La mattina del 3 ottobre 1999 Andriy Shevchenko si sveglia di ottimo umore nella sua camera singola dell'Hotel Parco dei Principi, a Roma. Sono tanti anni che il Milan pernotta lì a ogni trasferta nella Capitale e oggi tocca a lui, come a tanti nuovi arrivi degli anni passati, rimanere a bocca aperta davanti allo splendore dei giardini di Villa Borghese, dove “c'è un cuore che batte nel cuore di Roma” come dice Venditti.
In realtà Shevchenko è quasi sempre di ottimo umore, o almeno così sembra. Il colonnello Lobanowski lo ha addestrato a non lamentarsi mai e a correre correre correre fino a sentire la sensazione del vomito e poi comunque continuare a correre. Gli allenamenti a Milanello gli sembrano acqua fresca. Guarda il mondo con gli occhi perennemente sbarrati e gli cade a pennello il soprannome che compare su uno striscione della Curva Sud: il Bambi di Kiev. Nelle sue prime sei partite ufficiali ha segnato tre gol, compreso uno in Champions League, e ora è atteso alla prima grande notte italiana. Sta studiando la lingua insieme a Serginho ma la trova ancora troppo difficile e prolissa per chi come lui parla e agisce in verticale: «Ci sono quattro-cinque parole che vogliono dire la stessa cosa», si lamenterà alla Gazzetta dello Sport. Perciò si muove sempre accompagnato dalla sua ombra, l'interprete e tuttofare Rezo Choconelidze, che vive insieme a lui all'Hotel Principe di Savoia, che si chiamava ancora Hotel du Nord quando 99 anni e dieci mesi prima, in una notte di dicembre, vi era stato stilato l'atto fondativo del Milan Cricket & Football Club.
La mattina del 3 ottobre 1999 Marcelo Salas, "el matador", spolvera la muleta e lucida le banderillas. Lui sa cosa sta passando la Lazio da sei mesi esatti, da quel 3 aprile in cui non le riuscì di ammazzare il Milan, concedendogli un misericordioso 0-0 che diede ai rossoneri l'ossigeno necessario per organizzare la rimonta scudetto. Ricorda il numero dei calci d'angolo, quattordici a zero, e non è mai riuscito a capire se, sulla sua sponda di testa appena al cinquantesimo secondo, Christian Vieri fosse poco al di qua o poco al di là dell'ultimo difensore: poteva essere il gol-scudetto, +10 sul Milan, braccia alzate all'imbocco del rettilineo finale. Intanto Vieri non c'è più, pagato 90 miliardi dall'Inter, e invano Cragnotti ha provato a sostituirlo passando l'estate appresso ad Anelka. Alla fine bisogna accontentarsi di Simone Inzaghi e del recuperato Alen Boksic, il gigante croato che ha praticamente saltato l'intera stagione precedente.
Ma in questo periodo Salas è caldo come una stufa, ha segnato tre gol nelle prime due notti di Champions della storia dello Stadio Olimpico e due settimane fa ha segnato una rete pazzesca al Torino. Da terra, dando al pallone un colpo di mestolo fino a scavalcare il portiere Bucci. Quando si solleva la maglia per esultare dai fianchi spuntano due maniglie dell'amore che anticipano le rotondità da calciatore sudamericano in pensione, ma ha doti di elevazione sovrumane che fanno di lui il miglior colpitore di testa al mondo tra i giocatori sotto il metro e ottanta.
Il pomeriggio del 3 ottobre 1999 Christian Abbiati sta riposando in silenzio, come quasi sempre gli succede. In silenzio è diventato il portiere titolare del Milan e in silenzio sta pensando di contendere la maglia di numero 1 della Nazionale a Buffon e Toldo. Per colpa sua, per la prima volta in carriera Sebastiano Rossi ha recitato il ruolo della vittima e non del carnefice: Abbiati ha approfittato di una sua follia invernale in un Milan-Perugia del gennaio precedente, quando aveva abbattuto così il povero Christian Bucchi, e non è più uscito dalla porta. In silenzio è stato l'eroe a sorpresa del sedicesimo tricolore con la parata-scudetto proprio su Bucchi, guadagnandosi prima la fiducia di Zaccheroni, poi di Maldini e Costacurta, poi di Berlusconi, infine dei tifosi. Dieci giorni prima, nella notte del ritorno della Champions a San Siro dopo tre anni, è stato il migliore in campo e ha salvato i tre punti con il Galatasaray e la ghirba del suo allenatore, sulla cui nuca era già pronta ad abbattersi la scure presidenziale. In pochi possono dire di aver udito la voce di Abbiati.
Il pomeriggio del 3 ottobre 1999 Sinisa Mihajlovic è il miglior tiratore di calci piazzati al mondo, come tutti i pomeriggi dei tre anni passati e dei cinque anni futuri. Non solo, com'è ovvio, il miglior tiratore di punizioni, ma anche dei semplici calci d'angolo, che il suo piede sinistro trasforma in proiettili a rientrare sul primo palo. Si avvicina alla bandierina assolutamente non correndo, al limite corricchiando, con l'espressione concentrata ma sorniona che gli è tipica, lasciando che in tutti gli stadi monti l'eccitazione o la paura per l'inevitabile frecciata mancina destinata a spiovere al centro dell'area piccola, là dove le acque si increspano e la lotta per la sopravvivenza è questione di rimpalli.
Il suo ultimo Lazio-Milan è stato terribile, giocato il sabato di Pasqua indossando un personale lutto al braccio, mentre da una settimana la NATO sta bombardando Belgrado. La settimana prima Sinisa ha portato i suoi genitori a Roma, ma dopo due giorni papà Bogdan l'ha guardato e gli ha detto: «Sono già scappato una volta durante la guerra civile, non lo farò ancora. Non riuscirei più a guardare i miei vicini di casa». Così ha preso sua moglie Viktoria e se n'è tornato a Novi Sad, dove i cacciabombardieri hanno già fatto saltare due ponti sul Danubio. Negli anni a venire Mihajlovic utilizzerà spesso metafore belliche per raccontare il calcio, gli stati d'animo, la sua vita.
Il 3 ottobre 1999 Alberto Zaccheroni è l'allenatore campione d'Italia in carica, è romagnolo come Sacchi, è nato il 1° aprile come Sacchi e ha vinto lo scudetto al primo anno di Milan come Sacchi. Eppure rimane ancora un sassolino nelle scarpe rialzate del suo datore di lavoro, che palesemente non lo sopporta e non perde occasione per rivendicare la bontà dei propri suggerimenti, da Boban trequartista in giù. Ora da tre mesi si ritrova in casa questo abbagliante diamante ucraino da sgrezzare, che non capisce la lingua ma è diligente come un levriero di razza. Lui progettava di farne l'attaccante esterno che non aveva mai avuto l'anno prima, quando gli toccava adattare Weah e Ganz per riempire l'area di cross per l'amato Bierhoff, ma si è rapidamente accorto che di questo passo Weah e Ganz dovranno cercarsi un'altra sistemazione, e forse anche Bierhoff.
Il 3 ottobre 1999 Sven Goran Eriksson è universalmente noto con un soprannome che per un uomo di sport sta ai limiti dell'infamia: “il perdente di successo”. Ha unito l'inconciliabile, romanisti e laziali, perdendo due scudetti già vinti, nel 1986 contro il Lecce e la primavera precedente, rimontato da Juventus e Milan in un modo che ancora offende. Ha provato a difendersi portando a casa una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea contro il Manchester United, ma la risposta è sempre quella: perdente. Non ha il sacro fuoco, ama la mondanità, abita in Piazza del Popolo con la nuova fidanzata Nancy, non vive barricato a Formello mangiandosi il fegato per aver perso uno scudetto da +7 che – malignano in molti – forse “non doveva essere vinto”. Ci vorrebbero Lippi o Capello, quella gente lì. E anche quest'anno probabilmente non vincerà niente, pur disponendo di una squadra come a Roma non hanno mai visto. Forse il centrocampo è il più forte del mondo: Nedved, Simeone, Veron, Stankovic, Sergio Conceiçao, Attilio Lombardo e Almeyda che passa per il mediano scarso che corre e picchia all'argentina, ma che invece la settimana prima a Parma ha segnato così.
Ma ne abbiamo dimenticato uno, il più forte della compagnia, arrivato da Parma nel periodo del massimo splendore, all'insegna di un'arroganza tecnica che sconfina nell'onnipotenza. Nell'autunno 1999 a Juan Sebastian Veron riesce tutto, anche segnare direttamente da calcio d'angolo a Sébastien Frey portiere del Verona, anche rientrare dal Sudamerica e giocare a Udine ventiquattr'ore dopo praticamente in pigiama, segnando un gol straordinario, di destro al volo a spaccare l'incrocio. Veron è lo specchio di una Lazio stupenda e sfrontata, a petto in fuori anche nella Supercoppa vinta a Monte Carlo contro il Manchester United campione di tutto, ma vagamente corrosa dall'ansia dell'ora o mai più.
Dall'altra parte, lo specchio del Milan è come sempre Paolo Maldini, divenuto capitano da un paio d'anni, impermeabile ai cambi di sistema e di filosofia e alla difesa a tre che non piace a Berlusconi, insieme a Billy Costacurta disponibile anche allo scomodo ruolo di ultimo baluardo di una difesa che per il resto deve arrangiarsi con Sala, Ayala e N'Gotty e che, insomma, ha vissuto e vivrà anni migliori. «Che ha fatto Ancelotti?», s'informa Maldini nel prepartita. «Eh, si è salvato, la Juve ha vinto 1-0, gol di Conte». «Ah!», esclama il Capitano, come colpito, davanti all'immagine della Juventus di Ancelotti e Conte, da un presagio alla Alexandre Dumas. E chissà come andrà a lui, vent'anni dopo.
Quel 3 ottobre 1999 c'è anche il primo grande exploit della Roma di Capello, che vince largheggiando 3-1 a Firenze con doppietta di Cafu.
Si comincia alle 20:30 in un Olimpico eccitato oltre il dovuto e oltre il creduto. È strapiena la Tribuna Vip, in quegli anni più che mai un luogo dell'anima, inquadrata dalle TV di mezzo mondo, con Gianfranco Fini, Gianni Letta, Antonio Tajani, Francesco Rutelli, ministri e sottosegretari del Governo D'Alema. Berlusconi è rimasto a casa a soffrire, mandando in avanscoperta il solo Galliani che all'Olimpico ha vissuto diversi momenti splendidi nei magnifici Anni Novanta che volgono al tramonto, ma nella Capitale non vince dal dicembre 1995, da quando Weah sfidò un intero quartetto difensivo buttando la palla avanti e andandosela a riprendere venti metri dopo, oltre la linea dell'orizzonte zemaniano.
Anche stasera Weah è in campo e la sua presenza causa indirettamente la più grande sorpresa della gestione Zaccheroni: per la prima volta in 39 partite di campionato l'allenatore rinuncia al suo centravanti-feticcio Oliver Bierhoff, mandandolo in panchina. Zac si rifugerà dietro banali logiche di turn-over, ma la verità è che c'è bisogno di fare spazio al vento nuovo che spira da Est. Weah-Shevchenko dunque, e niente tridente, e niente Leonardo trequartista che va in panchina, e niente Boban rimasto a casa per uno stiramento al retto addominale: dietro le due punte gioca Giunti e si accomoda in panchina l'altro fedelissimo Helveg, con Guglielminpietro che si sposta a destra per lasciare spazio al nuovo treno venuto dal Brasile, Sergio Claudio Dos Santos per brevità chiamato Serginho.
Eriksson deve ancora rinunciare a Nedved, a cui la settimana prima a Parma un intervento più che scomposto di Lassissi ha aperto la coscia destra. Sceglie un 4-4-2 ordinario solo in apparenza, perché se l'esterno destro Conceiçao esegue il compito dell'ala con lusitana classicità, a sinistra Veron ha licenza di fare quello che vuole, che tanto la coppia centrale Almeyda-Simeone ha la solidità del titanio. Accanto all'intoccabile Salas viene riproposto Boksic, più pronto di Simone Inzaghi alle temperature torride di un Lazio-Milan, riscaldate da uno striscione in curva Nord che insinua accordi sottobanco tra le due società riguardo al campionato precedente: “Milan scudetto comprato, Lazio società compiacente”.
Poi Bazzoli fischia l'inizio e di compiacente non rimane proprio nulla. Serginho tenta una prima sgasata, andando a sbattere contro Negro. La Lazio parte a testa bassa, eccitata dagli umori sugli spalti, Abbiati è svelto come un gatto ad anticipare in uscita bassa Boksic imbeccato da Veron, ma il primo tiro – assai velleitario – lo scocca Ambrosini, al volo, fuori. Come da dettami zaccheroniani il Milan gioca in modo ossessivamente verticale, sostituendo al lancio lungo per Bierhoff la costante ricerca delle accelerazioni di Serginho e Shevchenko. Rivedendo quella squadra a vent'anni di distanza si prova come un senso di straniamento per la totale abiura, oggi così fuori dal tempo, di passaggetti interlocutori in orizzontale o qualsiasi abbozzo di giro-palla: si riceve palla e si punta la porta, correndo o tirando, spesso male – come fa Giunti, bravo a svellere la palla dai piedi di Almeyda (mica facile), meno bravo a concludere frettolosamente a lato da buona posizione.
Al 18' Boksic scappa via di fisico ad Ayala ma calibra male il cross che sfila lungo sul secondo palo, dove Conceiçao rimette in mezzo al volo dalla parte proprio di Ayala, troppo lento e compassato per i ritmi forsennati di questa partita – e per darvi un'idea del livello stellare di quel calcio, stiamo parlando di un uomo da 115 presenze in Nazionale argentina. Ayala tenta un difficile controllo di palla che gli riesce lungo di mezzo metro, spazio che Veron si fa bastare per piombare sul pallone con tutta la ferocia di cui è provvisto in quel periodo. Colpisce di controbalzo mirando a spaccare la porta; Abbiati, sballottato da un palo all'altro per la velocità dell'azione, ci capisce ben poco e riesce appena a toccare quel pallone che lo travolge facendo finire in rete anche lui: 1-0 Lazio, esplode l'Olimpico.
Veron aveva segnato il suo primo gol in serie A con la maglia della Sampdoria proprio contro il Milan, anche se per le statistiche era stato autogol di Sebastiano Rossi: la punizione della "Brujita" aveva colpito il palo ed era finita in rete dopo un rimbalzo sulla schiena del portiere. Suo padre Juan Ramon, detto appunto “la Bruja”, era stato per dieci anni una bandiera dell'Estudiantes che aveva conteso al Milan una bollente Coppa Intercontinentale del 1969, passata alla storia per le nefandezze compiute dagli argentini nel match di ritorno alla Bombonera (da cui Veron padre era comunque rimasto fuori). Il rossonero, insomma, non lascia la famiglia indifferente. Veron prende palla e procede in diagonale, lasciando partire una sassata da 25 metri che sbatte contro la parte alta della traversa, forse toccata da Abbiati con la punta delle dita: l'arbitro comunque non assegna l'angolo.
Il Milan è visibilmente alle corde, ma non sei mai davvero alle corde se puoi buttare la palla in avanti e lasciare che ci pensi Shevchenko. È quello che fa poco dopo Albertini, con saggezza e praticità brianzola: Sheva ingaggia un duello in velocità con Nesta col senno di poi esaltante, e non solo perché i due saranno compagni di squadra di lì a tre anni. In tre secondi si accende l'improvviso testa a testa tra uno dei difensori e uno degli attaccanti più forti d'Europa (e di certo il più veloce): lo vince l'ucraino che decide di calciare secco sul primo palo. Marchegiani è bravissimo a leggere in anticipo: grande parata.
Le squadre sono già lunghe e sparpagliate come corn flakes nel caffellatte e per arrivare prima sul pallone i giocatori si arrischiano in contrasti pericolosi già dopo mezz'ora. Ne fa le spese Negro, ammaccato al perone dopo uno scontro con Giunti, sostituito al 34' da Pancaro che prende il suo posto sulla fascia destra. Proprio là dove scorrazza Serginho già in fase di rullaggio, mentre Pancaro deve ancora capire da che parte voltarsi. Alla prima accelerazione il Concorde brasiliano lo doppia come una Minardi e la mette sul secondo palo dove Weah la colpisce davvero male, così male che nessuno se l'aspetta, mandando in tilt Marchegiani e Mihajlovic. La palla è destinata a scorrere parallela alla linea di porta, ma nel suo ballonzolante cammino trova la testa di Mihajlovic e finisce per rotolare in rete. Dicesi “gollonzo”, per usare un'espressione che forse dirà poco agli adolescenti di oggi.
Spronata dai ruggiti dell'Olimpico la Lazio reagisce furibonda. Salas verticale per Boksic, con cui Costacurta non tenta nemmeno il contrasto. Destro al volo del croato e riflesso clamoroso in corner di Abbiati. Ecco che sale trotterellando Mihajlovic, nel brusio crescente dello stadio come in uno spaghetti western: solito corner a rientrare e Abbiati, per anticipare l'inserimento di Simeone sul primo palo, è costretto a buttarsela in porta da solo. All'epoca la Lega Calcio non era abituata alle sollecitazioni isteriche che riceve oggi da migliaia di sfaccendati che fremono per sapere a chi assegnare i bonus del Fantacalcio, tanto che ancora oggi in molti assegnano il gol a Mihajlovic, e alcuni persino a Simeone che non l'ha neanche sfiorata e, compagno di squadra ideale, dopo il gol punta subito il dito in direzione di Sinisa.
La partita è esplosa e la Lazio gioca e corre a ritmi da semifinale di Champions. Al 38' Salas per Boksic che scarica su Conceiçao, cross dal fondo a regola d'arte e splendida capocciata del Matador, a cui Ayala e Guglielminpietro hanno lasciato un metro fatale per farlo ascendere alle nuvole di Roma e incornare, con quel collo che fa provincia, nell'angolo basso alla sinistra di Abbiati. Grandissimo gol cui segue l'inchino di prammatica con il dito puntato verso il cielo. Dirà Pizzul nel commento: «La partita potrebbe considerarsi già conclusa».
Forse la Lazio di Eriksson aveva quest'atavico difetto, che i commentatori più pigri dell'epoca attribuivano alla natura inevitabilmente romana di quella squadra. Si specchia, si rilassa e si culla sull'ottimismo di essere molto più forte. Ma passano cinque minuti e Guglielminpietro è libero di farsi cinquanta metri di corsa prima di imbeccare Shevchenko dopo aver vinto un rimpallo. Sheva è appostato al limite dell'area, fermo, senza poter sprigionare i suoi cavalli vapore: apparentemente è innocuo. Eppur si muove: fulmina Favalli andato maldestramente a vuoto e davanti a Marchegiani si produce in un improvviso cambio di direzione che al portiere laziale ricorderà l'ubriacatura di finte e controfinte ricevute da Ronaldo nella finale di Coppa UEFA del 1998. Ma questo sembra andare a una velocità ancora superiore, tanto che passa quasi inosservato il tiro a porta vuota sotto la traversa, tutt'altro che banale, sigillo di un numero magistrale che anticipa il Duemila.
Ci si ferma quindici minuti per riprendere fiato. Poi ricomincia la rumba: un violento sinistro di Conceiçao finisce alto di poco. Poi si riaccende Veron, imprendibile per il Milan dall'inizio alla fine: lui e Salas si inventano un duetto intellettualmente complesso persino per Maldini, perché il cross di destro con effetto a rientrare è un colpo che non compare nel database di nessun difensore. Aggiungiamoci che Salas non vede l'ora di ripartire con il concorso di salto in alto, che già era stato fatale al povero Cannavaro ai tempi del Mondiale 1998: il "Matador" torna lassù dove osano le aquile e piazza sul secondo palo un altro colpo di testa che pare definitivo. Non si sa come e dove Abbiati trovi l'energia e la prontezza di riflessi per capire tutto in anticipo, allungandosi in una prodigiosa smanacciata in corner. Altra parata clamorosa.
E allora il Milan torna velenoso, sembra girare a vuoto ma di colpo piazza l'accelerazione che lascia stecchiti. Ambrosini verticalizza improvvisamente per Weah che scatta con i tempi giusti, e i tempi di Weah sono tempi inaccessibili per ogni difensore. Marchegiani tenta l'uscita ma King George gli ha già spostato il pallone e già pregusta l'impatto che naturalmente arriva: calcio di rigore. Marchegiani impreca come un tennista troppo esuberante che è voluto scendere a rete per sfidare il passante di Agassi, finendone regolarmente infilzato.
Chi va sul dischetto? Il tiratore principe è Bierhoff, altrimenti ci sarebbe Albertini, o in terza battuta addirittura Leonardo, entrato da due minuti al posto di Giunti, a cui però Marchegiani ha già parato un rigore l'anno prima: e così, alla sua quinta partita di Serie A, è già il caso che un rigore così pesante lo calci Shevchenko, glaciale per definizione, i cui impacci con l'italiano di cui vi parlavamo all'inizio gli impediscono di apprezzare le gentilezze che gli piovono dagli spalti. Non c'è tensione, non c'è problema: Sheva spiazza un ottimo specialista come Marchegiani e fa 3-3. Galliani, quella sera bersagliato anche da amici e parenti, soffoca a fatica l'esultanza “alla Galliani”.
Scollinata l'ora di gioco Eriksson si gioca il secondo cambio, toglie Boksic e mette Roberto Mancini, alla sua ultima stagione da calciatore, con un'autonomia da mezz'ora di gran gala. Intanto ormai la sola presenza di Shevchenko paralizza di paura la difesa laziale: pochissimi minuti dopo ce ne sarebbe addirittura per un secondo rigore, ma Bazzoli non vuole infierire e ammonisce per proteste l'ucraino, che ha protestato in chissà quale lingua. No problem: al 68' un pallone banale di Weah, lento e prevedibile, viene trasformato da Sheva con la sola imposizione del corpo e dei piedi in un'altra stilettata al cuore di Roma. Controllo da manuale, rapidissimo, a tenere a distanza Pancaro, bruciato nello scatto sul breve, e poi botta diagonale di sinistro sul secondo palo, per il delirio del settore ospiti. Oh, ma chi è questo? Nemmeno i compagni credono ai loro occhi, tanto da metterci un po' per andarlo ad abbracciare, lasciandolo per qualche secondo solo sulla scena, com'è giusto che sia per questo one-man-show.
Il 3-4 risveglia l'animo da belva feroce di Veron, Almeyda, Mihajlovic, Salas... Eriksson aggiunge altra benzina con il terzo cambio, Simone Inzaghi per Simeone. Veron arretra di qualche metro per una specie di 4-3-1-2 con Mancini alle spalle dei due centravanti. Ma l'obice più distruttivo se lo porta come sempre da casa Sinisa Mihajlovic: altro corner al napalm sul primo palo e colpo di testa di Salas che Abbiati riesce a bloccare prima che abbia superato la linea, malgrado le insolitamente timide proteste di Mancini. Fa niente: un minuto dopo Inzaghi scappa con troppa facilità a una linea a tre milanista davvero malmessa, Ayala per una volta riesce a contenerlo ma senza volerlo manda la palla verso destra dove accorre Veron, sempre più illeggibile, sempre più libero di fare il diamine che gli pare. L'idea è ancora una volta vincente: passaggio rasoterra per il rimorchio di Salas che a porta praticamente vuota segna di piattone il 4-4.
L'asse Veron-Salas continua a minacciare sfracelli. Stavolta i due sudamericani duettano con la palla a terra: il cileno tenta il diagonale che però riesce lento e prevedibile, abbrancato da Abbiati. Zaccheroni avverte lo stato di apnea dei suoi e fa due cambi difensivi per aggiungere chili e abnegazione: fuori Serginho e dentro Bruno N'Gotty, e poi fuori Shevchenko e dentro Gattuso, un cambio che oggi commuove per la carica di pathos che si porta dentro, per come Gattuso non è ancora entrato che già si dimena a bordo campo, per come Shevchenko procede ligio al dovere e fedele alla linea verso la panchina dopo un cenno al settore ospiti, per questi due ragazzi partiti da terre lontanissime e inconciliabili per arrivare al Milan nella stessa estate e cambiarne la storia poco alla volta, salita dopo salita, chilometro dopo chilometro.
Le squadre approdano allo striscione degli ultimi cinque minuti comprensibilmente stremate. All'85' Paolo Maldini si ritrova quasi per caso a partire in percussione centrale che lo porta fin nel cuore dell'area laziale, cedendo poi nello spalla a spalla con Conceiçao. Altro colpo di mortaio di Sinisa, stavolta diretto sul secondo palo: Salas capisce tutto e vola a incornare, trovando ancora l'ennesimo prodigio di Abbiati.
Shevchenko assiste all'assedio finale della Lazio dalla panchina, stravolto dalla tensione che la sua tripletta possa rivelarsi inutile: come dirà David Carradine in Kill Bill qualche anno dopo, “se solo volessimo, potremmo friggergli un uovo in testa”. Al 94' la Lazio ottiene l'ennesimo corner e porta a saltare l'intera contraerei: ma lì Mihajlovic ha l'idea che nessuno si aspetta, la più perversa e affascinante del repertorio. Mihajlovic tira in porta, e nessuno se l'aspetta, nessuno tranne Abbiati, che si produce nell'ultimo balzo circense della sua serata irripetibile che il giorno dopo – nonostante quattro gol subiti e un autogol – tutti i quotidiani premieranno con l'8 in pagella. Lo stesso voto che toccherà a Veron, Salas e Shevchenko.
E finalmente finisce, e purtroppo finisce questo kolossal con un punteggio di cui in Serie A non si avevano tracce da quasi sette anni esatti (4 ottobre 1992, Genoa-Ancona 4-4). L'Olimpico capisce che va bene il veleno masticato per mesi, vanno bene il malanimo e i rancori, ma una serata così non ce la dimenticheremo mai più. E allora grandinano applausi come fossero i goccioloni di un temporale estivo, come gli ultimi petali di girasole di una stupenda adolescenza che finisce sul prato di battaglia dello stadio, mentre tutti i giocatori si abbracciano.
Diceva il poeta nato e cresciuto a quindici chilometri dallo stadio Olimpico, “come pugili dopo un incontro/come gli ultimi sopravvissuti”.