Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
L'ultima Coppa delle Coppe
20 apr 2020
Nel 1999 la Lazio è stata l'ultima vincitrice di un trofeo che non esiste più.
(articolo)
17 min
Dark mode
(ON)

Il 27 agosto del 1998 Roma sta pian piano tornando a popolarsi dopo gli esodi a cavallo di Ferragosto. È una città che vive con la sua endemica lentezza il ritorno all’attività, perché il caldo picchia senza sosta e le ferie sono ancora postumi da smaltire e ricordi da rivivere nei rullini fotografici portati a sviluppare. Il malcontento, come da tradizione, serpeggia soprattutto nei bar, che anche a distanza di più di vent’anni restano forse l’ultimo avamposto di una romanità via via svanita, dall’animo sempre meno nobile e sempre più involgarito.

Nel 1998 i social network sono una meteora, e allora nei bar si parla di tutto. Di politica, di lavoro, di vita. Di calcio. È il giorno in cui la seconda Roma di Zdenek Zeman viene presentata al suo pubblico. Esistono ancora le amichevoli di presentazione, Franco Sensi e la sua società hanno convinto il Santos a scomodarsi, anche se con una formazione infarcita di riserve visto il campionato ancora in corso, forse come clausola extra nel contratto di cessione di Vágner Rogério Nunes, per tutti Vágner, impastato centrocampista brasiliano che aveva lasciato il segno in città soltanto per la sua smodata passione per le banane. Una predilezione che aveva disgustato Abel Balbo durante il ritiro del 1997: lo stomaco dell’argentino non aveva retto alla visione delle banane spezzettate e inserite nella pasta al sugo.

Ora c’è fermento, voglia di vedere l’ultimo acquisto. È un attaccante argentino dalla faccia spavalda. Capelli biondi, l’elastico a tenerli insieme, lo sguardo da conquistatore di chi potrà apprezzare le leggere notti romane. Lo chiamano “El Facha”, Gustavo Javier Bartelt, e ha firmato un quadriennale da 1,5 miliardi di lire a stagione, dopo esserne costato circa 13 in un’estate in cui il club aveva avvicinato nomi di ben altro calibro: non più tardi di venti giorni prima, il patron Sensi aveva sbandierato ai quattro venti la voglia di portare nella Città Eterna un giovane francese. «Bartelt tocca bene il pallone e vede la porta, è un buon acquisto, ma noi puntiamo ancora su Trezeguet. Ci ho parlato due giorni fa, in spagnolo: vorrebbe venire a Roma anche a piedi ma il problema è il suo presidente, che non vuole cederlo. Siamo molto attivi sul fronte degli attaccanti, ne stiamo trattando parecchi, tutti giovani. Anche Ventola era tra questi, ma ci è sfuggito perché si è messo di mezzo il suo procuratore, che è interista e l'ha portato alla squadra per la quale fa il tifo», aveva dichiarato il 7 agosto. Zeman avrebbe presentato a Sensi una lista con sopra tre nomi: Trezeguet, Shevchenko, Inzaghi.

I sostenitori raccolti sugli spalti dell’Olimpico, quel 27 agosto 1998, oltre a notare l’assenza di tutti e tre, iniziano a fare i conti con una voce. A Roma sta per arrivare un quarto nome, ma non per vestire il giallorosso. Christian Vieri ha detto sì alla Lazio, mandando Sensi su tutte le furie e acuendo ulteriormente la sindrome da rientro in città del popolo romanista. Più o meno di pari passo, il prezzo del latte della Centrale del Latte di Roma era aumentato di 100 lire, da 2.100 a 2.200. Da qualche mese, il comune aveva ceduto il 75% delle quote dell’azienda a Sergio Cragnotti, patron della Lazio. I tifosi della Roma fanno 2+2: l’aumento del latte ha permesso ai biancocelesti di sborsare i 50 miliardi richiesti da Jesus Gil. Poco importa che, di quei 50, la Lazio debba versarne in realtà soltanto 17, avanzando un credito di 33 miliardi dalle precedenti cessioni ai “colchoneros” di Jugovic e Chamot.

A Roma scoppia la guerra, anzi, lo sciopero. Lo sciopero del cappuccino. Le linee telefoniche dell’associazione “Bar, latterie e gelaterie” vengono prese d’assedio da gestori di bar e semplici clienti, che chiedono di iniziare ad acquistare il latte dalle centrali di Terni o Perugia. I giornali vanno a nozze, nei giorni successivi è la sagra del vox populi: romanisti inferociti pronti a dire la loro. «Bisogna fermarlo, altrimenti a forza di cappuccini si compra pure Ronaldo»; «Fino a ieri i miei figli la mattina bevevano latte, vorrà dire che da domani gli insegnerò a fare colazione con un buon bicchiere di vino dei Castelli, che non fa mai male»; «Quello che sta facendo Cragnotti non è etico, non è giusto che a tirare fuori i cinquanta miliardi per pagare Vieri siano i cittadini comprando il latte. Se proprio vuole fare il Berlusconi, lo faccia con i suoi soldi, tanto non gli mancano».

In un mercato in cui Cragnotti aveva già sottratto Dejan Stankovic alla concorrenza romanista, in casa Roma volano gli stracci. Zeman aveva fatto ironia dopo l’affare legato all’ex capitano della Stella Rossa: «Non l’ho bocciato dal momento che ero stato io a segnalarlo, ho solo suggerito alla Roma di ritirarsi dalla trattativa quando la stessa aveva preso una certa piega». Troppo costoso, dunque: «Hanno pagato una mela centomila lire», aveva detto riferendosi ai 24 miliardi spesi da Cragnotti, salvo poi dare l’ok all’operazione da 18 miliardi per Ivan Tomic, che a differenza di Vágner non sarebbe riuscito neanche a farsi ricordare per i suoi gusti gastronomici. Sensi scarica su Zeman le colpe del mancato assalto a Vieri: «Mi ha detto che non era il centravanti adatto al suo gioco».

Otto mesi e una manciata di giorni più tardi, al Villa Park di Birmingham, Bobo Vieri è in campo con un turbante intriso di sangue. Si sta giocando la finale di Coppa delle Coppe, l’ultima della storia: la UEFA ha deciso di mandare il torneo in soffitta, accorpandolo alla Coppa UEFA. In mezzo, tra il 27 agosto e il 19 maggio, un grave infortunio al ginocchio sinistro, un girone di ritorno da re, uno scudetto prima assaporato e poi visto svanire. Manca ancora l’ultima di campionato ma il Milan è davanti, anche grazie al colpo di coda della Roma di Zeman nel derby. Con Delvecchio e senza Bartelt, raro (se non unico) caso di attaccante capace di legare il suo nome a un’unica partita senza neanche andare a segno: Roma-Fiorentina, pazzesca rimonta firmata da Alenichev e Totti e dalle giocate del “Facha”.

In quel momento, a Birmingham, si incrociano tante storie. Quella di Vieri, che forse non lo sa ancora, ma sta per lasciare la Lazio. Quella di Sven-Goran Eriksson, e lui sì, lo sa benissimo che perdere quella finale vorrebbe dire perdere il posto. Quella di Fabio Capello, in postazione insieme a Bruno Pizzul, secondo gli addetti ai lavori il principale favorito per la panchina biancoceleste. Quella di una coppa nobile, vinta da trentadue squadre diverse in trentanove edizioni, mai due volte di fila dallo stesso club, con l’albo d’oro aperto da un’italiana, la Fiorentina, nel 1960-1961, e chiuso proprio dalla Lazio.

Vieri in azione con la maglia della Lazio. Foto di Marco Rosi / Lapresse.

Ex protetto di Serafino Ferruzzi e braccio destro di Raul Gardini, nel mondo della finanza Cragnotti è visto come un uomo abilissimo, uno squalo pronto a tutto, sceso dalla nave Enimont poco prima del collasso (pur dovendo in seguito patteggiare pochi mesi di reclusione nell’ambito del crac). «È una fattucchiera», disse di lui Enrico Cuccia, e le leggende sul suo conto, più o meno confermate, si sprecano. Salito alla ribalta con la Cragnotti & Partners, si era poi buttato nel mondo del calcio rilevando la Lazio, infilando una scalata dopo l’altra nei vari settori dei suoi affari: De Rica, Cirio, Bompril, Polenghi, Royal Food, la suddetta Centrale del Latte di Roma. Adesso Cragnotti vuole vincere i trofei che contano anche nel mondo del calcio. Ha già visto i suoi alzare al cielo dell’Olimpico la Coppa Italia, 40 anni dopo l’ultima volta: una doppia finale con il Milan che sembrava persa, trasformata per incanto dal meno previsto e prevedibile dei protagonisti, Guerino Gottardi.

Nell’estate del 1998, consegna a Eriksson una corazzata. Oltre a Stankovic arrivano Marcelo Salas, scintillante nella sua esperienza al River e nel Mondiale francese; Sinisa Mihajlovic, scudiero del tecnico svedese, un’arma impropria sui piazzati; Sergio Conceiçao, subito nel cuore dei tifosi biancocelesti con il gol vittoria al 94’ in Supercoppa italiana al cospetto della Juve. Inoltre, in una maxi operazione con il Barcellona, ben prima dell’approdo di Vieri, Cragnotti si era aggiudicato uno dei nomi più à la page del calcio europeo: Iván de la Peña è uno dei botti dell’estate, con lui arriva anche Fernando Couto, al ritorno in Italia dopo la parentesi di Parma.

Eccezion fatta per la Supercoppa, l’inizio di stagione è da dimenticare. La vita biancoceleste del “Piccolo Buddha” è tutta in un’azione del primo tempo di Piacenza-Lazio, prima di campionato: scambia con Salas, entra in area dopo un paio di dribbling, spara col destro e vede il pallone schiantarsi sulla traversa dopo il tocco leggero ma decisivo di Marcon. È una porta girevole presa al contrario, per mesi i tifosi laziali si ritroveranno a convivere con l’idea di cosa sarebbe stato di de la Peña se quel tiro fosse entrato. Tre anni più tardi, con un altro spagnolo arrivato fra gli squilli di trombe, sarebbe accaduto lo stesso dopo un palo folgorante colpito da Mendieta ad Eindhoven. A Piacenza entra Stankovic, la mela pagata centomila lire, e scaglia un missile sotto la traversa da 25 metri. Pareggia un giovane attaccante che in futuro avrebbe avuto qualcosa a che fare con la Lazio: si chiama Simone Inzaghi, ma non è la storia che ci interessa in questo momento. Vieri va KO in una partita di Coppa Italia a Cosenza, Nesta è ai box dai tempi del Mondiale, con il ginocchio che ha fatto crac contro l’Austria per un’entrata di Pfeifenberger. E la Lazio, partita tra le favorite anche in campionato, si ritrova a zoppicare ovunque, Coppa delle Coppe compresa.

Proprio Stankovic si fa espellere dopo due minuti dell’andata di sedicesimi contro il Losanna per un fallo di mano sulla linea di porta, Marchegiani respinge il rigore di Celestini ma al fischio finale i biancocelesti devono accontentarsi di uno scialbo 1-1. A far divampare il malcontento dei tifosi è però la maglia scelta dalla società per la cavalcata europea: non tanto per il giallo-nero, quanto per l’abbinamento dello sponsor. Il marchio rosso, inconfondibile, della Del Monte, manda su tutte le furie i sostenitori biancocelesti. A Losanna la Lazio sbanda pesantemente, a prescindere dalla maglia. La salva Roberto Mancini in versione assist-man: due inviti al bacio per Salas e Conceiçao, il 2-2 basta e avanza per andare agli ottavi.

Il sorteggio non è dei più fortunati, anche se la Coppa delle Coppe, con la UEFA ancora in auge e la Champions League aperta alle prime due dei campionati, non è certo la competizione nobile di un tempo. I romani pescano il Partizan Belgrado, e lo 0-0 dell’Olimpico non aiuta in vista del ritorno. Nella tana dei serbi, Eriksson trema: diciotto minuti e segna Krstajic. Salas si guadagna e trasforma il rigore del pareggio ma è ancora lunga. Dentro Stankovic, che in questa parte di stagione, per il tecnico svedese, è il cambio di Conceiçao sulla fascia destra. Divenuto capitano della Stella Rossa a poco meno di diciotto anni, per il serbo c’è aria di derby. Legge un pasticcio della difesa del Partizan, entra in area, segna l’1-2 e mostra polemicamente l’orecchio dopo essere stato travolto dai fischi sin dal riscaldamento. Salas chiude i conti e la Lazio va ai quarti, l’urna stavolta è dolcissima: quando spunta la pallina del Panionios, i biancocelesti si sentono già in semifinale.

Di Coppa delle Coppe se ne riparla soltanto a marzo, e nel frattempo la Lazio è diventata grande, grandissima. Sono tornati Nesta e Vieri, Bobo mette in porta praticamente ogni pallone che tocca. I ragazzi di Eriksson sono convinti di avere il tricolore in tasca, errore che si rivelerà fatale a inizio aprile, quando usciranno dal ciclo Milan-Roma-Juventus con un misero punto e alimentando i sogni di rimonta, poi concretizzati, dei rossoneri di Zaccheroni. In Europa, contro il Panionios, lo svedese può sperimentare: Vieri scende finalmente in campo anche in Coppa – il regolamento UEFA del tempo glielo aveva impedito nei primi turni – e l’andata è una passeggiata, uno 0-4 firmato ancora da Stankovic (doppietta) che non solo ipoteca il passaggio del turno, ma permette a Eriksson di presentarsi al ritorno con una formazione senza attaccanti. Il portiere del Panionios è Strakosha, padre dell’attuale portiere biancoceleste, e viene trafitto tre volte all’Olimpico, con la Lazio schierata con un 4-4-2 che ha in Stankovic-de la Peña l’improbabile coppia d’attacco. Segna anche lo spagnolo, fissando il 3-0: piovono applausi di liberazione, ma la sua stagione era e resta un flop.

Tra le quattro semifinaliste, delle favorite di inizio anno manca il Paris Saint-Germain, che non è quello dei milioni del Qatar ma è comunque una formazione di buonissimo livello, che ha in Marco Simone il riferimento tecnico ed emotivo e in Jay-Jay Okocha l’erede della numero 10 lasciata dal brasiliano Rai. I parigini sono out già dai sedicesimi di finale, eliminati dal Maccabi Haifa, un’umiliazione costata la panchina ad Alain Giresse. Destino analogo per il Newcastle, estromesso dal Partizan, e per il Duisburg, demolito (6-1 di punteggio complessivo) dal Genk. Nella strada verso la finale, sono rimaste in piedi soltanto Chelsea, detentore del trofeo, Mallorca e Lokomotiv Mosca.

Alla Lazio toccano i russi, e tutto sommato è un bell’andare. Ma la doppia sfida con i moscoviti capita nel bel mezzo del miniciclo decisivo per il campionato, ed Eriksson ha in mente soltanto lo scudetto. I giornali russi presentano il match d’andata puntando tutto sul dislivello economico: Vieri costa più di tutta la squadra che dovrà affrontare. A parole, il tecnico svedese dice di non pensare all’imminente derby. Mente. Ripesca de la Peña dal primo minuto nel cuore di un centrocampo ormai abituato a sopportare addirittura la presenza da titolare di Roberto Mancini, riconvertito in mediana dal momento del rientro di Vieri dall’infortunio: Almeyda corre per quattro e allora il “Mancio” centrocampista centrale è un rischio calcolato. C’è anche Lombardo dal primo minuto, riposa Nedved, molto utilizzato in Coppa e spesso accantonato in campionato a causa del complesso calcolo legato agli extracomunitari. La Lazio va sotto nella ripresa, Eriksson rimette dentro Mancini in tandem con Boksic, la coppia che aveva regalato meraviglie per qualche mese nella stagione precedente e aveva portato all’esaurimento nervoso Beppe Signori, costretto a fuggire lontano dalla Lazio e dal “rettore di Torsby”.

Per qualche istante ci riescono ancora. Cross di Stankovic da destra, Mancini a centro area si esibisce nel gesto tecnico che forse lo ha contraddistinto maggiormente nell’arco di una carriera all’insegna dei numeri a effetto: il colpo di tacco sprezzante, eseguito con la disinvoltura di chi sta giocando in un parco e non in una semifinale europea. Gli assist di tacco di Mancini erano altezzosi, smazzati con un’aria di sufficienza che rovesciava le viscere dei difensori, costretti a subire un gesto allo stesso tempo semplice eppure impossibile da contrastare. Per Mancini era davvero la cosa più naturale del mondo, e infatti alle sue spalle spunta Boksic, un cyborg progettato per essere il centravanti del 2030, se solo non avesse avuto dei muscoli di cristallo e la cronica incapacità di andare in doppia cifra.

Era un animale difficile da decifrare, il gigante di Makarska, con quella faccia da serial killer e i piedi in grado di inventare un calcio troppo tecnico per essere stato partorito da un corpo così arrogante. Sergio Cragnotti ne era innamorato, lo aveva strappato a Bernard Tapie mentre l’Olympique Marsiglia stava per affondare nel guano dello scandalo Valenciennes, se ne era liberato malvolentieri assecondando il testa contro testa tra il croato e Zeman, cogliendo però al volo l’opportunità di riacquistarlo dalla Juventus un anno più tardi. L’unico momento in cui lo spietato pragmatismo della “fattucchiera” aveva lasciato spazio al sentimento. Boksic lo aveva ripagato con la sola escursione sopra quota 9 gol della sua carriera italiana, ovviamente al fianco di Mancini.

Alle spalle del numero 10 spunta quindi il croato, fermo a zero gol (e pochissime presenze) a causa dell’ennesimo infortunio della sua carriera. L’unico timbro della sua stagione arriva qui e ora, con una zampata di esterno destro sull’uscita del portiere. Si strappa la maglia di dosso e sembra ancora più grande del normale, con quelle braccia lunghissime aperte, poi l’indice alle stelle, la bocca spalancata. Un campionario di movenze che potrebbero essere definite “classic Boksic”: cercando le sue immagini in giro per il web, lo troverete o in corsa con le braccia larghe, o con il volto deformato e quell’indice lungo mezzo metro dritto verso il cielo.

Questa rete proietta di fatto la Lazio a Birmingham, all’ultima finale di Coppa delle Coppe della storia. All’Olimpico finisce infatti 0-0, perché i biancocelesti hanno improvvisamente paura di tutto. Sentono il fiato del Milan sul collo, i giornali tracciano il profilo di uno spogliatoio spaccato in clan, con gli ex sampdoriani vogliosi di comandare (Mancini, Mihajlovic e Lombardo). A nulla pare servire l’opera diplomatica di Julio Velasco, scelto da Cragnotti come tramite tra squadra e società. Alla finalissima del 19 maggio, la Lazio ci arriva da seconda in classifica. Ha subito il sorpasso quattro giorni prima, in una sfida all’ultimo sangue con la Fiorentina, segnata da un Batistuta in stato di grazia.

Cragnotti è pronto a cambiare, la targhetta di perdente di successo non sembra volersi scollare dalla figura di Eriksson, sul mercato c’è un Fabio Capello che non aspetta altro, fresco di rescissione con il Milan dopo l’addio dell’estate del 1998. La RAI lo ha messo sotto contratto e lo manda a Birmingham per affiancare Bruno Pizzul. Per la Lazio è la seconda finale europea consecutiva dopo il KO contro l’Inter in UEFA di dodici mesi prima, il primo a sapere di non poter sbagliare è proprio Eriksson, mentre Capello viene definito dalle cronache «il condor che volteggia sulla panchina».

Non trova il Chelsea, ma il rampante Mallorca di Hector Cuper, passato nel giro di due anni dalla Segunda al palcoscenico di Birmingham, oltre a un piazzamento d’eccellenza nella Liga. Gli uomini più temuti sono gli esterni Lauren e Jovan Stankovic e la coppia d’attacco Biagini-Dan. Nella scelta della formazione, Eriksson deve soppesare ogni singola mossa. Alla fine c’è Stankovic a destra al posto di Conceiçao, Mancini è regolarmente in mezzo al centrocampo a 4, Vieri-Salas davanti. Bastano sette minuti per il primo squillo. Quello di Pippo Pancaro è un pallone complicato da descrivere, una sorta di cross lungo una sessantina di metri, un lancione che si riscopre ambizioso soltanto perché dall’altra parte dell’arcobaleno c’è la testa al tritolo di Bobo Vieri. Il gigante laziale racchiude nei muscoli del collo una forza spropositata per trasformare il niente in tutto. Roa è sorpreso e smanaccia soltanto, il 32 può correre davanti ai tifosi laziali.

Pare l’inizio di una notte all’insegna della serenità, niente di più sbagliato. Dani pareggia subito, e il Mallorca sa come mettere in crisi la Lazio. Gli spagnoli giocano meglio, i biancocelesti si aggrappano alla fisicità di Vieri, in campo per buona parte della finale con la testa bendata e intrisa di sangue dopo uno scontro aereo, e a quella di Almeyda, unico a tenere l’onda d’urto degli avversari. Non si può neanche dire che ci sia aria di supplementari, perché nella ripresa sono Marchegiani e Nesta a salvare in tre occasioni la porta biancoceleste. La Lazio sta per perdere tutto in volata, anche in Europa come in campionato.

A nove minuti dalla fine, con il pallone che danza all’altezza della mezzaluna, il torpore che aveva avvolto Pavel Nedved più o meno dal mese di ottobre si scioglie all’improvviso. Nella memoria fisica del ceco c’è ancora qualcosa, nonostante un anno da dimenticare. Raccoglie il corpo, il soldato di Cheb, con la rapidità e la rabbia che ne hanno segnato la carriera. Ne esce un proiettile, più che un tiro. Va a baciare l’angolo alla sinistra di Roa e Pavel corre all’impazzata mentre Fabio Capello urla come se fosse già l’allenatore della Lazio: «È un gol fantastico!». I minuti che restano durano un’eternità, ma Birmingham è biancoceleste fino al triplice fischio dell’arbitro.

La panchina di Eriksson è salva per un pelo, Capello se ne fa una ragione e si accasa sull’altra sponda del Tevere: vinceranno il tricolore in successione, prima la Lazio, poi la Roma. Christian Vieri piangerà lacrime amare il 23 maggio alla notizia della vittoria del Milan a Perugia: dureranno poco, perché Cragnotti, fine stratega, lo sacrificherà in cambio di 69 miliardi e il cartellino di Diego Pablo Simeone, necessario per arrivare all’obiettivo Scudetto. L’argentino erediterà il coro che era stato riservato a de la Peña, perché anche in curva si segue il postulato di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Continuerà a trasformarsi anche Sergio Cragnotti, che dal picco del 2000 potrà soltanto scendere e lo farà in maniera assordante.

Sono passati ventuno anni, la Coppa delle Coppe è un ricordo lontano che qualcuno sta cercando di rianimare goffamente, Roma è sempre più pigra, sguaiata e volgare, anche se nei bar ogni tanto si parla ancora di calcio e di politica. E nessuno sembra preoccuparsi del costo del cappuccino.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura