Da dove si comincia quando si deve scrivere di Paul Millsap?
Un’idea sarebbe quella di partire da quando la madre Bettye ha portato il 13enne Paul e i suoi tre fratelli dalla Louisiana al Colorado, lontano da un padre abusivo e, loro malgrado, dal resto della famiglia. Un viaggio che i Millsap hanno ripetuto nel 1999, riunendosi tra gli altri con DeAngelo Simmons, fratello di Bettye e futuro agente di Paul. O raccontare di come i licei nei dintorni di Downswille non avessero un numero di studenti sufficiente a permetter loro di costruire roster adeguati di football americano, primo vero amore sportivo di Paul, che si trovò gioco forza costretto a ripiegare sul basket. Una storia certamente particolare, ma come se ne possono trovare mille altre negli States.
E allora, cos’ha di così speciale?
Non ha mai chiuso una stagione oltre i 18 punti realizzati di media, così come non ne ha mai chiusa una in doppia cifra alla voce rimbalzi catturati. Mai fatto parte di un quintetto All-NBA, e l’unica volta che si è guadagnato il premio come miglior giocatore del mese lo ha dovuto condividere con altri quattro compagni di squadra. Gli ultimi due contratti che ha siglato sono stati un biennale da 19 milioni di dollari e un triennale da 60, sul quale ha posto la firma con dodici mesi di anticipo rispetto alla corposa e prevedibile esplosione dei salari NBA. Un curriculum encomiabile per un giocatore scelto a secondo giro inoltrato, ma nulla di eccezionale.
E allora perché si dovrebbe andare pazzi per lui?
In nostro soccorso potrebbe venire una statistica curiosa, forse inutile, ma che nasce con il buon proposito di scovare i migliori all-around player della Lega, tenendo conto del numero di partite in cui un giocatore ha chiuso segnando almeno un “uno” in tutte le voci statistiche positive del tabellino classico.
Non è un caso, quindi, che dall’inizio della stagione 2013/2014 al Gennaio 2016, LeBron James, Draymond Green e Kawhi Leonard siano tra i migliori in questa particolare graduatoria: il Prescelto e Green con 27 partite, Leonard con 28. Rispettivamente 15 e 14 gare in meno rispetto a chi questa graduatoria la guida a quota 42: Paul Millsap. Il prodotto di Lousiana Tech, nel periodo in questione, ha chiuso per QUARANTADUE volte con almeno un canestro dal campo, uno da oltre l’arco, un libero realizzato, un rimbalzo offensivo e uno difensivo, un assist, una palla recuperata e una stoppata. E una cosa del genere non la fai se non sei un giocatore di pallacanestro maledettamente completo.
From zero to hero
Appena uscito da Lousiana Tech, però, le sembianze della futura 47esima scelta del Draft del 2006 si avvicinavano più a quelle di un gummy bear, e buona parte della sua reputazione faceva capo a un innato istinto per il rimbalzo che lo aveva portato a guidare la graduatoria della Division I in tutti i suoi tre anni al college. Il resto era tutto da costruire. Al camp pre-Draft di Orlando l’ex Bulldog non brillò particolarmente, anzi. I soli Utah Jazz si interessarono a lui, augurandosi che scivolasse fino a tardo secondo giro, dove effettivamente venne scelto. Nonostante un fisico ancora da scolpire, Millsap si guadagnò la fiducia dell’allora coach Jerry Sloan con straordinaria dedizione, diventando uno dei nove rookie nella storia dei Jazz a scendere in campo in tutte e 82 le partite della stagione di esordio, e affermandosi nel corso degli anni come uno dei migliori lunghi in uscita dalla panchina, finendo le partite in campo al posto di Carlos Boozer o di Memo Okur a seconda delle occorrenze.
Fingete di essere daltonici per un attimo e concentratevi sulla distribuzione dei tiri. A sinistra, la stagione 2008-09, la prima oltre i 30 minuti giocati di media con gli Utah Jazz: solo quattro tiri da oltre l’arco in tutto l’anno; 22.7% dalla media; 76% dentro l’area. A destra il 2013-14, prima stagione ad Atlanta: 20% da oltre l’arco; stessa percentuale nel mid-range; solo il 40% al ferro.
La sua qualità speciale ai tempi era quella di saper frugare nella spazzatura della partita per tirare fuori punti brutti ma utili, con giocate di energia, di intensità e di astuzia, quasi sempre nei pressi del canestro. Dopo l’addio di Boozer nel 2010 si è anche imposto come titolare al fianco di Al Jefferson, dimostrando di poter valere anche i minuti riservati a chi parte in quintetto e di non essere “solo” un uomo di energia, ma di saper allargare il suo range di tiro e di gioco per fare spazio a un artista del post basso come Big Al. Se si fosse fermato lì, avremmo potuto considerare la sua come una carriera più che onesta, decisamente sopra la media per una seconda scelta al Draft. Più di dieci anni dopo, riguardando i nomi di quel Draft, si farebbe fatica trovarne 5 per cui valga la pena spendere il pick prima di lui.
Incontrarsi ad Atlanta
La carriera di Millsap è stata, ed è tutt’ora, un inno all’etica del lavoro. Un passaggio fondamentale nel suo sviluppo è stata la firma con gli Atlanta Hawks il 10 luglio del 2013, solo un paio di mesi dopo che questi avevano consegnato le chiavi della squadra a coach Mike Budenholzer. In Georgia, il sistema di gioco di Coach Bud ha trovato in Millsap un esecutore ideale, e viceversa, il 31enne nato a Monroe, Louisiana, ha letto nello spartito dei nuovi Hawks le melodie ideali per mettere in mostra uno spettro di soluzioni offensive che è andato arricchendosi stagione dopo stagione. Nel suo primo anno ad Atlanta, per esempio, Millsap ha scoccato 212 tiri da oltre l’arco, mandandone a segno il 35.8%, quando nelle precedenti sette stagioni con i Jazz ne aveva tentate complessivamente 113, realizzandone 31.
Tre di quelle 31 se le ricordano bene all’American Airlines Arena, dove il 9 novembre 2010 Millsap mandò a segno le triple numero tre, quattro e cinque della sua carriera, dando un contributo fondamentale alla vittoria dei Jazz sugli Heat di James, Wade e Bosh.
Nelle successive stagioni in maglia Hawks si è sempre mantenuto sopra le 200 triple tentate, in perfetta armonia con un sistema di gioco fatto di spaziature e decision-making istantaneo, e — dettaglio tutt’altro che trascurabile — in perfetta armonia con il suo compagno di frontcourt Al Horford. Oggi l’ex Florida è un giocatore dei Boston Celtics, rimpiazzato ad A-Town da un Dwight Howard che, in cerca di riscatto nella sua città natale, sembra esser partito con l’atteggiamento giusto, e che nell’inizio di stagione più che positivo di Atlanta (9W e 4L al momento di scrivere questo pezzo) ha senza dubbio i suoi meriti.
La convivenza tecnica tra Millsap e l’ex Magic, però, rimane uno dei rebus irrisolti di questa nuova versione degli Atlanta Hawks: con entrambi sul parquet, infatti, il net rating della squadra è il più basso tra le lineup formate da Millsap e un compagno, +1.8, dato che cresce di dieci volte se all’ex Jazz affianchiamo il primo lungo in uscita dalla panchina, Mike Muscala.
Pur rimanendo all’interno di un sistema di gioco estremamente bilanciato, è indubbio che con la partenza di Horford il 4 degli Hawks sia stato chiamato a fare un passo avanti, a prendersi più responsabilità e fare da punto di riferimento. E se nella metà campo offensiva le sue peggiori cifre stagionali in quanto a percentuale dal campo e palle perse sono sintomatiche di un ingranaggio ancora da oliare, quando si tratta di difendere il proprio canestro Millsap continua ad avere più funzionalità di un coltellino svizzero.
Nonostante le apparenze Millsap è un eccellente stoppatore, ha gambe rapide e mobili che gli permettono di tenere l’uno contro uno di giocatori più piccoli e agili di lui, e allo stesso tempo gode di una straordinaria forza nella parte superiore del corpo, con la quale affronta ad armi pari lunghi cui cede regolarmente centimetri e chilogrammi. I suoi 218 centimetri di wingspan gli consentono di disturbare un’infinità di linee di passaggio — ottavo tra le ali per deflections a partita e quinto per tiri contestati — e di numeri che ne certifichino ulteriormente la malleabilità se ne potrebbero trovare a dozzine. Quello che i numeri non riescono a dire, paradossalmente, è l’esatta la ragione per cui i numeri stessi esistono.
C’è un video su YouTube che lo vede protagonista assieme a LeBron James in Gara-1 delle Finali di Conference del 2015. Ha un titolo da click-bait e una rivedibile qualità delle riprese: Cleveland è a un minuto dal portarsi a casa la prima delle quattro partite necessarie, e Millsap si è andato ad appiccicare a James poche spanne dopo la linea di metà campo.
Il quattro volte MVP mette palla a terra, e con uno scaltro movimento dell’avambraccio manda Millsap con il culo per terra. Punta allora verso il centro dell’area, assorbe un paio di contatti e, sale al ferro per depositare un layup neanche troppo difficile. È in quel momento che riappare Millsap, materializzandosi tra James e il canestro e piantando una stoppata che dà il la al contropiede degli Hawks.
La mentalità di Paul Millsap, volendo, sta tutta lì: nell’andarsi a prendere il miglior giocatore al mondo dove non è necessario che venga fatto, nel rialzare il culo da terra così velocemente da non dare tempo al parquet di bagnarsi, nel fare sempre tutto il necessario per raggiungere l’obiettivo, e qualora questo non fosse sufficiente, nel tornare alla ricerca del miglioramento e del perfezionamento. Nel lavorare duro e nel lavorare sempre.
Ci sono solo otto giocatori che, da quando la Lega ha iniziato a tracciare stoppate e recuperi, hanno medie in carriera pari o superiori a quelle di Millsap, con due postille: Bob Lanier, David Robinson e Hakeem Olajuwon sono gli unici ad aver una percentuale dal campo complessiva migliore, e Millsap è l’unico tra questi sotto i 30 minuti giocati di media.
Paul Millsap non eccellerà mai in niente, e non raggiungerà mai picchi di rendimento in nessuna fattispecie. Molto più semplicemente, è e resterà il migliore nel saper fare così tante cose, così bene. E nonostante le due convocazioni all’All-Star Game raccolte in carriera, rimarrà uno dei segreti meglio nascosti dell’intera NBA.