Prendo la sciarpa, sempre la stessa, di lana anche se è metà maggio e avrebbe senso averne una diversa. È gialla, con gli inserti blu e biancocelesti. Sono abbastanza convinto di averla scelta fuori dallo stadio in una notte di Coppa UEFA. Mi sistemo la maglia bianca del centenario, con il numero 13 nero sulle spalle. Sarebbe poi rimasta nel cassetto per anni dopo il 31 agosto 2002. Vedo mia madre che raccoglie le ultime cose: il telefono, le immancabili sigarette, gli abbonamenti. Non è, non è mai stata e mai sarà una persona spavalda, probabilmente neanche ottimista. Eppure si rivolge a mio padre (romanista) e ai miei nonni (laziali) con una frase che per me non ha il minimo senso: «Stasera torniamo tardi». È il 14 maggio del 2000.
Come si riparte dalle macerie di uno scudetto toccato con mano e poi perso sul rettilineo finale? Sono davvero macerie quelle che deve rimettere insieme Sven Goran Eriksson nell’estate del 1999? La Lazio ha aggiunto in bacheca la Coppa delle Coppe, che con ogni probabilità ha salvato la panchina dello svedese, ma ha anche perso un tricolore che pareva già vinto, peraltro facendo festeggiare un Milan forte ma non irresistibile, tenace ma non straripante. Il sorpasso alla penultima giornata, come quando vide la sua Roma sciogliersi in casa contro il Lecce dopo aver agguantato a fatica la Juventus del Trap, alimenta i commenti negativi nei confronti dello svedese.
Marco Ansaldo, sulle pagine de La Stampa del 24 maggio 1999, riesuma l’etichetta che per anni non ha lasciato tregua al “rettore di Torsby”: «Eriksson, il gentile eterno perdente». Sono ore in cui sembra certo l’addio di Salas: la didascalia che accompagna la foto della sua esultanza al momento del gol-vittoria contro il Parma ci dice che «si è congedato nel migliore dei modi dai tifosi dell’Olimpico, con due gol». Il clima nei vertici biancocelesti, almeno a parole, sembra sereno. «Per noi è stata una grande stagione – dice Sergio Cragnotti – e abbiamo dimostrato di essere competitivi in campo nazionale e internazionale. Adesso potremo puntare anche alla Champions League. Ai tifosi dico di avere fiducia: presto raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato». Gli fa eco Eriksson: «Saremo più fortunati il prossimo anno. Ci è mancato un punto, abbiamo pagato le assenze di Nesta e Vieri a inizio stagione: con loro avremmo potuto uccidere questo campionato».
I mercati di Cragnotti vivono di blitz, di scelte radicali prese in una manciata di ore. Non stupisce, rileggendo le dichiarazioni successive ai giorni della sconfitta in campionato, quanto si senta parte integrante del progetto Lazio uno come Bobo Vieri: «Nel calcio te ne combinano di tutti i colori. Sarebbe bastato non annullare il gol regolare fatto al Milan e saremmo a festeggiare. Ma c'è una cosa che mi fa arrabbiare tanto: il rigore non dato a Salas contro la Fiorentina. Avremmo poi potuto sbagliarlo. Ma c'è da vergognarsi a non fischiare un fallo così evidente. L'arbitro era in condizioni ideali: non può non averlo visto. Il problema è che l'ha visto e non se l'è sentita: quand'è così, meglio smettere. Ma io voglio guardare avanti ed essere ottimista. Il presidente Cragnotti ha costruito la squadra più forte che c'è. Se poi arriva Veron la squadra diventa straordinaria».
Ecco, Veron, lui sì che è un nome di mercato da tenere in considerazione: arriverà dal Parma a rinforzare la colonia di ex sampdoriani, unendosi a Mihajlovic, Mancini, Lombardo ed Eriksson. La Juve corteggia Salas, la Gazzetta dello Sport parla di uno scambio con Del Piero, reduce dal terribile infortunio di fine 1998, o con Inzaghi. Alla fine arriverà l’altro Inzaghi, Simone, che nella stagione d’esordio in Serie A si è messo in mostra segnando al debutto proprio contro i biancocelesti. Si capisce in fretta, già a inizio giugno, che Salas non andrà da nessuna parte. Il pezzo pregiato del mercato biancoceleste è Bobo-gol. Lo vogliono tutti: il Parma, l’Inter, la Juventus.
Inizia un braccio di ferro anche sulla stampa, perché Cragnotti ha capito di avere per le mani l’ennesima gallina dalle uova d’oro e spara alto. «Se mi vogliono vendere non devono esagerare col prezzo: 80 o 100 miliardi sono un’esagerazione», dichiara Vieri, che aggiunge: «Cragnotti ha detto che non sono più incedibile ma sono io che deciderò dove andare. Al momento mi sento laziale al 100%, ma quando ci sono tantissimi soldi di mezzo tutto può accadere». Il Parma si defila, restano Juventus e Inter. Moggi mette sul piatto 60 miliardi e il cartellino di Davids, Moratti arriva a 69 e Simeone. Stando alle ricostruzioni della Gazzetta, Cragnotti ha un breve consulto con Eriksson e Mancini, emanazione in campo dello svedese. Moratti anticipa alla stampa intorno alle 13 dell’8 giugno la chiusura dell’affare, facendo infuriare non poco Cragnotti per ragioni legate alla Borsa.
Alle 18.45 arriva l’annuncio ufficiale della cessione di Christian Vieri all’Inter, e da parte di Bobo piovono stilettate: «Non ho mai chiesto di essere ceduto. Cragnotti fa l’industriale, è abituato a ragionare in termini di profitto e dal mio trasferimento ha ricavato un utile di 30-40 miliardi. Avevamo messo su un bel gruppo, ma non sono certo stato io a rovinarlo. Una grande squadra non mi avrebbe ceduto, se Cragnotti avesse voluto costruire attorno a me lo squadrone poteva benissimo dire di no alle offerte di Moratti. Se mi ha ceduto, significa che fatti i calcoli ha ritenuto di dover agire in questo modo». Sinisa Mihajlovic, colonna biancoceleste, non gradisce: «Sono molto dispiaciuto. Senza Vieri mi sembra difficile che la Lazio possa essere più forte della scorsa stagione». Paolo Negro la pensa nello stesso modo: «Ci siamo indeboliti, questo è indubbio. Non mi sento di poter dire nulla che sia in grado di risollevare il morale dei tifosi, anzi penso che debbano essere i tifosi a risollevare noi».
Come da tradizione, il centravanti viene additato come mercenario dai tifosi laziali, che aggiungono anche la minaccia di non rinnovare gli abbonamenti, mentre il titolo biancoceleste schizza in Borsa (+7%). Il mercato si chiuderà con l’arrivo di Sensini dal Parma e di Andersson dal Bologna, ma c’è tempo per una bella telenovela estiva. Con l’assegno di Moratti ancora caldo per le mani, Cragnotti ha un solo obiettivo in testa: Nicolas Anelka. Ventenne straripante in campo aperto, autore di 17 gol con l’Arsenal nell’ultima Premier, il francese è il sogno proibito di Cragnotti, che deve scontrarsi con la delusa dell’affare Vieri, la Juventus. I bianconeri hanno appena acquistato Kovacevic e cercano di inserire nella trattativa con i “Gunners” Henry, che Ancelotti proprio non riesce a inquadrare. Cragnotti le prova tutte: offre prima Salas e poi Nedved oltre a una robusta quota contante. I tifosi della Lazio familiarizzano con il CdA dell’Arsenal, che si riunisce a ogni nuova offerta. Si arriva a una proposta da 54 miliardi di lire senza contropartite, con 14 di commissioni per gli agenti, e la Juve alza bandiera bianca. È il giorno in cui Lance Armstrong trionfa a Sestriere, mettendo le basi per il primo atto della sua maxitruffa. Passano altre 48 ore e Cragnotti, tanto abile e mefistofelico quando c’è da chiudere in fretta un affare quanto inadatto alle lunghe maratone, si arrende. Anelka, tra Lazio, Juventus e Arsenal, sceglie il Real Madrid.
L’impatto devastante di Veron
Nel tragitto in macchina verso lo stadio, ascoltiamo via radio la cronaca del corteo organizzato dagli Irriducibili con partenza da piazzale Flaminio. Tre giorni prima, sotto la sede FIGC di via Allegri, la manifestazione guidata dallo striscione “Spareggio o guerra!” era finita, per l’appunto, in guerra. Stavolta viene invece messo in scena un corteo funebre, con il calcio come vittima per il famoso gol annullato a Cannavaro in Juventus-Parma. Sono abbastanza convinto che la Juve non steccherà a Perugia. Il tragitto tra la macchina e i cancelli lo faccio con l’accendino di mia madre infilato nelle scarpe: devo ancora compiere 13 anni e non vengo perquisito, se non marginalmente. Glielo rendo ai piedi della rampa che ci porta nei Distinti Ovest. Quando metto la testa fuori dal solito boccaporto, mi accorgo che è uno di quei giorni in cui la luce che illumina l’Olimpico e batte sul prato crea un contrasto quasi mistico. Non ho dubbi che sia ancora così per chi entra in quello stadio, un’esperienza che si rinnova giorno dopo giorno, anno dopo anno, ma sarò io a non rivedere più quella luce e quel prato con quegli occhi. Lo diceva anche il saggio che i pomeriggi di maggio, gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze e le merendine di quando ero bambino non torneranno più.
La cavalcata biancoceleste si apre con il successo in Supercoppa Europea. Il destino aggiusta le scelte di Eriksson – Inzaghi deve uscire subito ed è Salas a decidere la sfida – e il primo trofeo stagionale, contro i “campioni di tutto” del Manchester United, viene alzato al cielo del Principato di Monaco da Alessandro Nesta, elegantissimo capitano di una squadra che non si sente ancora forte come nella stagione precedente. Per le coppe, la Puma ha preparato una maglia in pieno stile argentino, forse ispirandosi ai tanti sudamericani presenti in rosa.
Quando la telecamera si allarga a mostrare la curva dei tifosi biancocelesti, si nota lo striscione polemico nei confronti di Cragnotti: «Sergio… La Lazio siamo noi». Contro il River Plate, nella presentazione del 20 agosto, in Nord campeggiava la scritta «Noi non siamo pomodori».
La rosa ha una conformazione diversa rispetto all’anno precedente, quando nel girone di ritorno Eriksson aveva varato un assetto iperoffensivo - Mancini era schierato centrocampista centrale al fianco di Almeyda per liberare il tandem Vieri-Salas. Nonostante l’aggiunta di Veron e l’uscita di Bobo, il tecnico svedese non fa un plissé: si insiste sul 4-4-2, riportando Mancini in avanti all’occorrenza e inserendo “la Brujita” nel cuore della mediana. Già dalle primissime uscite, è evidente il dominio tecnico del centrocampista argentino. La sua capacità innata di tagliare il campo da parte a parte, facendo sembrare dei lanci di 60 metri dei semplici appoggi, è un’arma illegale per una squadra che ha due esterni come Conceiçao, che ama andare sul fondo e mettere in mezzo, e Nedved, rilanciato dopo una stagione difficile e abilissimo sia negli affondi laterali che nei movimenti a stringere centralmente per liberare il destro.
La fetta iniziale della stagione biancoceleste è segnata da gol assurdi: il pallonetto da terra di Salas contro il Torino, la sconvolgente traiettoria assunta dal destro al volo di Almeyda a Parma, il gol “olimpico” di Veron contro l’Hellas. Il 3 ottobre va invece in scena una delle partite più emozionanti degli ultimi trent’anni di Serie A: Lazio-Milan 4-4, una serie di schiaffi e contro schiaffi tra le due pretendenti al titolo della stagione precedente. Le cose in Champions League filano lisce dopo il pari all’esordio a Leverkusen: vittoria in rimonta sulla Dinamo Kiev e doppio 4-0 al Maribor, con Mihajlovic che in Slovenia mette a segno una delle punizioni più belle della sua carriera.
Dopo nove giornate la Lazio è ancora imbattuta e ha superato il primo girone di Champions, Veron ha già segnato cinque gol in A e tutto sembra andare nel verso giusto. La luce si spegne all’improvviso dopo la sosta di metà novembre: il 21 va in scena un derby dominato dalla Roma, che tra il settimo e il trentunesimo del primo tempo segna quattro volte con Delvecchio e Montella. La mascella di Fabio Capello spazza via l’imperturbabilità di Eriksson, in un pomeriggio di festa giallorossa e tregenda biancoceleste, condito anche dalla saliva di Antonio Carlos Zago che deterge a modo suo il volto di Diego Pablo Simeone. La Juventus agguanta la Lazio in vetta alla classifica rifilando tre gol al Milan, la Roma è sorniona a -2.
Prendere una brutta china
La Reggina, già salva dopo un eccellente campionato, fa semplicemente atto di presenza. Per quel poco che si può capire dal distinto, mi rendo conto che il rigore per mani di Brevi si può dare, mentre quello per atterramento di Pancaro ha il sapore dell’inutile regalino di fine stagione. All’intervallo siamo sul 2-0, e da Perugia arrivano solo notizie di gol sbagliati dalla Juventus. Sugli spalti ci guardiamo attorno straniti: riusciremo davvero a rimediare uno spareggio? Quest’agonia durerà ancora una settimana? La Rai chiude il collegamento con “Tutto il calcio minuto per minuto” durante l’intervallo. Non abbiamo idea di quello che ci aspetta.
Il calendario ama scherzare e dopo il derby tocca alla Juventus: era successa la stessa cosa un anno prima e quel doppio ko, nel girone di ritorno, aveva lasciato il gruppo biancoceleste ad annaspare senza boccaglio nel mare della paura. Il 28 novembre la Lazio torna a convivere con il terrore e gioca uno scontro diretto all’insegna del «primo, non prenderle»: così, con la Roma corsara a Udine e le vittorie di Milan (2-1 sul Parma) e Inter (Recoba al 90’ a Reggio Calabria), in testa si crea una configurazione laocoontica che vede Roma, Lazio e Juve appaiate a 22 e il duo milanese a 20.
È in questa fase della stagione che Eriksson inizia a giocare con la creta, a rimodellare il suo 4-4-2 trasformandolo lentamente in un 4-5-1. La squadra entra da capolista nel 2000, all’appello delle sette sorelle manca soltanto la Fiorentina di Trapattoni, attardata a metà classifica. Ai biancocelesti tocca inaugurare il calcio del Duemila: nella notte di Venezia si gioca su una lastra di ghiaccio, Ganz e Maniero indossano i pattini giusti mentre la Lazio scivola a più riprese, come le era capitato l’anno precedente in Laguna. Sorpasso Juve, Parma e Roma che si riportano in scia a pochi giorni dal centenario.
Il 9 gennaio è festa grande all’Olimpico per i cento anni del club, davanti c’è un vecchio amico come Beppe Signori, partner d’attacco di Andersson, che Eriksson ha rispedito al mittente dopo soli due gettoni in qualche mese. In attesa della sfida al Bologna, i tifosi ascoltano via radio il pareggio del Parma contro la Juventus: una partita rimasta nella storia per l’espulsione di Dino Baggio, che lasciando il campo fece il gesto all’arbitro Farina del pollice e dell’indice sfregati come a dire «Quanto ti hanno pagato?», e per lo splendido gol di Crespo al 92’, partito in posizione di millimetrico offside ma con il Parma ridotto in 9 contro 11.
Segna Salas ma l’immancabile legge dell’ex permette ad Andersson, ovviamente su assist di Signori, di impattare in avvio di ripresa. La Lazio soffre, sbuffa, non sembra in grado scalfire il fortino eretto da Guidolin. Dentro anche Ravanelli, appena arrivato per tappare la falla lasciata da Andersson: è rientrato in Italia per riavvicinarsi al padre malato. A togliere il tappo all’Olimpico è un colpo di testa di Nedved su cross da destra, un gol “alla Simeone”, che serve anche al soldato di Cheb per togliersi dalle spalle un po’ di polvere. La firma conclusiva la pone proprio Ravanelli, che segna quasi cadendo sul pallone e poi si inginocchia sotto la Sud, in lacrime, pensando al papà.
Il giorno del centenario.
Eppure la Lazio è stanca, scollata, meno bella di quella di inizio anno e lontanissima dai picchi della stagione precedente. Oltre ad aver perso fluidità, deve combattere ansia e nervosismo. È bastato quel derby perso malamente a togliere certezze al gruppo: 0-0 a Reggio Calabria, 0-0 a Cagliari. La Juve, con la danza sublime di Zidane al Granillo, scappa a +3. Ci si mettono anche gli arbitri: lo 0-0 con il Parma resta tale anche per una svista epocale di Bazzoli, che chiude entrambi gli occhi su una folle entrata da tergo di Lassissi su Boksic. Buffon, sul filo della gaffe razzista, commenta a fine gara: «Quella è stata un'entrata da coppa d'Africa. Mi sembrava rigore».
È un momentaccio che prosegue in Champions League: una sconfitta inattesa con il Feyenoord, nonostante un gol insensato di Veron, rimette in discussione il cammino nel secondo girone, iniziato con un successo a Marsiglia e uno 0-0 contro il Chelsea. L’abituale sconfitta nel San Siro milanista (doppio rigore di Boban) evidenzia tutti i nervi scoperti del gruppo e dei suoi leader: Mancini per poco non viene alle mani con Galliani negli spogliatoi, Braida li divide chiedendo al fuoriclasse biancoceleste di «non fare scene da baraccone». Si va avanti con poca convinzione: a Lecce serve un capolavoro di potenza e coordinazione di Nedved. In coppa c’è gloria per l’ormai mitico poker di Inzaghino contro l’Olympique Marsiglia, che lascia una minima speranza di qualificazione ai quarti: bisogna vincere a Stamford Bridge. Il 19 marzo, almeno per quanto riguarda il campionato, tutto sembra finire. Domenico Morfeo e il suo diagonale destro portano la Lazio a -9 dalla Juventus alla 26esima giornata.
Lo diceva anche Bargiggia.
L’alba dentro l’imbrunire
Quest’intervallo sembra non finire mai. L’arbitro traccheggia a centrocampo, per fortuna ho una radiolina pesantissima in tasca: è un walkman dell’Aiwa con il quale solitamente ascolto le cassette, un reperto antidiluviano. A Perugia sta diluviando, non si ricomincia. I giocatori sul campo dell’Olimpico aspettano, dopo un po’ si riprende per sfinimento. Simeone segna il 3-0, Mancini esce dal campo per quella che dovrebbe essere l’ultima partita di campionato della sua carriera. Viene portato sotto la Nord da Lombardo, che se lo carica sulle spalle sfidando i segni dell’età. Niente, a Perugia sono ancora fermi. Cosa dobbiamo fare? Restiamo qui tutto il giorno? Intanto la partita è finita. L’altra, invece, non è ancora ripresa. C’è chi entra in campo e chi invece crea dei piccoli capannelli intorno alle radioline sparse sugli spalti, che di partite in streaming non si è ancora mai sentito parlare. A pochi metri di distanza si gioca la finale degli Internazionali di tennis tra Magnus Norman e Guga Kuerten. A qualcuno interessa davvero?
Ventidue marzo duemila, Stamford Bridge. Se si dice che vincere aiuta a vincere, allora la Lazio deve provare a rimanere in sella in Europa per darsi un senso anche in Italia. Al 44’ un gioiello di Gus Poyet sbarra la porta dei quarti di Champions. Ma la squadra di Eriksson si rimette in sesto con un gol astuto di Inzaghi, sempre più uomo di coppa. Al 66’ la Lazio è già avanti, perché Mihajlovic decide di trovare un angolo da una posizione che non dovrebbe permettergli neanche di pensarlo. Poi è tutta apnea fino al triplice fischio di Melo Pereira. Non c’è nemmeno il tempo di pensare al Valencia: il calendario dice Roma e poi Juventus. L’ultima chance per darsi una chance.
Il “Re dell’Est”, che all’Olimpico aveva dato spettacolo nel 4-4 di inizio stagione, illumina a giorno San Siro per Milan-Juventus. Shevchenko fa a fette la “Vecchia Signora”, il giorno successivo la Lazio ha la possibilità di rientrare a -6. Pronti-via, Montella rimette nelle teste dei biancocelesti tutti gli incubi dell’andata, segnando a tempo di record e mandando ko Marchegiani. Sarà la spinta data da Stamford Bridge o forse la doppietta di Sheva, ma stavolta non finisce 4-1. Nedved impatta con un pizzico di fortuna, non c’è invece buona sorte nella traiettoria uscita dal destro paradisiaco di Juan Sebastian Veron, “titolare” dei piazzati in contumacia Mihajlovic.
La sfida scudetto si gioca in famiglia: Inzaghi contro Inzaghi, Simone contro Pippo, quest’ultimo sempre in coppia con un Del Piero ancora alla ricerca del primo gol su azione della sua tribolata stagione. Il minuto che tiene aperta la corsa tricolore si apre con l’espulsione di Ferrara per doppia ammonizione e si chiude con il colpo di testa di Diego Pablo Simeone, che a fine partita corre sotto il settore ospiti indicando il 3 con le dita: tre punti presi a Torino, tre punti rimasti per scalare l’Everest.
Ho passato diversi momenti della mia vita a mandare indietro e far ripartire questo video dal trentanovesimo secondo. Seguo soltanto il taglio che Veron dà al pallone, non arrivo nemmeno al colpo di testa di Simeone. «Oh deliziosa delizia e incanto. Era piacere impiacentito e divenuto carne».
La Juventus inizia ad avere il fiatone, la Lazio se possibile ne ha di più quando si presenta a Valencia per l’andata dei quarti di Champions e finisce piallata. Il gol del momentaneo 4-2 siglato da Salas all’88’ sarebbe interessante in ottica doppio confronto ma Claudio Lopez, già acquistato da Cragnotti per l’anno successivo, al 91’ fissa il 5-2. Il calendario è così fitto da non riuscire a distinguerne i contorni, c’è anche da giocare l’andata della finale di Coppa Italia con l’Inter. Seedorf apre le danze, Nedved e Simeone ribaltano la faccenda, poi però è solo tristezza, mani nei capelli, voglia di non guardare e di non sentire le urla di Ronaldo che si accartoccia al limite dell’area mentre il suo tendine rotuleo si fa poltiglia, lasciandoci nel calcio del nuovo millennio senza il giocatore che ce l’aveva fatto immaginare con qualche anno di anticipo.
Avanti, di tre giorni in tre giorni, fino alla fermata di Firenze, dove la Lazio aveva lasciato il tricolore un anno prima. I biancocelesti fanno e disfano, vanno sotto al 25’ (Batistuta) ma al 31’ sono avanti 1-2, poi si addormentano, Chiesa pareggia, Mihajlovic sbaglia un rigore e ne segna un altro all’89’, quando basterebbe traccheggiare per portare a Roma una vittoria gustosa come un pranzo al mare a metà primavera. Ma c’è ancora Batistuta, una punizione al tritolo, Valeria Cecchi Gori che si alza in piedi come una molla e fa il gesto dell’ombrello alle speranze laziali che si sgretolano. Meno cinque, ché la Juve a San Siro non cade due volte di seguito: Kovacevic piega l’Inter.
Altri tre giorni, riecco il Valencia. Non basta Veron, che in avvio di ripresa butta giù la porta da fuori area. A Piacenza si presenta una Lazio fisicamente devastata. Eriksson pensa di dare una scossa con le due punte ma non c’è verso, allora richiama in panchina Almeyda per Simeone. Il “Cholo” segna subito, si porta le dita sul numero 14 non nascondendo il significato polemico nei confronti di Eriksson, che sembrava averlo dimenticato sul più bello. Raddoppia Veron, i punti dalla Juventus sono ancora cinque. A disposizione ce ne sono soltanto nove.
Simeone, Cammarata, De Santis, Calori
«Ha segnato Calori». Vengo travolto da una vampata improvvisa. Lo stadio inizia a ruggire, ma è un urlo strano, di pancia più che di gola, che si propaga in maniera difforme perché metà della gente si è riversata in campo, sostituita in parte da chi è salito sugli spalti per l’apertura dei cancelli di fine gara, e le regole dell’acustica abituale vanno a farsi benedire. Il maxischermo dice Perugia 1, Juventus 0, gol di Cappioli, e non sapremo mai chi e perché ha sbagliato il nome del marcatore. Inizia una lenta, interminabile processione verso l’inaspettato. È vero, in Tribuna Tevere già dall’inizio della partita c’era un folle col tricolore. È vero, mia madre era convinta di tornare tardi, anche se a questo punto rischiamo di farlo a prescindere dall’epilogo, vista l’ora. Ma intorno a me, in questo momento, tutte queste sacche di ottimismo non ci sono. C’è quella lazialità che dalla vita si aspetta sempre il peggio, che «vedrai, ora pareggiano e vincono», o anche solo «sai che te dico, tutto sommato lo spareggio non è male».
Il 30 aprile c’è il Venezia all’Olimpico, ma non interessa a nessuno, sono tre punti che devono arrivare e arrivano: segna ancora Simeone, le dita sul 14. Le orecchie e i cuori sono tutti al Bentegodi di Verona, dove Fabrizio Cammarata fa piangere il suo ex gemello del gol ai tempi della Primavera bianconera, Alex Del Piero. Due giornate, due punti. Testa al calendario: c’è Juventus-Parma, con i ducali in piena corsa Champions, e Bologna-Lazio. Sergio Conceiçao porta avanti la Lazio davanti a una folla oceanica di tifosi biancocelesti, il bel pareggio di Signori è una doccia ghiacciata. Nel primo tempo di Torino non si muove foglia ma nella ripresa sì: Del Piero trova il primo gol su azione del suo campionato nel momento più importante. È una Juve stanchissima, che ha iniziato la stagione con l’Intertoto ma non molla. C’è anche il boato del Dall’Ara, per una volta solidale con l’odiato nemico bianconero, subito spento da Simeone, a segno su assist di Veron: esultanza “provocatoria” nei confronti del pubblico rivale – le dita non indicano il 14 stavolta – e gol che scuote la squadra fino al tris di Salas. Signori accorcia nel finale e mentre il pallone viene riportato a centrocampo c’è l’urlo degli oltre diecimila laziali. Ha segnato il Parma, ha segnato Cannavaro. No. Il gol viene annullato, la Juventus resta a +2 con 90 minuti da giocare.
La moviola dirà due cose: che il corner in favore del Parma non c’era e che il gol del difensore era buono come il pane. A incendiare uno scenario già propenso alle fiamme è Massimo De Santis da Tivoli, l’arbitro di Juventus-Parma. Con una mossa senza precedenti prima e dopo di lui, il fischietto si rivolge direttamente all’agenzia Ansa: «Ho fischiato prima del colpo di testa di Cannavaro, per me l'azione era conclusa lì». Apriti cielo. Gli audio della partita mettono chiaramente in evidenza che il fischio arriva con il pallone già diretto verso l’angolino. L’arbitro viene deferito, Cragnotti è fuori di testa, ne esce una settimana di calcio urlato. Di complotti, di funerali, di fine del mondo. Della Lazio che vince con la Reggina, di Collina che aspetta e aspetta e aspetta, forse aspetta anche troppo ma fa giocare Perugia-Juventus fino all’epilogo che tutti conosciamo.
Passano i minuti e la scaramanzia inizia a giocare un ruolo gigantesco, perché dagli altoparlanti dello stadio all’improvviso si sente la voce di Riccardo Cucchi e maledizione no, spegnete, che finora è andata così bene, perché dovete rovinare tutto? Di vedere la partita sui maxischermi neanche a parlarne perché non riescono a creare il collegamento, ho una sciarpa di lana al collo anche se c’è il sole. Poi sono le diciotto e quattro minuti, la Lazio è campione d’Italia, la Juventus è stata battuta a Perugia per 1-0 dalla squadra di Carletto Mazzone, linea all’Olimpico, e mi viene fuori una risata isterica che non ho mai più avuto in vita mia.
Lo avevamo detto: c’era anche la finale degli Internazionali di tennis, e Giampiero Galeazzi che è in cronaca capisce quello che sta per accadere e decide che anni di professionalità possono valere un game di silenzio. Percorre il vialone che porta allo stadio con la radiolina accesa, entra in Nord come un eroe. Non c’è più la luce delle 14, non c’è più nemmeno un prato su cui farla rimbalzare perché è ricoperto da un fiume umano.
Il pixellatissimo video del servizio di “Bisteccone”.
Sono di nuovo allo stadio. È il 21 maggio 2000, all’Olimpico si gioca Lazio-Bologna, come nel giorno del centenario. Nel frattempo la Lazio ha vinto anche la Coppa Italia con uno 0-0 a Milano: l’Inter non è riuscita a battere una squadra reduce dai bagordi e con icapelli dei calciatori tinti in modo inguardabile. Non sono in distinti come al solito ma in tribuna Monte Mario: niente prelazione per gli abbonati per l’happening di fine anno. La partita finisce 5-5 davanti a 80 mila persone. Lombardo va in giro con la parrucca di Valderrama, Sensini sfila su un sidecar, Anna Falchi abbozza un mezzo spogliarello: chissà se nel 2020 avrà cambiato repertorio. Il deflusso a fine serata è tranquillo, si passeggia quando un’auto passa lenta. I finestrini sono abbassati, la mano di Cragnotti sporge, stringe quelle dei tifosi. Sono con mia madre ma stavolta c’è anche mia nonna, che ha la sfacciataggine di rivolgere la parola al patron. «Presidente, mi raccomando, non venda nessuno». Vedo lo sguardo di Cragnotti, il suo ghigno. Capisco che la mia fanciullezza è finita.