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Le 8 maglie più iconiche della storia della Nazionale
17 ott 2017
17 ott 2017
Le divise dell'Italia più scolpite nella nostra memoria.
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Poche settimane fa Puma ha presentato la nuova maglia della Nazionale italiana, quella che - se tutto dovesse andare per il meglio - ci dovrà accompagnare ai Mondiali in Russia del 2018. Per l'occasione ci siamo guardati alle spalle e abbiamo messo insieme le maglie più indimenticabili degli azzurri.


1938, l’eredita della storia



Tralasciando quel fugace e per fortuna irreplicato esperimento del total black; tralasciando il fascio littorio che campeggiava evidente sul cuore al fianco della croce sabauda, come da regio decreto n. 504 del 1929; tralasciando, insomma, un’estetica ingabbiata nella simbologia e nella propaganda, in effetti di questa maglia non rimane poi molto.

In parte è una vetrina sul progresso dell’industria tessile in quegli anni: il cotone pesante, lo scollo ampio, le maniche arrotolate, la netta sensazione che prima della produzione in serie ogni maglia fosse a suo modo unica, ogni cucitura avesse un valore storico. In parte è un souvenir con cui ricordare una delle nazionali più vincenti di sempre, e in particolare una coppia d’attacco, Meazza-Piola, che nelle immagini sgranate dell’epoca sembra irresistibile. In parte ci riporta alla mente che il blu Savoia è una gradazione di blu compresa fra il blu pavone e il pervinca, più chiara del blu pavone e più scura del blu pervinca - fidatevi, al prossimo aperitivo nessuno saprà che state citandola prima riga di Wikipedia.

1978, il peso della tradizione



Per tutto il Dopoguerra, l’istituzione in tema di maglie della Nazionale era il girocollo azzurro con lo stemma tricolore sul cuore. Curiosamente, quando abbiamo provato a invertire la tendenza abbiamo anche miseramente fallito sul piano sportivo - i convocati in Cile indossavano una polo, i convocati in Inghilterra un ampio scollo a “v”.

Al di là di singolari eccezioni, quindi, la maglia azzurra molto accollata con i pantaloncini bianchi era il paradigma, l’uniforme che immortalava i campioni d’Europa del ‘68 e gli eroi del Partido del Siglo giocato a Città del Messico. A causa di questa ricorrente sovrapposizione tra il rispetto della tradizione e il dolce sapore della vittoria, per un breve periodo negli anni Settanta siamo stati sponsorizzati da Adidas e nessuno se lo ricorda. Mentre Cruyff era già arrivato a togliersi la terza striscia dalle maniche perché un testimonial Puma non può indossare il trademark di Adidas, noi portavamo la solita divisa istituzionale. L’unico elemento di modernità che Adidas riuscì a introdurre fu il vuoto nei caratteri numerici, tuttora un bel vedere.

1982, il primo tricolore



L’Italia è una delle poche nazioni al mondo, come l’Olanda ad esempio, che non veste i colori della propria bandiera ma i colori della casata reale regnante, con la differenza che qui la casata non regna da ormai settant’anni, ma ormai all’azzurro s’erano affezionati tutti. Le Coq Sportif, azienda francese che in quanto tale immagino particolarmente legata al valore simbolico della bandiera, fu la prima a introdurre il verde, il bianco e il rosso sulla prima maglia, in forma di sottili rifiniture sul colletto e sulle maniche.

Un esperimento riuscitissimo, immortalato dall’urlo di Tardelli a braccia protese nel Bernabeu, e curiosamente quasi mai più riproposto. Di quella maglia ricorderemo anche i numeri, esaltati dalla grande idea dei rilievi tridimensionali. Quel “20” che sembrava uscire dalla schiena di Paolo Rossi come tra le fanfare che annunciavano i film della Century Fox. Quella solidità geometrica classica e rassicurante eppure in qualche modo avanguardista, monumentale, esattamente come la presenza tra i pali del quarantenne Zoff. In Italia con quella vittoria iniziarono gli anni Ottanta, Le Coq Sportif ce ne aveva già offerto un assaggio.

1994, i coloratissimi anni Novanta



Negli anni novanta la tinta unita era considerata un oltraggio al decoro e se non avevi una trama in controluce non eri nessuno. Solo per rimanere al gironcino dell’Italia nel ‘94: la Norvegia sfoggiava un elegante rigato, l’Irlanda un delirio di trifogli inseriti all’interno di confuse geometrie, e il Messico un omaggio psichedelico alla tradizione azteca. L’Italia era sponsorizzata da Diadora, che di fronte all’urgenza di riempire il vuoto non trovo’ altra soluzione che imporre su tutta la maglia la serigrafia del più brutto logo che la federazione abbia mai adottato.

Breve ma necessario intervallo di riflessione: come si giustifica quel pallino azzurro gigante? È un’aureola? È un cerchio nel grano? Perché toglie spazio a tutto il resto (la bandiera, la scritta “Italia”, le tre stelle)? Ho letto che nel complesso dovrebbe rappresentare una “i” stilizzata, ma quale essere umano ha mai disegnato una “i” in quella maniera? Doveva essere la rivincita di tutte le maestre elementari che sottolineano con il rosso i puntini sulle “i” omessi per pigrizia?

Per non macchiare la tradizione, il logo di Diadora non appariva sulle divise (ma mi piace credere che fosse per fuggire al funesto accostamento). È un peccato che quella deliziosa convergenza di madeleine - la vestibilità abbondante, le lettere in corsivo, i numeri rotondissimi e ombreggiati, l’audace rifinitura di piccoli triangoli tricolori - sia destinata a restare storicamente senza firma. L’azienda veneta ha di recente recuperato il terreno perso saltando per tempo sul treno del vintage, con una collezione di felpe firmata in collaborazione con Roberto Baggio che il vostro spacciatore muore dalla voglia di indossare.

1996, al centro della rivoluzione



Dopo l’entusiasmo generato dai Mondiali americani, Nike decide di entrare sul mercato strappando alla concorrenza le due finaliste di Pasadena. In quel momento l’Italia si ritrova al centro di una rivoluzione che piega la curvatura temporale dell’evoluzione stilistica del gioco. Tradotto in tempi in cui la maglia della Nazionale viene utilizzata per pubblicizzare carne in scatola, significa che nello spot più fico di tutti i tempi, prodotto dalla Nike, Maldini è l’unico giocatore a indossare una maglia Nike.

Il rapporto tra Nike e Italia si rivelerà breve ma intenso, e toccherà il suo punto più alto proprio in quella maglia con cui Maldini sconfigge i demoni nel Colosseo, che sarà utilizzata negli Europei del ‘96 e nell’iconico Tournoi de France dell’anno successivo (quello di Ronaldo contro Nesta e Cannavaro, quello della punizione di Roberto Carlos). La punta d’azzurro è perfetta, il colletto è discreto, le rifiniture dorate richiamano un passato glorioso e l’elastico gigante dei pantaloncini ci riporta in un presente di marca statunitense.

È uno straordinario compromesso storico. Non è pacchiana come quella del ‘95, che dice giochiamo secondo le regole (ovvero: va bene la vestibilità, va bene la sottotrama, ma piuttosto che riprodurre quell’orrido stemma lo sostituiamo con lo scudo di Capitan America), e non è anonima come quella del ‘98, che dice ok, ora le regole le riscriviamo, e ci conduce d’improvviso in quel futuro non troppo lontano in cui i bianchi sfideranno i blu, i gialli sfideranno i rossi, e forse non sarà neanche così necessario perché avremo tv sempre migliori.

2000, tra presente e futuro


All’alba del nuovo millennio, il futuro ci si parò davanti e non eravamo pronti ad accoglierlo. Mentre Nike e Adidas costringevano ancora i calciatori a raggomitolarsi le magliette nei pantaloncini e a disegnarsi fianchi da matrona, un’azienda torinese presentò Kombat 2000, un tessuto che sostituiva il tradizionale poliestere con una fibra elastica che si incollava al fisico dei calciatori. Negli anni a seguire, Kappa ha vagamente estremizzato il concetto della seconda pelle fino a costruirci una spiccata identità (riuscite a immaginare un taglio di Callejón senza figurarvelo in maglia termica?), e i meriti vanno ascritti alla precisione scientifica con cui seppero sfruttare il carico simbolico del 2000 per dettare il cambio di rotta.

Anche la comunicazione spinse l’acceleratore sull’idea di futuro. Fa un certo effetto vedere il manifesto pubblicitario in cui il modello indossa una maschera da robottone (beh, l’idea di futuro era quella, casomai sarebbe stato più efficace vestirlo come Neo in Matrix, appena uscito nelle sale) laddove avrebbe potuto indossare un elmo legionario o qualunque altro accenno ai fasti di un passato che fu. In occasione della presentazione della maglia, il presidente del gruppo Kappa sottolineò come i vantaggi della maglia attillata fossero numerosi, per esempio «questo fattore aiuta anche l'arbitro nell'evidenziare le trattenute». È un po’ un tratto caratteristico degli italiani, quella risolutezza nel tenere i piedi ben piantati nel presente anche quando gli occhi sono puntati verso il futuro.

2006, una maglia indimenticabile



È una maglia pretenziosa, difficile da indossare in un campo di calcetto in un nebbioso mercoledì sera, e non solo perché si porta il peso di una squadra indimenticabile. Non capiremo mai l’azzurro così elettrico, non capiremo mai (e auspicabilmente non rivedremo più) l’effetto ascella pezzata, non capiremo mai perché i numeri fossero incorniciati per metà, perché Buffon avesse lo stemma nazionale appiccicato su un bavero, e perché invece i loghi sulle maglie dei calciatori fossero disposti centralmente in fila indiana.

Nonostante tutto, continua a campeggiare in bella vista nel museo della memoria collettiva, a fianco alla lista dei ventitré convocati coi rispettivi numeri di maglia, ai replay di tutti i gol segnati, ai riti scaramantici che ci hanno accompagnato fino alla finale. In fondo non capiremo mai neanche come ha fatto Gilardino a vedere Del Piero che gli arrivava alle spalle, Materazzi a provocare Zidane, Grosso a rimanere freddo e preciso, ma non dimenticheremo niente.

2016, eleganza e sacrificio



La migliore maglia che Puma ci ha regalato negli ultimi tre lustri è coincisa, com’era giusto che fosse, con il mandato dell’allenatore migliore che la federazione ci abbia regalato nello stesso periodo. Insomma, agli Europei francesi ci è mancata soltanto una squadra competitiva, però è stato più facile affezionarsi a quelli che c’erano. In questo elegante rigato azzurro, che aderiva ai corpi con delicatezza senza comprimerceli dentro, Pellè sembrava ancora più bello, De Rossi ancora più carismatico, Giaccherini ancora più motivato.

Nata come «omaggio alla grande tradizione della sartoria italiana», la maglietta era stata presentata nella Sala delle Armi di Palazzo Vecchio, a Firenze, location che aveva strappato qualche lacrimuccia al direttore creativo di Puma, che proprio a Firenze aveva studiato design. Come uomini immagine per la campagna, Puma aveva scelto Buffon, Chiellini, Verratti e Gabbiadini. L’espressione di Manolo, piazzato su un piedistallo di marmo come il David di Michelangelo, con quel sorriso accennato che ne fotografa perfettamente il disagio, contiene le storie malinconiche di tutti quelli che prima di lui sono stati scelti dai pubblicitari e poi esclusi dagli allenatori.

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