La Lazio ha vinto le ultime 7 partite giocate, 10 delle ultime 11. In mezzo solo la strana sconfitta a Torino contro la Juventus. Non c’è stata, però, una partita della stagione che la Lazio ha chiaramente meritato di perdere. È un’impressione legata a come sono andate queste sconfitte, spesso frutto di episodi e piccoli dettagli che non sono andati al loro posto, ma anche a come gioca la Lazio, al tipo di energia che mette in campo, all’attitudine con cui affronta le partite. Non c’è stata nessuna di queste partite che la squadra di Baroni non abbia affrontato con coraggio, ambizione e assoluta certezza di potersi prendere la vittoria.
Ogni volta che scende in campo la Lazio gioca come fosse la squadra più forte in campo; qualcuno è riuscito a metterla in difficoltà, ma nessuna squadra per ora è riuscita a metterla davvero sotto, a non subire almeno per una fase della partita la sua aggressività, quel modo un po’ sfrenato con cui i biancocelesti attaccano l’area avversaria.
Ieri sera all’Olimpico era arrivata una squadra in forma come il Bologna di Italiano, che forse non gioca bene come lo scorso anno ma ha trovato una propria solidità. La Lazio l’ha sopraffatto dal primo minuto, pur non trovando il gol nel primo tempo, pur senza troppa qualità negli ultimi metri. La squadra ha continuato a insistere con quell’aggressività un po’ ostinata, talvolta ottusa, che la caratterizza, e alla fine il Bologna ha perso i pezzi un poco alla volta. Prima l’espulsione di Pobega, un’ingenuità forse dettata dai ritmi alti del match, e poi una difesa sempre più in affanno e i gol presi nell’ultima mezz’ora.
È stato subito chiaro quale delle due squadre avesse le idee più chiare, quale avesse più desiderio di aggredire la partita. Baroni ha schierato un 4-2-3-1 con una punta in meno del solito, perché Dia è reduce da una sospetta malaria (l’attaccante è poi risultato negativo). L’atteggiamento della Lazio, però, non è cambiato. La squadra pressava a uomo con Castellanos e Guendouzi sui due centrali del Bologna. Se Guendouzi era stato portato fuori posizione si alzava immediatamente Rovella in pressing. Pedro e Zaccagni erano in teoria sui due terzini, ma Zaccagni lasciava quasi sempre De Silvestri libero per schermare la linea di passaggio su Odgaard, che è spesso il riferimento del Bologna sull’uscita dal basso. Il Bologna del resto non vuole mai uscire da De Silvestri ma sempre a sinistra da Miranda.
E così una squadra che è abituata a controllare territorialmente le partite come il Bologna, si è trovata in un contesto a lei sgradevole, incapace di aggirare quest’aggressività della Lazio. Per la prima mezz’ora abbiamo visto Freuler chiedere calma a Ravaglia nella distribuzione del possesso. Era un atteggiamento rischioso, con la linea difensiva ben oltre il centrocampo, ma la Lazio ha rischiato soprattutto sui propri errori nell’ultimo passaggio. Guendouzi, Castellanos, Pellegrini nella prima fase della partita hanno perso alcuni brutti palloni sulla trequarti e il Bologna aveva molto campo da attaccare. Ma è il paradosso del campo lungo: gli spazi sembrano invitanti, ma si corre meno veloci col pallone che senza, e allora per i difensori c’è sempre il tempo di recuperare. Soprattutto contro squadre come il Bologna, che non hanno né molta tecnica né molto atletismo. La Lazio ha vinto quasi sempre i duelli individuali quando il campo si apriva, con Mario Gila sempre più sugli scudi nella gestione delle riaggressione. Un difensore squisito per pulizia tecnica, difensiva e offensiva.
Per il Bologna non è però stato solo un problema di qualità individuali. La squadra è sembrata intimorita dall’aggressività della Lazio, timida in transizione, dove accompagnava sempre l’azione con pochi uomini, e progressivamente più conservativa nei propri possessi e nei propri movimenti. Di fronte al pressing della Lazio, la squadra di Italiano si è presa pochi rischi ed è stata anche piuttosto rigida.
Karlsson ha una transizione interessante ma nessuno sale da dietro ad accompagnare l'azione.
Quella di Baroni è stata il contrario: sempre capace di accompagnare con tanti uomini l’azione e fluida nei propri smarcamenti. La Lazio non voleva dare riferimenti al pressing a uomo del Bologna, puntando sempre su dei movimenti fuori zona che disordinavano e aprivano spazi. Vecino è un maestro in questo, ma anche Zaccagni e Pedro hanno lavorato per trascinare i terzini del Bologna fuori dalla loro zona e aprire gli spazi per la spinta dei terzini, o l’inserimento dei mediani. L’espulsione di Pobega ha poi facilitato la vita, contro un Bologna che di fronte a queste difficoltà tattiche si è comunque difeso in modo attivo e ordinato, e ci è voluto un calcio piazzato e un imprevedibile gol di Samuel Gigot per sbloccare la partita. Però si è vista una differenza di energia palpabile, tra una squadra un po’ rigida e cerebrale, e una che preferisce giocare sull’entusiasmo e l’istinto.
La Lazio attacca sempre in movimento, sempre alla massima velocità, andando avanti senza pensare troppo alle conseguenze. In questo è una squadra piuttosto controculturale nel calcio italiano, e sicuramente una delle più divertenti. Forse solo l’Atalanta, nelle sue giornate migliori, restituisce l’assoluta urgenza che ha la Lazio. I biancocelesti giocano in modo forse meno raffinato, meno preciso, ma cavalcano un istinto che è esaltante anche da vedere, e che sembra esaltare i giocatori stessi - che stanno tutti giocando ben oltre le aspettative.
La Lazio poi ha alcuni limiti tecnici evidenti, nella qualità sulla trequarti, l’ultimo passaggio, ma è il trade che c’è stato nelle ultime due stagioni: la rinuncia alla qualità di Immobile, Luis Alberto e Milinkovic-Savic in favore di un’atletismo e di una comunione d’intenti superiore.
In questo la Lazio somiglia davvero all’Hellas che Baroni ha portato alla salvezza lo scorso anno, con partite giocate sempre a ritmi vorticosi, e ai limiti dell’incoscienza. Dario Saltari lo scorso anno aveva paragonato l’Hellas a una “banda di predoni”; giocatori dai nomi esotici e carriere minori che si ritrovano dove non dovrebbero essere: nel calcio d’alto livello, e giocano come se dovessero sabotarlo, sfasciarlo, prendersi la loro rivincita.
La Lazio sembra una versione di lusso di quell’Hellas, fatto da scarti e giocatori ripudiati, ma da un livello di calcio più alto e con un talento potenziale migliore. È la Lazio di Mateo Guendouzi e Nuno Tavares, considerati inadeguati calcisticamente dall’Arsenal e umanamente dall’Olympique Marsiglia; Mattia Zaccagni, titolare in Serie A a 24 anni dopo anni di B e C; Manuel Lazzari, che a 20 era ancora in Serie D. È la Lazio del “Taty” Castellanos, che è dovuto passare per la MLS per farsi prendere sul serio; di Luca Pellegrini che contro il Bologna ha giocato una grande partita, ma la cui parabola ad alti livelli pareva esaurita; di Pedro e Vecino, che sembravano bolliti ormai cinque anni fa, di Romagnoli cacciato via dal Milan e di Mario Gila e Patric, cacciati dal Real Madrid e dal Barcellona. Samuel Gigot che dopo una carriera da giramondo sembra essere arrivato alla Lazio dopo aver perso una scommessa. Boulaye Dia, bocciato dalla Liga, e rinato a Salerno.
Sono tutti giocatori in cerca di riscatto, e con un talento forse sottovalutato dal mercato calcistico, e che nel calcio ultra-verticale e rischioso di Baroni giocano con l’energia pericolosa di chi non ha niente da perdere e tutto da guadagnare.