Il 27 ottobre la Lazio gioca l’ultima partita della giornata prima di quelle che poi si prenderanno tutte le attenzioni di pubblico e giornali: Inter-Juventus 4-4 e Fiorentina-Roma 5-1. È il turno delle 15, vestigia del passato della Serie A: sole, aria limpida, sensazioni sonnacchiose da pigrizia post-prandiale. La squadra di Baroni vince agilmente contro un Genoa malandato e, a poco più di due mesi dall’inizio del campionato, la classifica inizia a sorriderle. I punti adesso sono 16, solo sei dalla vetta occupata del Napoli, in piena scia delle squadre che puntano a un posto in Champions League. Negli ultimi minuti di partita il 3-0 è stato consolidato dai gol di Pedro e Vecino, segni di un passato che non passa.
Nelle interviste post-partita, le solite frasi di circostanza: siamo solo all’inizio, bisogna pensare partita per partita, il campionato è lungo. Marco Baroni ha la solita aria dimessa, un po’ grigia, parla quasi a bassa voce guardando spesso verso il basso. «Siamo tutti ambiziosi e per fare qualcosa di importante dobbiamo mantenere il livello e la voglia alta», dice davanti ai microfoni, prima di lasciare lì una frase più magniloquente di quanto suoni in quel momento: «Il calcio posizionale è finito, ora dobbiamo fare movimento, anche fuori zona: i ragazzi ci credono e ci lavoriamo».
È uno strano momento di hybris per un allenatore così poco propenso a concedere spettacolo ai giornalisti, e per una squadra ancora in convalescenza dopo un periodo di profondo rinnovamento. Baroni parla come se stesse semplicemente riportando un messaggio dal fronte: la Lazio sta avanzando verso l’avanguardia tattica del calcio europeo.
Arrivati ai primi di novembre, quello che possiamo dire con certezza è che di sicuro è molto più avanti di quello che ci si aspettava. Nemmeno tre mesi fa la Lazio era ancora all’inizio di un processo di ricostruzione che pareva piuttosto lungo e difficile. Il terzo allenatore nell’arco di pochi mesi, una rosa che aveva perso gran parte dei suoi leader tecnici, il calciomercato estivo affidato per la prima volta fin dalla sua programmazione a un nuovo dirigente, dopo la fine della lunga era Tare.
Una sequenza di eventi che promettevano di lasciare qualche scoria. Igor Tudor che a inizio giugno, a sorpresa, rassegna le dimissioni. I tifosi biancocelesti che, pochi giorni l’annuncio di Marco Baroni, scendono a migliaia in piazza per contestare Claudio Lotito. Ciro Immobile che dopo una lunga trattativa con il club decide di trasferirsi al Besiktas quasi di nascosto: solo un tifoso riesce a incrociarlo all’aeroporto, gli dà l’ultimo addio in lacrime, prima di avergli chiesto il permesso per poterlo abbracciare.
Sembrava un ritorno agli anni più grigi dell’esperienza lotitiana. Anni, cioè, di ambizioni ridotte, di allenatori propensi al compromesso, di sessioni di calciomercato senza acuti, di giocatori ceduti dopo estenuanti polemiche con la società. Si poteva parlare a tutti gli effetti di ridimensionamento?
È paradossale detto oggi, ma sembrava dare credito a questa domanda proprio la scelta di Marco Baroni. Un allenatore senza grandi slanci in conferenza stampa, che nelle ultime stagioni aveva fatto la spola tra la Serie B e la bassa Serie A, che sembrava essere stato scelto più per non aver battuto ciglio di fronte ai problemi societari del Verona, la scorsa stagione, che per aver effettivamente salvato la squadra in condizioni che sarebbero state proibitive per chiunque altro. Il tipo di tecnico illeggibile in conferenza stampa, le cui intenzioni sono annegate dalla retorica preconfezionata che chi entra nel mondo del calcio sembra installare di default nel proprio modo di parlare.
Appena arrivato, Baroni ha usato espressioni come «cultura del lavoro», «mettere il giocatore al centro del progetto» - frasi talmente abusate e svuotate del loro significato che era impossibile leggerci qualcosa di nuovo. Quanti allenatori avete sentito dire che la cosa più importante è l’allenamento in settimana? Che la prima cosa è adattarsi alle qualità dei giocatori?
Già dal calciomercato, però, si poteva capire che le idee di Baroni erano molto più radicali di quanto il suo eloquio non lasciasse trasparire. L’arrivo di giocatori molto atletici in conduzione come Nuno Tavares, Boulaye Dia e Tijjani Noslin; ma anche la decisione di fare a meno di un centrocampista più riflessivo come Cataldi, con il rischio di aggiungere ulteriore carico emotivo a una squadra che già aveva perso gran parte dei suoi riferimenti. Tutte cose che segnalavano l’intenzione di cambiare completamente rotta rispetto a quanto fatto con Sarri. Costruire, quindi, una squadra da transizioni e pressing, che giocasse più con l’aiuto dello spazio che del pallone, che avesse il controllo della dimensione intangibile dell’agonismo. Una squadra che, per l’appunto, ci facesse pensare che il gioco di posizione fosse ormai finito.
Baroni ha imboccato questa strada con grande decisione e già alla fine di agosto è riuscito a trovare la quadra. Nell’ultima partita prima della pausa per le Nazionali di settembre, contro il Milan (il primo grosso snodo della stagione della Lazio), si è visto il 4-4-2: l’idea di puntare su una coppia di attaccanti veri e propri come “il Taty” Castellanos e Boulaye Dia, con dietro il duo di centrocampo composto da Nicolò Rovella e Mateo Guendouzi.
Una serie di idee tattiche che sembrano venire dritte dagli anni ’90 e che, per la facilità con cui hanno attecchito, sembrano suggerire che il calcio è semplice, e che tutte le sofisticazioni arrivate negli ultimi trent’anni sono solo sono orpelli inutili, ombre del passato. «Il calcio è cambiato», come ha detto il presidente Claudio Lotito ancora prima che iniziasse questa stagione, parlando con il consueto cinismo della partenza del suo ex capitano Immobile.
Non è solo un’impressione, in realtà. In campo la Lazio usa davvero una serie di strumenti che sembrava essere stata smentita dal calcio contemporaneo. Un esempio: costruire il gioco passando per i corridoi laterali, aggirando il pressing avversario invece che costringersi a passarci attraverso con il rischio di perdere palla in posizioni pericolose.
«Spesso dico alla squadra di bucare in catena, in fascia, ma poi quando si può cambiar fronte e riempire l'area lo facciamo», ha detto Baroni dopo la larga vittoria a Como. Ed è esattamente quello che prova a fare la Lazio, soprattutto a destra, dove Nuno Tavares sembra essere un trucco per vincere le partite in Serie A. Anche per questo, per l'importanza che ha nel gioco della Lazio, il terzino portoghese ha realizzato otto assist in otto partite di campionato.
Non è solo merito del talento di Nuno Tavares, però. L’idea di Baroni, piuttosto contemporanea viene da dire, è quella di schiacciare il campo non solo in verticale ma anche in orizzontale, che in fase di possesso significa, in sostanza, fare densità nella zona del pallone, attirare la squadra avversaria da un lato, per poi colpirla con un cambio di gioco o con un cross in area.
L'insistenza sui cross, in teoria, è in controtendenza rispetto alla strada intrapresa dal calcio europeo. La squadra di Baroni attacca l’area con i cross come quasi nessun’altra in Serie A, un’arma considerata statisticamente inefficace, e che invece nel suo caso frutta dati offensivi ottimi, contribuendo al totale di 1.49 non-penalty Expected Goals per 90 minuti (meno solo di Atalanta e Milan) e ai 3 clear shots che la Lazio si procura ogni 90 minuti (meno solo dell’Atalanta).
Con 12.40 tentativi per 90 minuti, la Lazio supera tutte le altre squadre del campionato per numero totale di cross, e se si prende la percentuale sul totale dei passaggi in area (40%) solo l’Udinese - un’altra squadra che offensivamente sta andando piuttosto bene - fa “meglio” (45%). Per dire, la Lazio, se si tolgono i cross, è solo dodicesima in Serie A per passaggi in area per 90 minuti (2.40).
Nello 0-2 al Como l'efficacia con cui la Lazio attacca l'area: Noslin, Vecino e Castellanos che si inseriscono liberando Pedro, Tavares che lo raggiunge con un gran passaggio in orizzontale.
Sono dati difficili da spiegare, tanto più alla luce del fatto che la Lazio non ha grandi colpitori di testa, e che in parte si devono al coraggio con cui la squadra biancoceleste riempie l’area. Quando parte il cross, gli uomini in area avversaria sono sempre almeno quattro, e l’attacco dell’area parte quasi sempre dalla cosiddetta “seconda linea”. Non si aspetta il cross in area in maniera statica, insomma, ma ci si arriva da fuori, in modo da impedire ai difensori avversari di controllare sia la palla che i movimenti.
Forse è così che si spiega anche un’altra scelta controintuitiva, e cioè quella di mettere la coppia d’attacco in verticale anziché in orizzontale, e di chiedere di venire incontro a cucire al gioco non a Castellanos, a cui piace giocare tre le linee e associarsi coi compagni, ma a Dia, che invece a Salerno avevamo conosciuto per la precisione dei suoi movimenti in profondità alle spalle della linea avversaria. In questo modo la Lazio perde qualcosa nella precisione tecnica quando c’è da risalire il campo palleggiando (cosa che comunque gli interessa fare molto di meno rispetto al recente passato) ma ne guadagna in imprevedibilità nell’attacco dell’area, dato che Dia può entrarci in un secondo momento dopo aver contribuito alla fase di costruzione.
Se poi la Lazio non attacca subito l'area, ma la sua manovra torna indietro, è Castellanos che tende ad uscire fuori per partecipare alla rifinitura dell'azione.
Stringere il campo nella zona della palla permette alla Lazio di usare altre risorse offensive. Per esempio sovraccaricare le linee di passaggio di uomini per utilizzare il velo e liberare così i compagni con semplici passaggi esterno-interno.
Oppure, scoprire il lato debole delle squadre avversarie, per sfruttare le qualità degli uomini di Baroni nell’uno contro uno. Non solo Mattia Zaccagni e Nuno Tavares sulla sinistra (quest’ultimo, con 1.70 dribbling riusciti per 90 minuti su 3.28 tentati, è di gran lunga il miglior difensore della Serie A in questo senso), ma anche Isaksen dall’altro lato (1.40 dribbling riusciti per 90 minuti su 3.73 tentati). Solo Milan, Parma, Napoli, Juventus e Udinese tentano più dribbling della Lazio, e solo al Milan e alla Juventus ne riescono di più (7.30 per 90 minuti).
Un esempio di velo per liberare l'uomo in area, con Zaccagni e Dia sulla stessa linea di passaggio.
La ricchezza offensiva della Lazio è aiutata al momento anche da un’efficienza estrema sulle palle inattive: la squadra di Baroni è infatti terza per Expected Goals creati su calcio da fermo (0.40 per 90 minuti) nonostante sia solo 15esima per tiri scaturiti da questo tipo di situazioni (2.90 per 90 minuti). È un discorso che in realtà si può allargare a tutto ciò che fa la Lazio in campo, adesso che vive uno di quei momenti in cui sembra giocare sollevata da terra di qualche centimetro. Una sensazione che non è visibile né misurabile, e che secondo Luca Pellegrini è dovuta alla sensibilità di Marco Baroni: «Una persona empatica che capisce bene i momenti».
Il 4-4-2 aiuta a stringere il campo anche senza il pallone, e in modo simile a prima lo fa sia in orizzontale che in verticale. È piuttosto impressionante vedere come la squadra di Baroni accetti di correre rischi. Non è raro vedere, quando la Lazio prova a recuperare palla sulla trequarti avversaria, provando a comprimere l’avversario verso una delle due linee del fallo laterale, situazioni di parità o addirittura inferiorità numerica dall’altro lato del campo. Questo è forse l’aspetto che potenzialmente più potrebbe rendere vulnerabile la Lazio in futuro, soprattutto contro avversari che sanno manipolare l’avversario con il possesso. Lo stesso si può dire del modo in cui fa affidamento sui duelli individuali e sui cross, contro squadre dal livello tecnico e atletico superiore.
La squadra di Baroni prova a schiacciare la Juventus sulla linea del fallo laterale ma il possesso avversario scopre la parità numerica dietro e alla fine Romagnoli è costretto a un fallo da ultimo uomo che gli costerà l'espulsione.
Potersi preoccupare del futuro sembra comunque un privilegio rispetto a quanto ci si poteva aspettare a inizio stagione, quando era persino difficile dire quali fossero le aspettative stagionali.
Stasera, all’Olimpico contro il Cagliari, la Lazio ha la possibilità di andare a meno tre punti dal primo posto in classifica, con un percorso a punteggio pieno in Europa League, e più che aspettative sembrano mancare limiti all’immaginazione. La Lazio e Marco Baroni, al di là di come andrà a finire, hanno già dimostrato qualcosa.