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Come ha fatto la stagione della Lazio a complicarsi così tanto?
18 apr 2025
L'eliminazione col Bodo arriva al culmine di una seconda parte di stagione piena di interrogativi.
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14 min
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IMAGO / ABACAPRESS
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Nei due, tre, quattro minuti che passano tra la fine del primo e l’inizio del secondo tempo supplementare, come l’ascensore di Shining che si apre rovesciando litri e litri di sangue, davanti ai miei occhi si para, inarrestabile, un mostro. La Lazio ha appena sfiorato il 4-0 con un colpo di testa su un angolo battuto fuori tempo massimo da Tchaouna, flemmatico ai limiti dell’inverosimile a costo di indispettire il tedesco Siebert. Cerco di esorcizzare mandando un messaggio su Whatsapp a un tifoso del Torino, che di mostri, tragedie e presidenze contestate se ne intende. "Ho delle terribili Vavra vibes", gli scrivo, in un richiamo al celebre Roma-Slavia Praga.

Castellanos zoppica da almeno cinque minuti ma i cambi sono finiti, ed è un tema sul quale torneremo più avanti. Da Torino predicano calma, ma se le famiglie felici si somigliano tutte, quelle infelici lo sono ognuna a suo modo. E infatti la Lazio torna in campo fiacca, svagata, esausta, improvvisamente gravata non tanto da quei 105 minuti di fatica, quanto da otto mesi passati a rincorrere opinione pubblica e addetti ai lavori, a cercare prima di smentire osservazioni brutali e in seguito a provare a mantenere un livello di prestazioni che, semplicemente, non era sostenibile. I rigori sono un epilogo durissimo ma per certi versi comprensibile: mai, nella sua storia, la Lazio si era giocata una partita europea nella serie dagli undici metri.

Ma prima di arrivare al cataclisma, c’è tutto un mondo intorno. Più che la storia di un Lazio-Bodo Glimt che ha rinverdito l’album di insospettabili delusioni europee, questa è la storia di una stagione il cui percorso, da un certo punto in avanti, mi è sembrato sempre più prevedibile.

RIVOLUZIONE E ILLUSIONE

La Lazio che comincia l’annata nello scetticismo generale ha perso in un colpo solo tre dei leader tecnici dell’ultimo decennio: Luis Alberto, Felipe Anderson, Ciro Immobile. Dodici mesi prima era partito anche l’altro componente del quadrilatero, Sergej Milinkovic-Savic. La presenza in panchina di Marco Baroni, 61 anni, reduce dal capolavoro della salvezza alla guida dell’Hellas Verona, è figlia fondamentalmente di una presa di posizione di Igor Tudor, arrivato nel giro di pochi mesi dal suo insediamento allo scontro: stando ai ben informati, avrebbe chiesto la testa di Matteo Guendouzi, ma viene da sospettare che alla base ci fosse anche altro, come per esempio l’incapacità di raggiungere un accordo per il rinnovo contrattuale di Daichi Kamada, che era diventato improvvisamente centrale per il tecnico croato dopo essere stato guardato con sospetto da Maurizio Sarri per mesi, come se fosse lui il colpevole del mancato arrivo del suo pretoriano Zielinski.

È una Lazio rivista e rivoluzionata, quindi. Con alle spalle otto mesi di stagione, è ormai possibile fare un bilancio del mercato estivo: insufficiente il voto per gli acquisti di Tchaouna e Noslin (all’incirca 25 milioni di cartellino in due); appena sufficiente per quelli di Boulaye Dia (altri 11 milioni), Samuel Gigot (arrivato sul gong dopo aver spedito Casale a Bologna) e Dele-Bashiru, tutto sommato accettabile come rincalzo a basso costo; ottimo, con l'asterisco dei problemi fisici ricorrenti, per quello di Nuno Tavares; mentre totalmente persa la scommessa Castrovilli («Giocatore straordinario», lo aveva definito il DS Fabiani al momento dell’acquisto), nel frattempo passato al Monza.

La Lazio comincia zoppicando, batte il Venezia ma perde malissimo a Udine. A quel punto, con Dia per le mani, Baroni ha l’intuizione giusta: lo mette al fianco, o alle spalle, di Castellanos. È una grande idea, funziona, ma il tecnico non sa che sta per firmare da solo la sua condanna: stanti le difficoltà di Noslin, infatti, si ritrova con una squadra schierata sostanzialmente con un 4-4-2 ma priva di attaccanti di riserva presentabili. Una tassa che finirà per pagare più avanti, quando il corpo di Castellanos mostrerà i segni dell’usura.

I biancocelesti sorprendono, sono a tratti fisicamente dominanti pur alle prese con un tasso tecnico inevitabilmente in calo rispetto agli anni precedenti. Lo sono soprattutto in Europa, generando un entusiasmo contagioso. L’impatto di Baroni ricorda da vicino quello di Vladimir Petkovic, un altro arrivato in una distesa di sopracciglia inarcate: mesi di prodigi, primi posti in classifica a fine anno solare, poi il tracollo e una stagione che, quella volta, fu salvata dalla finale di Coppa Italia vinta contro la Roma dopo aver subito il sorpasso in classifica.

La Lazio fa corsa di testa per qualche mese in campionato e in Europa League, dove chiude da prima assoluta la fase campionato potendosi permettere addirittura di alzare le mani dal manubrio nel finale. Il primo campanello d’allarme suona il 16 dicembre: dopo mezz’ora giocata col sangue agli occhi contro l’Inter, con Noslin che spreca malamente il pallone del vantaggio (assente Castellanos), la Lazio cede di schianto al momento dell’ingresso in campo di Gigot. Alcuni principi difensivi dei biancocelesti sono mutuati dal calcio gasperiniano, spesso l’uomo avversario è il riferimento, e nessuno in Italia riesce a manipolare queste difese come Simone Inzaghi. L’Inter toglie il tappo alla partita su rigore per un mani di Gigot e finisce in una mattanza, 0-6.

Si pensa all’incidente di percorso, perché la Lazio è reduce dal suo momento più alto della stagione, la vittoria in casa dell’Ajax, e rivince subito a Lecce. Costringe poi al pareggio l’Atalanta con una prestazione di tutto rispetto. Ma nel frattempo si è fatto male anche Vecino, e Baroni si ritrova alle prese con una mediana a due costretta a presentare sempre Rovella e Guendouzi senza soluzione di continuità, e Nuno Tavares a sinistra che non è più la macchina sforna assist dei primi tre mesi di stagione.

Quella sera, Baroni chiude la partita con solo quattro cambi effettuati (Isaksen per Tchaouna, Dia per Zaccagni, Castrovilli per Castellanos, Pellegrini per Nuno Tavares). Al triplice fischio, al suo fianco, sono seduti in tre: Mandas, il terzo portiere Furlanetto, Gigot. Gasperini, all’Olimpico orfano di Retegui (e del lungodegente Scamacca), fa alzare dalla panchina Kossounou, Cuadrado, Samardzic, Zaniolo e Brescianini: sono gli ultimi due a confezionare l’1-1.

Il 2025 si apre con il derby, che la volpe Ranieri gestisce a piacimento sfruttando le lacune difensive della Lazio: scacco matto in 18 minuti con Pellegrini e Saelemaekers e poi il resto della partita trascorso con l’unico obiettivo, perfettamente riuscito, di rendere il tutto fangoso, mandando in tilt i vari Guendouzi, Castellanos e Rovella con mind games che sono ormai parte integrante della stracittadina della capitale di questi ultimi anni. A questo punto, il rendimento della Lazio si fa ondivago: a buone prestazioni se ne alternano altre sconcertanti, spesso impiccate da errori banali di Ivan Provedel, che numeri alla mano sta vivendo una delle peggiori stagioni della sua carriera, se non la peggiore.

Baroni, già alle prese con una coperta piuttosto corta, deve reintegrare in lista Hysaj e a gennaio attende con ansia rinforzi che non arrivano nonostante l’ennesimo grave infortunio (Patric). L’urna europea risparmia quella che sarebbe la guerra dei mondi, il derby agli ottavi di finale, ma la Lazio arranca persino contro il modestissimo Viktoria Plzen, aggrappandosi ai gol di Romagnoli e a una giocata senza senso di Isaksen al 98’ della folle partita di andata, finita in nove contro undici. Con il tracollo (5-0) di Bologna, però, il vento attorno alla Lazio è definitivamente cambiato.

FARE I CONTI CON LA REALTA'

La realtà più brutale è sempre quella: le stagioni non si decidono a novembre, ma ad aprile e maggio. La Lazio che arriva ad aprile è quella che tutti immaginavano a settembre: una squadra dal tasso tecnico più basso rispetto alle dirette concorrenti, e soprattutto rispetto a quelle che sono le ambizioni generate da una partenza a razzo.

Ciò che è peggio, però, è che ancora prima che la stagioni si complichi definitivamente su Baroni iniziano a circolare voci strane. Vengono alimentate, con una mossa quantomeno discutibile, da un’intervista concessa dal direttore sportivo Fabiani al Messaggero, ormai l’interlocutore principale del club con la stampa: «Aspetto la fine della corsa per vedere se c'è un pezzo che non va. Il discorso riguarda tutti, non solo il tecnico. Baroni analizzerà in prima persona cosa non è andato e faremo insieme un riflessione profonda per chiudere al meglio il finale di stagione in Europa League e in campionato. Cosa dovevano fare di più Fabiani e Lotito? La Lazio dominava in Europa e in campionato, abbiamo inserito tre giovani importanti in linea con il nostro progetto. Bisogna dare modo a questi ragazzi di mostrare le qualità e il talento. Se non giocano, è difficile che possano farlo», dice riferendosi al mancato utilizzo di Belahyane, Ibrahimovic e Provstgaard, i tre arrivati a gennaio.

In questo dibattito spesso si omette un dato rilevante: la Lazio non ha all’interno della lista di campionato e di Europa League giocatori cresciuti nel suo vivaio e deve affrontare la stagione cercando di allungare la rosa con i nati dal 2003 in avanti da aggiungere ai 21 consentiti dai regolamenti. Per questo è difficile capire la trattativa che ha portato Cataldi alla Fiorentina quasi gratis e l'indecisione nell'affondare nel mercato di gennaio per Folorunsho, giocatore che Baroni conosce bene per averlo allenato a Verona.

Interpellato in merito dopo Lazio-Fiorentina, partita giocata in maniera impeccabile dall’ex Hellas e vinta dai viola all’Olimpico, Fabiani aveva tolto seccamente la parola al giornalista che aveva posto la domanda sul perché non fosse arrivato alla Lazio: «Perché il mercato lo faccio io, non voi». Nel frattempo è esploso (e rientrato) il caso Luca Pellegrini, passato da prima alternativa di Nuno Tavares a fuori rosa, escluso dalla lista UEFA per fare spazio a Hysaj e da quella del campionato per reintegrare addirittura Toma Basic (minuti giocati in stagione: zero). Ma l’aggravarsi delle condizioni di Patric e la pace fatta tra le parti riportano Pellegrini in lista almeno per il campionato.

Ci si aspetta che il trittico Atalanta-Bodo-Roma generi un terremoto, invece la Lazio vince sorprendentemente a Bergamo con quello che è di gran lunga l’uomo migliore del suo 2025, Isaksen, e pareggia un derby che numeri alla mano avrebbe meritato di vincere. In mezzo, però, c’è il Bodo, e la prestazione della Lazio è angosciante. Ormai tra i pali c’è in pianta stabile Mandas, che ha tolto il posto a Provedel dopo la sosta, e il greco è l’unico a salvarsi in un naufragio che potrebbe assumere proporzioni epocali se non fosse per lui e per la scarsa mira dei norvegesi. La prova nel derby rinfranca l’ambiente, all’Olimpico si può provare a ribaltare il 2-0.

La Lazio entra male in campo, poi si rianima, prende le misure, va in vantaggio con Castellanos, la cui gestione tempo prima aveva generato un nuovo attrito a mezzo stampa con Fabiani («È normale che un allenatore cerchi di recuperare il prima possibile un attaccante che è sempre stato al centro del suo progetto. Ha pagato cara questa scelta»). La squadra di Baroni inizia a bombardare la porta del Bodo, concedendo qualche contropiede di tanto in tanto. I primi dieci minuti della ripresa fanno pensare a un 2-0 imminente ma il raddoppio non arriva mai, sempre per questione di centimetri, di passaggi più o meno lunghi, di conclusioni sghembe, flosce, poco convinte. È la qualità che manca, così come l’abitudine a notti di questo tipo: sono partite che impari a giocare solo giocandole, anche perdendole.

Nei 21 anni di presidenza Lotito, solamente due volte la Lazio aveva raggiunto i quarti di finale di una competizione europea: stagione 2012/13, con il già citato Petkovic che aveva fatto arrampicare i biancocelesti fino alla discussa sfida con il Fenerbahçe, trovando risorse in anfratti della rosa insospettabili (Libor Kozak chiuse quell’Europa League da capocannoniere con otto gol), segnata da un arbitraggio a dir poco discutibile a Istanbul; e stagione 2017/18, con la notte da incubo di Salisburgo, dallo 0-1 al 4-1 nel giro di 21 minuti, un blackout senza precedenti.

A leggere oggi la rosa della Lazio, appare evidente come i calciatori di caratura internazionale, abituati a questo tipo di partite, si contino sulle dita di una mano. Lo è certamente Guendouzi, che ieri sera è parso per larghi tratti un giocatore quasi alieno al livello tecnico della sfida; pur con gli acciacchi dell’età, lo è senza dubbio anche Pedro, sulla cui sostituzione al minuto 68 si potrebbe discutere. Lo saranno, con ogni probabilità, Gila e Rovella.

È il momento in cui Baroni ragiona come se non ci fosse più un domani: si gioca la carta Tavares al posto di un positivo Marusic, tiene in campo un Castellanos già boccheggiante per richiamare Pedro, che esce al posto di Dia. La Lazio agguanta il supplementare in maniera rocambolesca, rischiando due volte di soccombere: prima Høgh spara addosso a Mandas in uno contro zero; poi, al 91’, Helmersen fallisce un gol già fatto a porta vuota regalando il pallone al greco. Chiunque, in quel momento, pensa che in qualche modo il gol per il supplementare arriverà. Basta una zampata di Noslin in mischia per allungare il match.

Nei primi 15 minuti la Lazio vive il dramma dell’ennesimo infortunio muscolare di Tavares, che in lacrime toglie a Baroni anche l’ultimo cambio disponibile. A leggere l’undici in campo in quel momento, è evidente che la Lazio non ha molti rigoristi affidabili. Per fortuna Guendouzi, con l’ennesima giocata incredibile della sua serata, pennella sulla testa di Dia un cross impossibile da sbagliare. Una squadra scafata, a questo punto, avrebbe il compito di bucare il pallone, gestire possesso e tempi della partita. Si arriva così al gol sbagliato per il 4-0 e a un inizio di secondo supplementare in cui la Lazio, di fatto in dieci uomini perché Castellanos non è più in grado di correre senza zoppicare, lascia che a gestire tutto sia il Bodo, che va a dama con un’azione scolastica e una svista di Hysaj in marcatura su Helmersen.

A questo punto, i rigori sembrano un lusso. Il Bodo non spinge più, la Lazio ci prova, ma senza convinzione e soprattutto senza gambe. Baroni l’ha spremuta come un limone, ragionando come se i rigori non fossero un’opzione sul tavolo, e invece eccoli, i rigori, da affrontare con Pedro e Zaccagni (e volendo anche Isaksen e Rovella) seduti a guardare. A completare lo psicodramma, la prima parata di Mandas e il gol segnato da Dia, unico uomo rimasto in campo tra i laziali ad avere il physique du role del rigorista. Seguono due tentativi di trasformazione orripilanti di Tchaouna e Noslin. E quando Guendouzi trasforma il suo ha la faccia di uno che vorrebbe spaccare il mondo. Chissà se in quel momento, come me, si è domandato perché gli sia toccato il quarto rigore invece di provare a mantenere in piedi il momento positivo generato dalla parata di Mandas.

Berg, con il peso sulle spalle di un rigore che per la prima volta manderebbe una squadra norvegese in una semifinale europea, calcia dalle parti della Farnesina. Ed è qui, proprio qui, che succede qualcosa di impensabile, qualcosa che probabilmente soltanto i giocatori della Lazio potranno spiegare tra cinque, dieci, quindici anni. Sul dischetto si presenta Castellanos, reduce da venti minuti di crampi e zoppia, di calzini abbassati e pantaloncini alzati, di gambe stirate da compagni e avversari, di fatiche, botte e vaffanculo sparsi a destra e a manca. Baroni non fa un plissé. «Taty se l’è sentita, si sentiva protagonista», ha detto a fine partita. Si poteva fare meglio? Si potevano scegliere giocatori come Romagnoli o Vecino? O sono loro ad essersi tirati indietro?

In ogni caso, otto mesi di grande stagione finiscono così, sparacchiati debolmente verso la porta di Haikin che corre a godersi l’abbraccio più dolce del mondo senza nemmeno faticare.

Adesso è il momento della rabbia e dell’isteria, della ricerca dei colpevoli: colpa di Lotito, colpa di Fabiani, colpa di Baroni, colpa dei giocatori, colpa dell’ambiente. E quando è colpa di tutti, finisce per non essere mai colpa davvero di qualcuno, tranne forse che dell'allenatore, sempre il responsabile più facile da trovare, anche se come in questo caso gli deve essere dato il merito di aver provato a onorare tutte le competizioni pur avendo una rosa molto corta

All’orizzonte c’è un finale di campionato da lacrime e sangue, una vicenda Guendouzi tutta da chiarire (secondo chi era allo stadio dopo il triplice fischio il centrocampista francese è stato visto in un paio di occasioni alzare i toni nei confronti di Baroni dopo essere andato, praticamente da solo, sotto la curva), la possibilità che la Lazio rimanga fuori dalle coppe europee, scenario che non si verifica dalla stagione 2016/17.

Un'eventualità che avrebbe i contorni della beffa dopo quella che rimane ancora oggi una grande stagione e che chissà che ripercussioni avrebbe da un punto di vista finanziario, una società che da sempre punta di fatto all’autofinanziamento. Ogni volta la prima volta / là mia madre mi perdona / poi mi odia e mi abbandona / ogni volta la prima volta: cantano i Cani nel loro ultimo album, con delle parole che sarebbero perfette per riassumere la ciclicità un po' frustrante delle ultime stagioni della Lazio.

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