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Le battaglie di Sandro Donati
07 dic 2016
Intervista all'outsider dello sport italiano.
(articolo)
16 min
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Un paio di settimane fa una nuova polemica ha coinvolto Sandro Donati e le sue accuse al sistema che governa l’atletica italiana e internazionale. Donati è stato allenatore della Nazionale di atletica leggera e simbolo della lotta al doping, recentemente ha allenato Alex Schwazer nel ritorno post-squalifica, terminato con una nuova squalifica che ha lasciato più dubbi che certezze, di cui abbiamo parlato approfonditamente qui.

Di fronte alle commissioni Cultura e Affari sociali della Camera dei deputati, Donati ha accusato i corpi sportivi militari e di Stato che in Italia gestiscono l’atletica e che «hanno sempre coltivato e protetto il doping»; accuse certamente gravi, ma non nuove. Soprattutto, come tutte le accuse fatte da Donati in tanti anni, sono supportate da fatti documentati. E però, sulle pagine del Tempo di martedì 22 novembre, si legge che il colonnello Paolo Pavano, già capo ufficio sport dell’Esercito e coordinatore dei gruppi sportivi militari, ha chiesto alla Procura della Federazione italiana di atletica leggera (Fidal) di aprire un’indagine sulle parole di Donati. Da cronista la cosa che colpisce maggiormente è che, appunto, Donati certe affermazioni le fa da molti anni: sono contenute anche nel suo ultimo libro “Lo sport del doping”, uscito nel 2013 e presentato in oltre 200 incontri in giro per l’Italia, in un neverending tour del calvario dello sport nazionale.

Per questo ho deciso di intervistato Donati nel mezzo del suo viaggio sull’autostrada che da Roma porta a Carrara e poi La Spezia, dove lo attendono i ragazzi delle scuole medie e superiori perché «i giovani sono più pronti e hanno meno pregiudizi, e possono prendere ancora la strada giusta».

Le accuse ai corpi sportivi militari arrivano in coda all’audizione.

Sulla notizia della richiesta di indagine, Donati taglia corto.

Trovo fuori luogo che i rappresentanti dei gruppi militari, dopo aver fatto un esposto alla Procura federale, ne abbiano poi parlato a un giornale. Guarda caso proprio allo stesso giornale che da mesi sta portando avanti una campagna di attacco contro me e Alex (Schwazer ndr) che è prima di tutto politica. Per quanto mi riguarda, dopo aver incontrato il Procuratore federale, ho redatto e trasmesso allo stesso una memoria. Non ho alcun tipo di timore perché so che il tempo mi darà ragione. Adesso la Procura deve giudicare con calma e sono pronto a rispondere a tutte le domande che avessero da farmi.

Il tema dei corpi militari sportivi in Italia è piuttosto interessante, non fosse altro che per il fatto che da più parti si riconosce che non funzionano, che sono un’anomalia tutta nostra, ma niente viene fatto per portare un cambiamento. Per praticare certi sport in Italia non esiste altra via se non quella di arruolarsi e farsi pagare lo stipendio da soldato?

Non è questa la strada giusta, soprattutto per l’atletica che è lo sport che amo e seguo da tutta la vita. I risultati lasciano molto a desiderare, per usare un eufemismo, da anni e non soltanto dagli ultimi Mondiali e Olimpiadi. Qui c’è bisogno che ognuno si assuma le proprie responsabilità e si faccia un esame di coscienza per il bene dello sport e degli atleti. Le spese dei corpi militari, e quindi dello Stato italiano e quindi dalle tasche dei cittadini, sono altissime e non vengono prodotti risultati accettabili.

In questo modo, oltretutto, non si vanifica ogni tentativo agonistico esterno allo Stato?

Non possiamo non notare che le società sportive, diciamo private, che non hanno aiuto statale, si trovano in una situazione drammatica. Questa situazione è determinata da molte cause ma certo il fatto che qualunque talento passi automaticamente ai corpi sportivi militari contribuisce a marginalizzare e desertificare le società, a togliere motivazione a continuare. Ormai l’ottanta per cento degli atleti sta nei gruppi militari. Io mi sono posto un problema semplice: i soldi che le squadre militari spendono appartengono allo Stato e servono al sostentamento degli atleti, allora perché la loro erogazione deve passare per le mani delle alte e basse sfere militari?

Cosa farebbe, lei, per migliorare la situazione senza stravolgere un sistema difficilmente rivoluzionabile?

Occorre una modalità più affidabile e diretta, che potrebbe essere la creazione di vere e proprie borse di studio da assegnare ai singoli atleti meritevoli, gestite direttamente dallo Stato italiano attraverso i suoi ministeri. Compreso quello dell’Istruzione, perché queste ragazze e ragazzi hanno bisogno innanzitutto di uno stimolo forte a proseguire gli studi come arricchimento personale, ma anche per dare loro un indirizzo forte per il dopo, perché una carriera sportiva è fatalmente breve. Occorre poi una componente previdenziale, perché le difficoltà economiche di molti ex atleti sono un problema reale e costantemente sottovalutato. Non si può pensare soltanto alle performance che può portare uno sportivo, bisogna pensare alla persona, per questo penso anche ad un coinvolgimento degli enti locali nell’erogazione delle borse di studio, ai comuni. Ripeto, lo Stato deve essere presente e deve tutelare l’individuo.

La riconoscenza al corpo è tutto.

Credo ci sia anche un altro discorso, cioè la sottomissione degli atleti alla mentalità militare. Non so se il legame con lo sport è così naturale.

Mi colpisce il fatto che questi militari siano sempre d’accordo su tutto. Una sorta di pensiero unico che mi pare non credibile e anche pericoloso. Dentro lo sport c’è enorme bisogno di idee nuove e diverse, di un costante confronto tra di esse. Spesso questi gruppi hanno un pensiero unico anche rispetto ai dirigenti da eleggere, si evitano tutte quelle discussioni che ti possono mettono contro il potere, che d’altronde è quello che ti paga lo stipendio. In questo modo però lo Stato mortifica la modernizzazione dell’attività agonistica e di sé stesso. Vige un sistema clientelare che tende a lasciare fuori tutte le istanze di innovazione; una dirigenza che non si rinnova mai fa morire lo sport per asfissia in nome del proprio egoismo e dell’accentramento del potere.

La stessa storia professionale e personale di Alex Schwazer si lega alle tematiche del potere che regola l’atletica e ai gruppi militari.

La vicenda di Alex puzza, è una storia fetida ma non per quello che è avvenuto nel passato recente, ma per quanto successo prima delle Olimpiadi di Londra. Schwazer è stato lasciato solo in quel 2012. Il suo corpo di appartenenza e la dirigenza federale non sono stati attenti, anche nella fase di crisi psicologica e di risultati in cui nessuno è intervenuto. Così Alex ha colpevolmente deciso di doparsi, di andare in Turchia e acquistare l’eritropoietina. Io mi chiedo come sia stato possibile lasciarlo solo per un mese intero alla vigilia di un’Olimpiade. Io sono stato il critico più duro di Alex Schwazer, sono stato io a chiedere alla Wada di mandare un controllo a sorpresa a Oberstdorf con due lettere, una l’11 e la seconda il 12 luglio 2012. Se non mi fossi mosso io non sarebbe successo niente, Alex avrebbe partecipato alla marcia di Londra e si sarebbe ritirato (come avvenuto spesso nelle gare precedenti, nda) perché al di là del doping, non era allenato bene, non stava affatto bene psicologicamente. Ad anni di distanza invece si scopre una situazione ribaltata in cui quelli che all’epoca non mossero un dito prima per incastrare l’atleta, e poi per salvare un ragazzo, oggi vestono i panni dei fustigatori. Ma sto vedendo con gli incontri pubblici che faccio in tutta Italia che l’opinione pubblica è da tutt’altra parte rispetto a quella parte del mondo dell’atletica che, in collaborazione con altri, si è adoperata per distruggerlo con l’obbiettivo di affossare anche me. Gli atleti invece sono allineati con i carnefici e, guarda caso, sono quasi tutti militari.

“Non siamo eroi”.

Cosa hanno rappresentato per lei da un punto di vista umano e professionale i quindici mesi passati fianco a fianco con Alex Schwazer?

Una storia bellissima. Lui aveva chiaro nella mente che il suo passato era chiuso ed era pronto a riaffrontare l’atletica in totale trasparenza e correttezza, lo voleva fortemente. Ha avuto la sfortuna di incontrare me prima di Londra, ma poi la fortuna di trovarsi con uno che l’allenamento lo sapeva gestire. All’inizio sono stato molto chiaro con lui dicendogli che con il mio lavoro lo avrei portato ad un alto livello, ma che non avrei mai potuto assicurargli le prestazioni che si raggiungono col doping. Io stesso però non avevo capito subito quanta forza avesse Alex Schwazer, che non aveva mai sfruttato fino in fondo il suo talento. Parliamo di un fuoriclasse assoluto, come non avevo mai incontrato in vita mia. Alex rispondeva ai carichi di lavoro in maniera sbalorditiva, aveva una capacità eccezionale di smaltire la fatica in tempi brevi e quindi mi sono persuaso che non solo sarebbe potuto tornare ai livelli di Pechino 2008, ma andare addirittura oltre.

Lei ha conosciuto la persona Alex Schwazer, entrando nella quotidianità dell’atleta. Ci può dire che esperienza è stata?

Ho visto in lui un ragazzo molto speciale, con un carattere tendente a subire, piuttosto che a reagire alle cattiverie subite, ma al contempo un grande spirito di sacrificio e una notevole forza mentale. Ha accettato di vivere a cento metri da casa mia e centinaia di chilometri dai suoi affetti, dormendo in un alberghetto che si è pagato di tasca sua fino all’ultimo centesimo, così come tutti i controlli a cui si è sottoposto. Quando avrebbe dovuto iniziare a pagare la federazione italiana è arrivata la mannaia della presunta e asserita positività. Nei mesi passati a Roma si è fatto tanti amici nel quartiere che ancora oggi mi chiedono di lui. Alla fine della mia carriera di allenatore mi è capitato di incontrare un fenomeno assoluto e un ragazzo straordinario nella stessa persona.

Quanto c’è del suo lavoro nel percorso di recupero di Schwazer che dopo tre anni e nove mesi di squalifica per Epo è tornato da dominatore alla coppa del Mondo di Roma l’8 maggio scorso?

Ecco, quella gara stravinta, con quasi un chilometro di vantaggio sul secondo, è stata la sua seconda colpa. Dopo quella di aver cercato me (Repubblica mesi fa ha pubblicato stralci di due intercettazioni telefoniche in cui si chiedeva a Donati di lasciar vincere l’australiano Tallent e successivamente di non fare la corsa contro i cinesi allenati da Sandro Damilano, nda). Da subito per lui ho intravisto la possibilità di una carriera ancora molto lunga dopo Rio, dato il suo fisico integro e la capacità di migliorarsi. Le mie capacità di allenatore ci devono essere se anche gli stessi che mi hanno cacciato dalla Federazione lo hanno indirettamente riconosciuto assegnandomi molti importanti incarichi, prima di farmi fuori. In fondo io sono sulle barricate dal 1981, con le denunce dei metodi di Francesco Conconi (emotrasfusioni e somministrazione di ormoni, nda), ma mi hanno fatto fuori nel 1987. Mi hanno sopportato per anni, cercando di farmi tornare indietro sulle mie posizioni perché portavo risultati. Anche Carlo Vittori (storico coach di Mennea, nda) era contro il doping ma se lo tenevano. Diciamo che erano altri tempi quelli di Nebiolo, in cui si combattevano, ma si ascoltavano pure, i dissidenti. Poi è iniziata l’epoca delle epurazioni, o della normalizzazione.

Quante possibilità aveva Alex Schwazer di vincere la 50 km di marcia alle Olimpiadi di Rio 2016?

Alex non solo avrebbe sicuramente vinto a Rio, avrebbe stravinto la 50 km e si sarebbe aggiudicato anche la 20 km. Schwazer, lo ripeto, è un fenomeno assoluto non solo come marciatore ma come atleta in generale, il più forte che abbia mai allenato. Come uomo ha il suo lato oscuro, ed è quello che lo ha spinto quattro anni fa a partire da solo per la Turchia e acquistare l’eritropoietina in una farmacia, tenerla nel frigorifero a casa della fidanzata e iniettarsela. Ma perché è stato lasciato da solo un mese? Tutti sapevano nel suo entourage che stava male psicologicamente, e pure atleticamente era male allenato, come ho già detto. La stessa Carolina Kostner ha confermato che passava intere giornate a letto e quanto la situazione fosse grave si evince anche dalle email che Alex si scambiava con alcuni responsabili della Federazione, che dall’Italia lo rincuoravano e rassicuravano.

Eppure si trattava di un olimpionico che si preparava a difendere il suo titolo. Non ce ne sono tanti, in Italia, di atleti così.

E invece non gli stavano accanto, e ne avrebbe avuto bisogno, perché parliamo di un uomo in lotta con sé stesso, in piena autodistruzione. Lui è l’esempio della sua sconfitta ma anche del fallimento del sistema sportivo di cui faceva parte: a Schwazer sarebbe bastata un’assistenza umana adeguata. Dico questo perché quando è venuto da me non ha avuto bisogno che io dicessi: guarda, ora basta con la camera ipobarica (che simula l’altura e facilita il recupero fisico, nda) e con il Ventolin (antiasmatico che Schwazer prendeva regolarmente, nda). In quindici mesi io non l’ho mai visto avere una crisi asmatica, quindi non aveva bisogno di quel farmaco che davvero altera le prestazioni ma viene somministrato allegramente grazie alle esenzioni terapeutiche. Qui apro una parentesi semplice: chi dismette i farmaci contro l’asma, che hanno effetti anabolizzanti, ma gli vengono concessi con il lasciapassare delle esenzioni terapeutiche, va poi ad analizzare il testosterone e in dosi minime per di più? Non ha senso. E le dico una cosa: il laboratorio di Colonia non si era accorto di nulla di irregolare nella prima analisi dell’urina di Alex, seppure in quel laboratorio lavorino chimici di altissimo livello. Persone che disponevano di una magica sfera di cristallo che li rendeva sicuri che in quell’urina ci fosse qualcosa, invece, hanno richiamato la loro attenzione affinché effettuassero una seconda analisi più approfondita».

Atto finale di una carriera.

Cosa ha fatto appena tornato a casa da Rio dopo l’udienza di fronte al Tribunale speciale dello sport (Tas)?

Innanzitutto ammetto di essere andato in Brasile con la morte nel cuore, sia io che gli avvocati di Alex eravamo convinti che la sua sorte fosse segnata: il Tas avrebbe fatto quello che voleva la Iaaf. Sono andato solo per rispetto di Alex e della sua voglia di proclamare la sua innocenza di fronte a un’ingiustizia. Ma in fondo penso che i due mesi precedenti erano stati così brutti che il ritorno quantomeno avrebbe rappresentato la chiusura di una storia, per quanto terribile. Ho vissuto nell’angoscia perché sapevo che era stata stroncata ingiustamente la carriera di un atleta dall’enorme capacità ed era stato colpito al cuore un giovane senza colpa. Appena rientrato ho preso la mia famiglia e sono partito per la Sardegna: per salvare la mia mente, i miei nervi. In quella situazione ho capito quanto fosse cresciuto Alex come essere umano: l’ho visto evitare la disperazione più nera, si è rivolto ai suoi affetti. Le persone (l’opinione pubblica ndr) però hanno capito e me ne rendo conto in questo giro infinito che sto facendo nelle scuole. Ho capito che ci sono due mondi: quello sul territorio che ha capito la decadenza dello sport e quello che con lo sport guadagna, vecchio, di potere. La Iaaf ci aveva messo in difficoltà continua, questo lo sapevo, ma c’erano elementi che abbiamo saputo solo a Rio. Ma io voglio rivelare tutto. Pubblicherò tutto della vicenda di Alex Schwazer.

“Una grande famiglia”.

Il comitato olimpico ha proposto dei cambiamenti sostanziali: alla Wada resteranno i compiti di ricerca e coordinamento dell’antidoping, mentre al tribunale di arbitrato spetterà il potere di squalificare gli atleti per doping, ma anche la possibilità esclusiva di emettere giudizi e sanzioni su organizzazioni statali. Mi pare un chiaro riferimento alla dura presa di posizione della Wada contro la Russia. Che ne pensa?

La strategia del sistema è semplice: gettare polvere negli occhi. Ridurre tutto a singoli fatti di doping, quindi di responsabilità del solo atleta o al massimo di qualcuno del suo entourage, ma in ogni caso evitare nel modo più assoluto di coinvolgere le federazioni nazionali e internazionali. La Wada, pur essendo stata politicamente molto cauta, non è stata perdonata per il report sulla Russia e sulla Iaaf. Il caso Schwazer è stato usato come uno specchietto per le allodole, la stessa vicenda di Yuliya Stepanova che ha denunciato per prima il doping di Stato russo e poi si è vista negare la partecipazione alle Olimpiadi è paradigmatico. Al principe Alessandro De Merode (vecchio presidente della commissione medica del Cio, nda) non piacevano i pentiti, perché non erano controllabili. Ecco, è rimasto tutto come allora. La russa che denuncia e non partecipa è un chiaro segnale a non parlare. Il sistema autogestisce i controlli: si mostra spietato all’esterno ma dall’interno dimostra di non voler combattere il fenomeno nel suo insieme. La Wada ha fatto una volta il suo lavoro e viene ridimensionata. Craig Reedie, responsabile della Wada, è al tempo stesso vice presidente del Cio. Dove sta l’indipendenza?

Le esenzioni terapeutiche che sono state rivelate dagli hacker russi l’hanno stupita?

Questa è la zona grigia del sistema sportivo, un mezzo attraverso il quale gli atleti hanno certificazione di comodo per doparsi, non in maniera eclatante, ma si tratta comunque di doping. Se il sistema gestisce sia gli atleti che il loro controllo è chiaro che siamo di fronte ad un enorme conflitto di interessi. Quindi o se ne viene fuori con i governi che creano agenzie davvero indipendenti e che stabiliscono le modalità di controllo, oppure si continua così, senza un briciolo di credibilità. Ora tutti sanno che l’organismo controllante è compiacente e si limita a fare qualche test soltanto quando ci sono le gare importanti.

Abbiamo bisogno di hacker informatici per sapere che gli atleti usano troppi farmaci?

Alcuni parlano di liberalizzare il doping

Lo sport di alto livello ha infranto da tempo ogni limite e quindi ci troveremmo di fronte a dosaggi folli, ma anche a mix impensabili di farmaci. Oggi viviamo in una situazione migliore rispetto a quella di dieci o venti anni fa, con medici meno spregiudicati e atleti maggiormente consapevoli. Con la liberalizzazione si arriverebbe a somministrare dosi mortali. Faccio una semplice osservazione: il concetto di liberalizzazione è nato con le droghe, ma in quel caso si tratta di liberalizzare la vendita delle sostanze sottraendole ai canali gestiti dalle mafie. Non c’entra assolutamente niente con la richiesta di liberalizzare la domanda, cosa che avverrebbe nel nostro campo, perché l’offerta è già libera dal momento che i farmaci si trovano nelle farmacie e sono prodotti da industrie riconosciute. Va abbandonata definitivamente questa idea folle della liberalizzazione del doping perché altrimenti si diventerebbe complici di una strage.

“Il carburante per vincere”.

Un’ultima domanda: Manuela Di Centa e Francesco Moser l’hanno mai querelata poi? (I due atleti azzurri hanno in passato annunciato querele contro Donati che ne aveva svelato i rapporti con i professori dell’emodoping e dell’Epo Francesco Conconi e Michele Ferrari, nda).

Mai nessuno mi ha querelato, mai. La situazione orrenda che vedeva Coni e federazioni lavorare con Conconi è stata stroncata grazie alle mie denunce. Le mie accuse sono state tutte provate e confermate, chi minaccia le querele poi non le porta in tribunale davvero perché ha paura che si sappia cosa ha fatto. Ma ora si sta tentando di darmi il colpo di grazia, per avere un definitivo ambiente di cicale, come cantava Fabrizio De André.

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