fascia, poi lo passa - senza troppa precisione - a Nicola Berti. Berti lo appoggia forse con troppa forza su Donadoni, fin lì è un’azione raffazzonata se solo non fosse che il pallone scivola verso Gianluca Vialli. Giannini, con la maglia numero 13, segue l’azione in disparte, poi punta l’area: Vialli fa un velo e sulla sfera si avventa Il Principe. Con un tocco sotto delicato supera l’avversario, e una volta in area scarica con il sinistro verso la porta di Meola. La rete si gonfia. L’Olimpico, Roma, l’intera storia di una città che non è stata costruita in un giorno e che finirà mangiata dalle formiche, vedono la curvatura del tempo piegarsi al volere di un calciatore con la faccia da impunito, un sorriso che sembra una smorfia di disappunto, il passo elegante.
Il Principe era, ai miei occhi ingenui e inconsapevoli di tifoso in divenire, Il Capitano. La guida di una Roma che in quegli anni era, specie per me che ero circondato da tifosi di un Milan imbattibile, una fede piena di dogmi e soprattutto privazioni, religione votata a un Dio della cui esistenza era facile dubitare. Mio padre mi aveva regalato una action figure di Giannini, pezzo quasi introvabile di una serie che la IP aveva lanciato in occasione delle Notti Magiche, che conservavo come un simulacro. Il Giuseppe Giannini di plastica e quello in carne e ossa corrispondevano con esattezza in virtù della loro unicità: unico calciatore della Roma in Nazionale, unico motivo d’orgoglio e vanto che speravo di poter sbandierare.
Giannini era pericoloso. Giannini era coscienzioso. Attaccava lancia in resta, dietro le due punte, ma si abbassava quando il pallone era tra i piedi dei difensori: reclamava la primazia nell’impostazione, con tutta l’arroganza di chi vuole dettare i tempi, suggerire le trame. Giuseppe Giannini era, innanzitutto, elegante. In quel Mondiale, oltre al gol con gli USA, entrò nell’azione del momentaneo vantaggio con l’Argentina.
Dopo aver cercato un arpione con il tacco, che non gli riesce, triangola con Vialli, supera Simón con un sombrero e di testa appoggia ancora a Vialli. La sua girata respinta, e poi il tocco sgraziato di Schillaci sono i frames consegnati alla storia. Nessuno, però, ricorda la grande giocata del Principe che li aveva preceduti.
Principe senza corona
«Il sovrano non deve necessariamente avere tutte le buone qualità che ci si aspetta da lui», scrive Machiavelli ne “Il Principe”, «ma deve parere di averle». Giuseppe Giannini era un fuoriclasse, un giocatore pieno di estro, di talento, o semplicemente un atleta molto bravo a sembrare un fuoriclasse?
Dopo Italia ‘90, giocato nel prime della sua carriera e in grande spolvero, reduce da una delle delusioni più grandi della sua vita e spogliato dalla chioma fluente come un Sansone ridotto all’inoffensività, disse: «Non per essere banale, ma vorrei cominciare a vincere qualcosa». Se c’è una figura più romantica e triste di un Principe è quella di un Principe Senza Corona. «Tanti complimenti, bravo Giannini, viva Giannini, grazie Giannini. Complimenti, appunto». Ci sarebbe quasi da pensare che a Giuseppe Giannini, a un certo punto, l’art pour l’art non bastasse più.
Dopo, dopo sarebbe andata anche peggio.
«Da Napoli a Roma, anzi a Marino, dov’era la sede del nostro ritiro, in un silenzio cimiteriale» racconta cercando di razionalizzare la delusione che per lui, come per tutta la generazione di talenti che Vicini aveva cresciuto nell’U21, rappresentò Italia ‘90, specie per la maniera in cui si erano fatti sfuggire un titolo che sembrava destinato loro. «Quel tratto di autostrada ci sembrò lunghissimo». «Quella notte ci parve di attraversare un deserto nero». Le dune minacciose erano anche nel tratto che separava il Grand Hotel Helio Cabala da Frattocchie, la frazione di Marino in cui Il Principe è cresciuto.
Nato a Roma, nel Quartiere Africano dove il padre Ermenegildo gestiva un bar, Il Principe è trasferito sui Colli a tre anni. È lì che ha cominciato a giocare a pallone. È lì che sboccia un talento che lo porta a essere visionato anche dal Milan. Rivera gli regala la maglia numero 10, e Giuseppe è quasi convinto di accettare. Ma Perinetti si intromette nella trattativa e convince il presidente dell’Almas, proprietaria del cartellino, a fargli fare un provino a Trigoria, dove incontra «quei grandi giocatori che fino al giorno prima avevo visto solo sulle figurine». Al suo primo allenamento divide il campo con Spinosi, Turone, Benetti. L’anno successivo Maultier, come lo chiamava Gianni Brera, era il suo allenatore alla Primavera.
Essere un giovane di talento non è mai facile: il refrain è sempre il solito, le aspettative rischiano sempre di fagocitarti. Esserlo a Roma, poi, dove i calciatori - soprattutto quelli romani - vengono cresciuti come Gaumata, venerati come Dèi pagani per poi farne carne da piombo, men che meno. Esserlo a Roma e crescere all’ombra del colosso imperioso di Falcao, poi: una missione annichilente per chiunque.
Giannini non ama gli accostamenti. Quando lo chiamano il vice Falcao, Gianninao, ha un moto di disappunto. «No, perché vice? Noi possiamo coesistere», dice con un moto di stizza che vuole far passare per modestia, senza riuscirci granché. La verità è che a differenza di Falcao, Giannini aveva un’eleganza più plateale, sbandierata, esuberante. Falcao si esprimeva con la salomonicità delle scelte di gioco, Giannini con la spada sguainata, con l’affaccio cerimonioso dal balcone del castello. Non a caso uno era l’Imperatore, l’Ottavo Re; l’altro, mestamente, il suo delfino, il Principe.
E però: nessuno tocchi il delfino
Nils Liedholm lo fa esordire nel 1982, un pomeriggio di fine gennaio. «Solo Rivera era più svelto di lui nell’imparare», diceva il Barone di lui. La Roma ospita il Cesena, Giannini entra in campo a una quarantina di minuti dalla fine. Quando ne mancano solo 4, per un malinteso proprio con Falcao, il Cesena riesce a rubare palla e innescare il contropiede che porta al gol dell’inattesa vittoria.
«Qualche giorno dopo quell’errore giocai un derby con gli Allievi Nazionali e feci una grandissima partita», racconta. Secondo la versione dello stesso Principe, fu Falcao a pregare Viola di non cederlo in prestito, di dargli tempo di crescere e di farlo a Roma. In quegli anni di crescita, che lo porteranno a restare nell’ombra nell’anno dello Scudetto per poi tornare in prima squadra solo con l’avvento di Eriksson, Giannini matura una declinazione personale del ruolo di 10: da ultimo rifinitore si fa fulcro della manovra, una specie di enganche sublime e disperato, come una milonga, perfetta per cantare la sua disgrazia, che in fin dei conti resterà sempre quella di aver giocato in una Roma distante dalla vittoria del Campionato, perenne sconfitta, zattera spesso alla deriva.
Il debutto in società avviene nel 1984, subito dopo la cessione di Di Bartolomei: nell’anno in cui la Roma perde Il Capitano comincia la coltivazione di Il Prossimo Capitano. La fascia passa sul braccio di Conti, l’onere e l’onore delle decisioni più importanti è sempre di Falcao, che però combatte con uno stato di forma altalenante. La Roma è attesa a Torino, dove affronterà la Juventus. Il Divino compie l’investitura. Giannini scende in campo al posto di Falcao e segna un gran gol, con un esterno destro in corsa dopo un’incursione di 50 metri, che vale il pareggio.
Giannini è un calciatore difficile da definire: sfugge alle classificazioni e le abbraccia tutte. Non è un mediano, ma neppure un regista dai tempi compassati e il fisico fragile. È mezzala, incursore, rifinitore, volante de cinco a un tempo. Non tutti gli allenatori della sua carriera sono rimasti parimenti impressionati da questa poliedricità. Vicini, però, ne era rapito. «Quasi sempre l’Italia è quello che Giannini decide sia», diceva, incensando la sua capacità di cucire il gioco, imprimere la velocità.
Gianni Agnelli, al quale il senso estetico di certo non mancava, arrivò a offrire un assegno in bianco nell’’86. La Roma, nella stagione che sarebbe seguita, avrebbe vinto la Coppa Italia ma perso lo scudetto. Per Giannini è l'anno del preludio all’avvento di un’altra carica nobiliare, ma più bellica: iI Principe Capitano.
Con Liedholm in panchina, e la fascia al braccio, nella stagione 87-88 Giannini si declina in un’altra interpretazione ancora, quella di seconda punta e trequartista: segna 11 gol, è il quarto marcatore della Serie A dopo Maradona, Careca e Virdis, ma prima di Vialli, Gullit e Altobelli.
Una romanità riottosa
Il gol è il collante che lega la passione dei tifosi al personaggio che si muove in campo: spesso sorpassa e rende innecessarie le movenze eleganti, le veroniche, i movimenti controtempo, entusiasma più di un tunnel, o un passaggio no look.
Il Principe, a tratti, con i gol, ha cercato di compensare un’autorità, e un’autorevolezza, che l’armonia delle sue trame, della sua corsa, non riuscivano totalmente a conferirgli. Ma in fondo non gli interessava poi così tanto barattare il suo senso estetico per la benevolenza: Giannini ha sempre accolto in modo bilioso i reprimenda del pubblico. Forse perché non aveva la forza necessaria, da solo, per potersi permettere un pollice verso, come avrebbe fatto Totti un decennio più tardi.
Guardatelo dopo aver segnato un gol alla Juventus, nel 1993. Accenna la corsa, poi si ferma, rallenta il passo, gonfia il petto mentre guarda verso i suoi tifosi. È l’atteggiamento di sfida di chi si è sentito apostrofare, fischiare, mettere in dubbio, e sembra sussurrare «E mo’? Non fischiate mo’?». La stessa intrattabilità di chi scosta i compagni, di chi polemizza nel momento più sublime, di chi non sa godersi la magia del momento. Quella del Principe è una riottosità tutta romana, naif come il gesto di togliersi la maglia e sventolarla, mostrando la maglia della salute indossata subito sotto. A Bergodi, che dopo un derby, quello di ritorno del 1995 dominato dalla Lazio (dopo la sonora sconfitta per 3-0 dell’andata), attraverso la stampa lo invita a «fissare un appuntamento, se ha qualcosa da dirmi a quattr’occhi» (e dandogli anche del coniglio), Giannini risponde che rispetta «sempre gli appuntamenti. Anzi, ci vado in anticipo». Giannini non rifugge nessuna sfida, accoglie le provocazioni, le introietta: in questo non ha niente di principesco. Giannini voleva ingraziarsi il pubblico, ma era incline alla tragedia.
Giuseppe Giannini era divisivo, e al contempo veniva tacciato di scarsa personalità. E quando dimostrava distacco gli chiedevano di alzare un braccio, che avrebbero risposto all’unisono al richiamo del loro Capitano.
Giannini era amato, incondizionatamente, da tutti.
Giannini era odiato, implacabilmente, da tutti.
«Chi viene eletto Principe col favore popolare deve conservare il popolo come amico», scrive sempre Machiavelli. Romano e romanista, talentuoso ma con un’ambizione forse esagerata per le sue possibilità, in Giannini c’è ogni ingrediente del melodramma tipicamente giallorosso, che infatti non avrebbe tardato e realizzarsi. «Per me la Roma è sempre stata una questione di cuore, più che una professione», diceva. In fin dei conti era vero.
Nel 1995, dopo il derby d’andata finito 3-0, viene portato in trionfo sotto la Curva Sud. I compagni lo sollevano come si fa con i capipopolo più saggi. Lo sorreggono con le braccia e lo fanno sobbalzare come un pontefice benedicente, con il gesto del tre - a simboleggiare i tre gol - mistico quasi quanto quello di un Cristo Pantocrator. I suoi tifosi lo adorano.
Nel 1989-90, nel derby giocato al Flaminio (l’Olimpico è in fase di ristrutturazione, qualche mese più tardi sarebbe stato il palcoscenico della sua Notte Magica contro gli States), segna il gol del definitivo pareggio al vantaggio di Bertoni di testa, in tuffo. «Tante volte sono stato contestato anche dalla nostra tifoseria», dice a fine partita, «ma la soddisfazione che mi sono tolto facendo questo gol mi ripaga di tutto». Ho ragionato a lungo su quest’ultima frase, mi ripaga di tutto. Mi sono chiesto: ma come fa un gol in un derby, per quanto sia sempre un gol, peraltro in un derby, inoltre segnato a 6 minuti dalla fine, quando la sconfitta sembrava inevitabile, davvero a ripagarti di tutto?
La verità è che certi gol ai derby, per Giuseppe Giannini, sono stati la vetta più alta di una carriera che forse è solo un pensiero romantico, immaginare meritevole di più foglie d’alloro.
Una grandeur stracciona
Quella dei romani-romanisti-di-talento è una narrazione che si ripete simile a se stessa, adattandosi alla perfezione davvero a ogni romano-romanista-di-talento. Che poi, in fondo, è la proiezione di ogni romano, convinto di avere un briciolo di fortuna in più degli altri, non foss’altro per essere nato a Roma. E uno dei fils-rouges che li accomuna tutti è la domanda, per certi versi retorica: e se era così di-talento perché non se n’è mai andato?
Se il Principe avesse abdicato il regno decadente di una Roma ridimensionata dopo i fasti imperiali, non lo avrebbe trovato un posto dove ricoprire un ruolo nobiliare magari diverso, meno prestigioso, ma con sudditi e lacché più accondiscendenti? Il fatto è che la Capitale, come fa ben capire Remo Remotti nel testo di «Mamma Roma addio», con tutte le sue storture, la sua grandeur a volte stracciona, è sempre il posto da cui quando cerchi di fuggire trovi qualcuno che ti dica «ma che sei matto?».
Roma ti illude, ti rintontolisce: il fatto di essere romanisti, e indossare un numero pieno di epica, con la fascia da capitano al braccio, fa diventa la cosa simile a una psicopatologia: nessuno scappa dalla sua gabbia, se le sbarre sono fatte d’oro.
Nel 1991 avevo dieci anni.
Nel 1991 avevo una maglia della Roma bianca, a maniche lunghe, con le strisce gialle e rosse sulle maniche e il colletto rialzato. Sulle spalle c’era il numero dieci di Giuseppe Giannini.
Nel 1991 non conoscevo la delusione, non avevo mai visto in faccia la morte da troppo vicino. Non avevo mai capito cosa significasse vincere un trofeo.
Il 19 Gennaio del 1991 muore Dino Viola, il presidente di Giuseppe Giannini. Il giorno dopo la Roma affronta il Pisa in casa: perderà 2-0 dando l’impressione di non essere proprio scesa in campo. «La giornata più brutta della mia carriera», dirà Giannini. «Non si può giocare con la morte nel cuore».
Eppure, in quella stagione, la Rometta lumpen di di Ottavio Bianchi arriva a due finali, quella di Coppa UEFA e quella di Coppa Italia. La prima la perde contro l’Inter, in un doppio confronto chiuso con i rimpianti che hanno il suono sordo del palo colpito da Rizzitelli; la seconda la vincerà, contro la Sampdoria. Il primo trofeo che ho consapevolezza di aver visto la mia squadra del cuore alzare, ecco: lo ha alzato Giuseppe Giannini.
Al ritorno, al Marassi, finirà 1-1.
La stagione successiva, tra Bianchi e Giannini qualcosa però deve essere successo, perché nel mese di Febbraio del ‘92 l’allenatore gli toglie la fascia da capitano per affidarla a Voeller, e poi a Sebino Nela.
Giannini, ovviamente, non la prende per niente bene e sfoggia l’ironia di chi si sente privilegiato, intoccabile, proprio quel tipo di status quo che Bianchi, invece, detestava del suo capitano: il filo diretto con la società, la tendenza a voler avere sempre un po’ - un bel po’ - di voce in capitolo anche sulle scelte tecniche. Che è poi una delle ragioni con cui si cercava di screditare Il Principe, una leggenda metropolitana che, come tutte le leggende, forse un pizzico di verità dietro ce l’aveva sul serio.
Così come in campo, anche fuori dal rettangolo verde Il Principe è sempre stato umorale, bizzoso, rancoroso: quando Ciarrapico tentennava nel rinnovargli il contratto, Giannini, sempre suscettibile, rispondeva: «Al momento di rinnovare i fischi dell’altra sera peseranno nella mia decisione» (si riferiva ai fischi ricevuti nella brutta partita giocata in casa contro il CSKA Mosca, in Coppa delle Coppe). Come se l’accettazione del pubblico, del suo pubblico, potesse smuovere gli equilibri di un rapporto professionale, che nel caso del Principe era sempre troppo sbilanciato sulla sentimentalità.
Durante la finale di ritorno di Coppa Italia del ‘93, contro il Torino, sull’1-0 per la Roma (che aveva perso 3-0 all’andata), con un sacco di minuti ancora da giocare, Giannini fa un fallo su Scifo piuttosto brutto, di frustrazione.
Ammetto che ricordavo quella gara soprattutto per i suoi tre gol su rigore, per la rimonta quasi impossibile (la partita è finita 5-2, sarebbe bastato farne uno in più, o prenderne uno in meno) che si stava quasi per avverare. Per tutta una serie di pensieri che - come spesso accade quando si parla di Roma - o ruotano intorno alla parola quasi, o non sono.
E invece, rivedendola oggi attentamente, quella partita, non riesco a provare gli stessi sentimenti, la stessa compassione sul palo che sarebbe potuto valere la coppa per i giallorossi, e la gloria sempiterna per il Principe. Mi resta impresso il brutto gesto del fallo su Scifo, e mi sembra quasi che i galloni di capitano finiscano per liquefarsi in una pozzanghera di demerito.
Il palo arriva al minuto 4.30 di questo video.
Principe senza trono
Il 6 Marzo 1994 si gioca il derby di Roma.
Le due squadre sono reduci da sette pareggi di fila nella stracittadina: all’andata, che è anche stato il primo derby di Franco Sensi da presidente dei giallorossi, al gol con un gran tiro al volo dal limite dell’area di Giovanni Piacentini, ha risposto Fabrizio Di Mauro, un ex.
Dopo 7’ della partita di ritorno la Lazio va in vantaggio, con un gol di Signori dai confini onirici, immerso in una nube di nebbia e fumogeni. Nel secondo tempo un giovane talentuoso attaccante, Francesco Totti, si incunea nell’area laziale e viene steso da Paolo Negro. Sul dischetto si presenta Il Principe: davanti a lui c’è Marchegiani, trafitto tre volte nella finale di Coppa Italia della stagione precedente.
Giannini in carriera ha calciato 25 rigori: 19 sono andati a segno, 6 no. E di quelli segnati, 7 non sono comunque serviti a evitare alla Roma una sconfitta (10, se ci mettiamo i tre in fin dei conti inutili con il Torino nella finale di Coppa Italia).
Forse per questo c’è qualcosa di decadente, nel suo calciare dagli undici metri. Non è nichilismo o rassegnazione, quanto una specie di consapevolezza interiore. Resta il fatto che in quel derby, dal dischetto, Giuseppe Giannini sbaglia.
Il giorno successivo i giornali titoleranno: «I Signori hanno vinto e i Principi sono scesi dal trono definitivamente». Il corsivo è mio, e serve a cristallizzare una sensazione, e cioè che il declino di Giuseppe Giannini, anche se si sarebbe protratto ancora un po’ nel tempo, è iniziato quella sera; quella in cui subito dopo la partita Franco Sensi disse: «Chi non è capace di segnare un rigore nel derby non è degno di indossare questa maglia»; quella in cui il Principe, con i suoi modi scattosi, la permalosità dal grilletto lento, rispose: «Ha detto così? Se la ricorda Sensi la finale di Coppa dei Campioni? E quella del 19 Giugno scorso in Coppa Italia? Era lui il presidente quando segnai tre rigori a Marchegiani?».
La rabbia gli offusca la vista e gli cancella i ricordi:. «Non me lo ricordo nemmeno, il rigore» (da La Stampa del 7 Marzo).
Tra Franco Sensi e Giuseppe Giannini non c’è mai stato amore. Quando alla vigilia della gara di andata con lo Slavia Praga la Roma, a Parma, non riesce a pareggiare proprio per colpa di un rigore sbagliato al ‘90 da Giannini, il presidente dice: «Quando ci danno un rigore che facciamo noi? Lo buttiamo via».
Parla in prima persona plurale, ma si capisce che ce l’abbia con il suo capitano. In quel momento particolare, come spesso è accaduto, lo spogliatoio della Roma sembra la stiva del Bounty, e Carletto Mazzone un William Bligh più verace, che si limita a commentare: «Non ho deciso io chi avrebbe dovuto tirare il rigore».
Ci sono tutti i presupposti, insomma, affinché il vascello vada alla deriva. E non c’è deriva, in effetti, più drammatica di quella che ogni tifoso della Roma sa di poter scorgere nel rumore che fanno i flutti quando sbattendo sulla battigia sembrano sussurrare slaviapraga.
Di questo fermo immagine qua sopra ho un ricordo nitido: gli occhi di mio padre.
Stavamo guardando insieme la partita, come facevamo per tutte le partite della Roma, del resto. All’andata era finita 2-0 per i cechi. Al ritorno, nei primi minuti, Balbo colpisce una traversa. Poi Moriero segna il gol del vantaggio, quello che innesca la possibilità di rimonta, e ricordo nitidamente - una sensazione corroborata rivedendo la partita, ad anni di distanza - quel sentimento di infinitamente possibile che si era scatenato.
Perché la Roma, la partita di ritorno dei quarti di finale della Coppa UEFA 1995-96, l’ha giocata in maniera pressoché perfetta. Dominando. Attaccando all’arma bianca, col coltello tra i denti. Rispettando ogni particolare di quella mise en scene che è, in qualche modo, lo spettacolo del romanismo: la rincorsa a un’idea di perfezione che hai piuttosto chiaro in mente come possa sbriciolarsi, per un particolare storto, un refolo di vento, una parola fuori posto. Che poi, puntualmente, accade.
Era il 19 Marzo: la festa del papà, la festa di San Giuseppe.
Il compleanno di Mazzone.
Anche il calendario gregoriano si era prostrato all’apparecchiatura della mistica.
L’Olimpico di quella sera è un Ali Sami Yen più composto, più freddo, quasi austero. Il Principe, che è ormai in aperto conflitto con pressoché tutto - la presidenza, la tifoseria, l’ambiente - gioca una partita eccelsa: non sbaglia un passaggio, sprizza carisma. È Il Capitano.
Su YouTube circola il grab di un VHS (lo vedete qua sopra) uscito qualche tempo fa, che è una specie di kinbaku emozionale: Roma-Slavia Praga, cioè uno dei psicodrammi più vividi nella memoria dei tifosi, commentato da Giuseppe Giannini. Come se l’Istituto Luce avesse deciso di far commentare al Generale Cadorna le immagini della dodicesima battaglia dell’Isonzo.
Giannini, oggi, nel parlare della sua esperienza alla Roma, di cui quella serata è in qualche modo l’acme (che è di per sé piuttosto eloquente di cosa abbia significato la sua parabola giallorossa) ha sempre un tono tra il distaccato e l’urtato. Nel commentare Roma - Slavia Praga, a distanza di anni, a risultato conosciuto, finisce comunque per risultare non tanto malinconico, ma proprio stizzito, dispiaciuto. Molto genuino.
Quando si rivede segnare il 2-0 che porterà la Roma ai supplementari a 7 minuti dal novantesimo, e si rivede quindi sfilarsi la maglia, correre sotto la Curva Sud abbracciato a Francesco Totti, passare in rassegna con lo sguardo la tifoseria che sta già smettendo di essere la sua, lo senti da come gli trema la voce che avrebbe voluto un finale diverso. Per quella partita. Per la sua carriera.
Se Jiri Vavra non fosse mai nato, non avesse mai imparato a giocare a calcio, non fosse salito su un aereo per Roma per diventare il nome che al solo pronunciarlo evoca i demoni dell’inferno da quasi un trentennio, tra Giannini e la Roma sarebbe davvero finita come è finita?
Il giorno successivo disse: «Me ne vado, l’ambiente è troppo cambiato».
Magari era solo la delusione a parlare per lui. Invece finì davvero per andarsene.
Non potrà mai esserci solo un capitano
«C’è solo un capitano».
A mio padre, probabilmente, questa frase evoca il ricordo di Ago. A me, quello di Francesco Totti. A qualcuno magari De Rossi. A nessuno, quasi certamente, verrebbe di abbinare il nome di Giuseppe Giannini.
Eppure, il giorno della sua partita d’addio, il 17 Maggio di vent’anni fa, qualcuno uno stendardo che recitava così lo ha esposto, fieramente, in tribuna.
Nel Maggio del 2000 i tifosi della Roma sono esasperati.
La Lazio vince lo Scudetto, il presidente Sensi è contestato duramente.
Gli Internazionali di Tennis al Foro Italico sono a rischio sospensione, tanta è la tensione attorno allo stadio, sul lungotevere.
In questo contesto così totalmente avverso, Giuseppe Giannini sceglie - non poteva prevederlo, ovviamente, ma il destino ha fatto di tutto per assecondare ogni suo talento innato per la melancolia - di giocare la sua partita d’addio, dopo tre anni passati fuori da Roma, allo Sturm Graz (e vabbè), al Napoli e al Lecce (queste ultime due maglie, per qualcuno rappresentano un tradimento imperdonabile).
Si materializza in campo sollevato da una piattaforma che lo eleva da una botola nel camminamento sotterraneo sotto la Curva Sud. Intorno ci sono qualche fumogeno, fuochi d’artificio che strepitano sommessi: è un’apparizione un po’ posticcia, da Circque du Soleil raffazzonato.
Sullo spicchio di cielo che sovrasta l’Olimpico si materializza un aereo da turismo, trascina uno striscione con su scritto «Lazio Campione».
«Scusate, sono emozionato, nervoso. Purtroppo, per un eccesso d’amore, per uno sfogo della rabbia di questi giorni… vi ringrazio, non doveva finire così, ma con qualcosa di meglio».
Quando mancano una ventina di minuti alla fine dell’esibizione tra Roma e Italia del Mondiale del ‘90 alcuni - molti, in realtà - tifosi si riversano in campo. È un’aggressione bonaria, ma decisa.
Strappano zolle, divelgono i pali della porta, abbattono la traversa.
Anche se la serata poco odora di AS Roma - la rappresentativa giallorossa è in campo con una maglia farlocca, con dei toni di giallo e rosso più evocativi che rispondenti al vero, la società non è minimamente coinvolta nell’organizzazione della partita - tutto sa di romanismo: la frustrazione, lo sfogo, la distruzione del momento.
Giannini ha provato a calmare gli animi: nessuno gli ha dato ascolto.
Allora è sceso nello spogliatoio per riemergere in lacrime, dieci minuti dopo, mentre in campo ci sono gli agenti in tenuta antisommossa. Torna in campo con Renato Zero, che avrebbe dovuto cantare «I migliori anni della nostra vita» in suo onore, ma non lo farà. Parla al microfono abbracciato a Bruno Conti, che ha un’espressione più imbarazzata che rattristita, e Francesco Totti, che invece è glaciale e forse sta già pensando alle ragioni del campo, a quanto dovrà sobbarcarsi il peso della croce l’anno successivo per sovvertire le gerarchie capitoline (e ci riuscirà).
Giannini, in tutto questo, è il compianto vedovo, che recita contrariato il suo epitaffio.
Il rigore sbagliato nel derby. Roma-Slavia Praga. La partita d’addio del Principe. La trimurti dell’iconografia gianniniana poggia su tre momenti agrodolci, che nessuna Coppa Italia, nessuna cavalcata quasi trionfale in UEFA potrà mai controbilanciare.
Forse è vero: non sarebbe dovuta finire così.
Specialista in addii amari?
Mi sono fatto l’idea che l’addio di Giannini, quello rovinato, quello per il quale i tifosi hanno trovato il tempo di esporre uno striscione che recitava «SCUSA», non sia stato il vero addio del Principe.
Quattro anni prima, a Firenze, la Roma affronta i viola nella penultima giornata di Serie A. È passato un mese e mezzo dalla Waterloo con lo Slavia Praga, e i giallorossi hanno bisogno di punti per conquistare un posto in Europa per la stagione successiva.
La Roma stropiccia la Fiorentina con un sonoro 4-1. Dopo essere passata in svantaggio per via di un gol di Batistuta, pareggia con Balbo su rigore, e poi sale in cattedra il Principe, che con un passaggio al millimetro pesca Delvecchio che porta in vantaggio la Roma.
Ogni pallone giocato dalla Roma, quel giorno, passa dai suoi piedi. Lui amministra, guida, suggerisce il gioco: e poi taglia fendenti verticali.
Il Principe, quel giorno, si fa Re: però, poi, viene anche ammonito, ed è un giallo pesantissimo perché il Capitano era diffidato, e non potrà quindi essere in campo nella partita successiva con l’Inter. Alla fine, uscendo dal campo, scuote la testa, è in lacrime: in quel pianto si concentra tutta la disperazione per non poter salutare il suo popolo nell’ultima gara casalinga.
All’Olimpico, il 12 Maggio, la Curva Sud espone uno striscione, dice: «Solo chi la ama e chi soffre per la maglia ha il diritto di onorarla… Per sempre. Grazie Capitano».
Che l’ultimo messaggio d’amore dei suoi tifosi gli venga recepito in contumacia, mentre se ne sta in tribuna a scontare la squalifica, potrebbe voler dire qualcosa, qualcosa di molto banale e retorico, e cioè che Giuseppe Giannini si è sempre, in qualche modo, eclissato nel momento decisivo.
Per colpa sua, o semplicemente per sfortuna, o per una disgraziata congiuntura astrale. Chi lo sa se, in fondo, la storia avrebbe potuto avere davvero un finale così diverso.