Alla vigilia dell'esordio di Messi nell'ultima Coppa del Mondo alla guida della sua Argentina, adidas ha pubblicato un video dal titolo "The Impossible Rondo", dove il capitano dell'Albiceleste ritrova le versioni più giovani di se stesso, quelle che hanno preso parte alle quattro edizioni precedenti della FIFA World Cup (2006, 2010, 2014 e 2018). Per Leo, Impossible is Nothing. Questo è un viaggio tra i cinque Messi e le cinque coppe del mondo della sua vita.
Non c’è stato Mondiale nella carriera di Lionel Messi che non sia stato, innanzitutto, una lunga, curiosa attesa. E spesso, proprio come diceva Ephraim Lessing, per il quale l’attesa del piacere era essa stessa il piacere, il momento che siamo riusciti a goderci maggiormente è stato quello in cui cullavamo una promessa di gloria. Perché poi la speranza di vederlo muoversi, in campo, con la camiseta Albiceleste, con la stessa grazia eterea e aliena con cui lo osservavamo sui campi di Spagna ed Europa, con il Barça, non ha spesso trovato soddisfazione. Nella competizione più importante per la carriera di un calciatore, Lionel Messi è sempre stato meno trascendente, più fallibile, meno divino.
La storia di Messi ai Mondiali è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani, e mano a mano che attraversa un Mondiale, un’eliminazione, un altro Mondiale, un’altra eliminazione, si ripete «fino a qui, tutto bene». Ma è anche il time-lapse della crescita, dell’evoluzione, di un’infiorescenza di uomo che sboccia campione, si fa mito rigoglioso, e lotta contro le intemperie affinché non debba rassegnarsi al destino ineludibile di appassire, tramontare.
Il primo Mondiale di Lionel Messi: Germania, 2006.
L’Argentina non si presenta a un Mondiale con un diciottenne in rosa da settantadue anni: l’ultimo era stato Ángel Grippa, peraltro un portiere, peraltro un amateur, un chacarero, peraltro mai sceso in campo (anche perché nel 1934 l’Argentina disputò una sola partita, a eliminazione diretta, con la Svezia). All’età in cui Lionel Messi viene aggregato all’Albiceleste per una competizione iridata, neppure Diego Armando Maradona era riuscito a farsi convocare da Julio César Menotti.
Per tutta una serie di motivi, il Mondiale di Germania non può essere il Mondiale di Messi: è pur sempre molto giovane, per quanto non del tutto acerbo, e in aggiunta è reduce da un infortunio, rimediato a Marzo, contro il Chelsea, che lo ha tenuto lontano dal campo e gli ha impedito di scendere in campo, a Parigi, nella finale di Champions League che sarebbe anche stato il canto del cigno del Barcellona di Rijkaard.
José Pékerman punta tutte le sue fiches sul “Mudo” Riquelme: Lionel dai capelli lunghi al vento, dalla faccia impertinente, dalla maglia troppo larga è la mascotte talentuosa di una squadra non strabiliante ma coriacea, con una sua identità di gioco e di gruppo. Non si può dire, però, che non sia già sovraesposto, Lionel Messi: la sua è una storia che si presta perfettamente alla didascalicità della favola. I problemi con la crescita, la capacità di sopperire a un minus fisico grazie al bacio di un dono divino, la possibilità di potersi fare testimonial cristallino del motteggio secondo cui niente è impossibile: Messi nel 2006 è il cartoon che si fa vedere nelle scuole, o nelle sale dei musei dedicate ai ragazzi, come puro atto di edutainment.
Indossa degli scarpini bianchi, gli F50, quantomeno pretenziosi: sull’esterno del tallone c’è il suo nome, la sua maglia, la 19, e un ammiccamento alla Mano de Díos. Ha vinto, da protagonista, il Mondiale U20 disputato un anno prima. L’esordio in Nazionale, arrivato qualche settimana più tardi, è stato battezzato da un’espulsione.
Nessuno sa chi sia, realmente, Lionel Messi.
L’esordio mondiale avviene nella seconda partita della fase a gironi, contro la Serbia, quando il risultato è già acquisito: ha 18 anni, 11 mesi e 11 giorni, ed è il più giovane argentino a debuttare in una Coppa del Mondo.
In quella partita, Cambiasso segna un gol al termine di un’azione collettiva fatta di ventiquattro tocchi: è probabilmente la partita più brillante che una nazionale argentina abbia mai giocato in un Mondiale, in uno stadio – quello di Gelsenkirchen – dove nel ‘74 era arrivata una delle sconfitte più sonore della storia dei mondiali della Selección, contro l’Olanda di Crujiff. Lionel Messi, che segna il gol del 6-0, è l’individualità che esplode esattamente nel match che, invece, al contrario, sublima il collettivo.
Esulta alzando un dito, il numero 19, come a voler suggerire ci sono anch’io, ci sarò anch’io. Gioca poco, però, in quel Mondiale. Nel giorno del suo compleanno gli concede una mezz’ora contro il Messico: la sera, quando entra nella stanza di Riquelme, nato il suo stesso giorno, che sta festeggiando, con l’idea di fare un po’ suo quel festeggiamento, viene cacciato in malo modo. «Non ti hanno detto che si bussa?», lo apostrofa Riquelme. «Chi cazzo ti credi di essere?».
Pékerman non crede nel valore salvifico del talento, ed è coerente con le sue idee. Nella sfida valida per i quarti di finale, contro la Germania padrone di casa, non lo fa entrare in campo. Gli preferisce Julio Cruz. L’Argentina perde ai calci di rigore, e l’immagine di Messi in panchina, braccia conserte e scarpe slacciate, sguardo perso più che contrito, diventerà l’immagine di una scarsa compartecipazione emotiva. Lo criticheranno, certo. Ma soprattutto si farà strada, in noi, per la prima volta, lo scontro tra una fiducia di tipo quasi messianico e il risultato deludente, che è lo stesso scollamento tra chi Lionel Messi realmente è, e chi gli argentini credono, o forse sarebbe meglio dire sperano, che sia.
Il secondo Mondiale di Lionel Messi: Sudafrica, 2010.
L’Albiceleste acciuffa la qualificazione al Mondiale sotto al diluvio del Monumental, contro il Perù, in un momento che è pura cristallizzazione di mistica. Quando Martín Palermo insacca il gol decisivo, Lionel è sfocato, come gli altri giocatori, come spesso gli capita in quegli anni quando veste la camiseta albiceleste. Per festeggiare la qualificazione Diego Armando Maradona, che di quella Selección è il tecnico da poco più di un anno, si lancia goffamente sul prato, in una specie di stage diving.
In realtà, più che il tecnico, di quella Nazionale Maradona è il faro mistico, il totem: il suo approccio tattico era tutto concentrato sul concetto di posizione, ma su una sfumatura diversa, perché non si parlava di posizione in campo, quanto piuttosto di posizione nel mito.
Lionel Messi è già reduce da due annate strabilianti al Barcellona, sotto la guida di Pep Guardiola. In Sudafrica gioca sempre, ogni partita. Non riesce a essere incisivo, non come ci si aspetterebbe: i suoi movimenti in campo sono mercuriali, eterei come quando veste blaugrana, ma chissà, forse anche per un pizzico di sfortuna, inconcludenti.
Contro la Corea colpisce il palo dopo un’azione messiesque, e Higuaín insacca.
Messi contro la Corea del Sud, foto di Shaun Botterill / Getty Images.
Contro la Nigeria, il portiere Enyeama si esalta. Il punto è che Messi non riesce proprio a entrare nel cuore dei suoi connazionali, che gli preferiscono sempre, per una questione di appartenenza, di commitment, per come sa specchiarsi nell’archetipo del pibe cara sucia, l’”Apache” Tévez.
Maradona, nella partita contro la Grecia, gli affida la fascia da capitano. Colpisce una traversa al termine di un’azione per la quale lo avremmo glorificato; poco dopo è protagonista di un’altra giocata individuale che vede il suo tiro respinto dal portiere ellenico rimbalzare sui piedi di Martín Palermo, che ancora una volta segna un gol con sfumature mistiche. I capelli danzano al ritmo dei suoi dribbling nello stretto, delle accelerazioni fulminanti.
È il migliore al mondo? Probabilmente lo è, ma non riesce a scolpire l’assunto sulla roccia. Al termine della partita con la Grecia, riferendosi al trattamento piuttosto violento che Karagounis ha riservato a Leo, Maradona dice «se la prenda con me, non con questo ragazzo che ha appena cominciato». In quel momento, Leo ha già collezionato un Ballon d’Or e due podi.
Tutto il rapporto tra Diego e Messi è ambiguo, ondivago, per niente incentrato alla valorizzazione, all’investitura: Diego è Edipo che ha intuito come andrà a finire la storia, e si guarda le spalle. D’altra parte è come se Leo volesse, chissà quanto inconsapevolmente, scansare la spalla dalla spada del monarca che lo sta investendo, perché negli occhi di Diego scorge invece una volontà, o un riflesso pavloviano inconsapevole, di decapitazione.
Il calcio che Diego chiede a Leo è un ritorno al paleolitico, un’era che Messi non ha mai conosciuto: non è il giocatore da potrero, l’eroe mistico e solitario che si carica sulle spalle tutto il peso del mondo, Titano moderno. La sua educazione calcistica vede il talento come scintilla che innesca un ordigno perfettamente congegnato, e l’Argentina di Diego, quella perfezione, non ce l’ha.
Tre giorni dopo il suo compleanno sfida il Messico: il “Conejo” López si oppone a ogni suo tentativo, l’Argentina è una chiatta che avanza per inerzia, approfittando della bonaccia, nella paura – e in fondo l’attesa – che arrivino le ripide, o un uragano.
La tempesta perfetta si scatena una settimana più tardi: la sconfitta contro la Germania è perentoria, Schweinsteiger e Khedira lo ingabbiano, lo tengono lontano dalla zona di influenza maggiore, lo costringono a defilarsi, a perdere mordente. Ne spengono le ceneri.
Fernando Signorini, il preparatore atletico di quell’Albiceleste, che è stato anche il preparatore atletico personale di Maradona, dirà che Messi alla fine era «distrutto, disperato».
Eppure, a fine anno, il migliore al mondo sarà nuovamente lui. Quando alzerà il Ballon d’Or in molti si farà strada la convinzione che per quanto immeritato, quel riconoscimento sia un tentativo di motivazione, di incoraggiamento, a riprovarci, a fallire meglio.
Il terzo Mondiale di Lionel Messi: Brasile, 2014.
Mancano pochissimi minuti al termine del secondo tempo supplementare della finale del Maracanã tra Argentina e Germania.
Schweinsteiger ha atterrato Leo sulla trequarti, una posizione leggermente defilata sulla sinistra. Non è la mattonella più invitante, ma sul pallone c’è Lionel Messi: da quel punto ha saputo disegnare parabole sui campi di mezza Europa, arcobaleni che si sono conclusi in deflagrazioni di boati ammirati.
A quella finale, Messi non ha trascinato l’Argentina: ce l’ha strattonata. Nella partita d’esordio ha segnato, contro la Bosnia, convergendo da destra, per sistemare il pallone sul suo sinistro: per quanto possa sembrare pazzesco, quello è solo il suo secondo gol a un Mondiale.
È nel prime della sua carriera: anche iconograficamente si staglia con una allure decisamente calciocentrica, priva di ogni orpelli. Non c’è appariscenza, in lui, ma il rigore quasi militaresco della dedizione. Tutta l’iridescenza del suo calcio è negli scarpini, variopinti, sui quali sono riportati i nomi dei figli. Tutto ciò che conta, di Lionel Messi, è nei suoi piedi.
È una minimizzazione tutta zen: e in quanto tale si rivela contro l’Iran, all’ultimo minuto. Non si impone: appare. Fa, come avrebbe detto il “Chiqui” Romero, quel che ci si aspetta faccia un genio: «Strofina la lampada; esaudisce desideri; rientra nella lampada».
Quando allarga le braccia è un Cristo di Corcovado ma più serio, scevro della spensieratezza che ti conferisce la santità. Nell’ultima partita del girone con la Nigeria, tonitruante come un ingresso a Gerusalemme, si materializza al centro dell’area per scagliare una mina nella porta avversaria. Poi, da una porzione di campo non poi così dissimile da quella in cui lo abbiamo lasciato, in finale con la Germania, disegna una parabola che Eneyama neppure prova a intercettare, disorientato come John Travolta in quel famoso meme.
Ha segnato quattro gol in tre partite: la sensazione di onnipotenza, di accentramento delle responsabilità, sembra materializzarsi. Ma è proprio in questa fase che comincia la sua fase massimamente cristiana: la carità, il sacrificio. Contro la Svizzera rinuncia alle scintille: si fa catalizzatore di attenzioni, risucchia gli avversari, con i loro timori, su di sé per innescare Di Maria, che segna il gol decisivo per il passaggio del turno.
La narrativa del talento che si basta di per sé, nel Mondiale brasiliano non decolla mai del tutto. La sfida al Belgio – lo stesso avversario che aveva assistito alla detonazione fragorosa dell’Onnipotente Diego nell’86 – lo vede defilato: calcia una punizione alle stelle da poco fuori l’area di rigore, ma l’Albiceleste riesce comunque ad approdare in semifinale, e non è forse questo, che riescono a fare i grandi condottieri? Vedere i propri plotoni avanzare solidi anche se non li guidano dalla prima linea?
Spesso i commentatori inglesi di quelle partite hanno utilizzato, per Messi, l’aggettivo talismanic; secondo il Merriam-Webster «qualcosa (o qualcuno) capace di produrre, apparentemente, effetti magici o miracolosi». Da Lionel Messi ci si aspetta, sempre, la magia. Il prodigio. C’è effettivamente qualcosa di esoterico, nell’approccio di Messi alle partite che conducono verso l’epilogo atteso. Ma sembra abbiano più a che fare con il sortilegio.
Contro l’Olanda, in semifinale appunto, Messi è come paralizzato. Il giorno prima l’antagonista più attesa, il Brasile padrone di casa, è caduto sotto i colpi impietosi dei tedeschi (il famoso 7-1, il Mineirazo). Di cosa ha paura, Lionel Messi? Di non reggere il peso delle aspettative, di non essere in grado di scolpire quel Mondiale, nella memoria collettiva, come «il Mondiale di Messi»? Poco prima dell’inizio del torneo, in un’intervista a «L’Èquipe», ha dichiarato «Voglio essere campione del mondo». Ed ha aggiunto «ma non per cambiare la maniera in cui sono percepito». Eppure Lionel sa che la sua percezione non può prescindere dal successo più ambito.
Con Sabella in panchina, finalmente, ha trovato la felicità. Ha trovato un contesto tattico che ne sublima le caratteristiche. Ma il sortilegio, umanissimo e al contempo ultraterreno, di non riuscire a essere chi vorrebbe essere, di non riuscire a essere chi tutti vorrebbero fosse, lo attanaglia.
La punizione si spegne altissima sulla traversa di Neuer. Pochi secondi dopo, la Germania è campione del Mondo, e nella scena di Leo che sale le scale per ricevere un premio che suona canzonatorio, quello di miglior giocatore del torneo, schivando con lo sguardo la Coppa del Mondo che gli è sfuggita ancora, c’è la cristallizzazione del suo senso di incompiutezza.
Il più forte del mondo con lo sguardo basso. La festa, ancora una volta, appartiene ad altri.
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Un rondo impossibile tra tutti i Messi possibili.
Il quarto Mondiale di Lionel Messi: Russia, 2018.
L’interregno tra il Brasile e la Russia è il più complicato per la carriera di Lionel: come si può far convivere la magnitudine del proprio talento con l’affilatezza del rasoio della delusione? Per giunta reiterata? Dopo la finale di Rio de Janeiro, Leo aveva guidato l’Argentina verso la finale di due Copa América consecutive: in Cile, dove era stato sconfitto ai calci di rigore; negli Stati Uniti, rinascendo dalle sue ceneri, arrivando a torneo in corsa, recuperando da un infortunio, con un impatto tellurico, ma inciampando, ancora una volta, all’ultimo secondo dell’ultima scena dell’ultimo atto, ancora contro il Cile. Ancora ai calci di rigore.
Aveva sbagliato il suo tiro dal dischetto, Messi, in quella seconda finale e subito dopo ha detto che forse «non fa per me». Vincere con l’Albiceleste, intendeva. Gestire il peso dell’incapacità. Essere fallibile. «No es para mi», ha detto Leo, e quando sembrava che avessimo perso le parole per descriverne il gioco, la portata mitopoietica, il significato, ce ne ha regalate di nuove. Si è ritirato dalla Nazionale.
Tornerà, ovviamente, qualche mese più tardi. Lo farà con la barba incolta, i capelli patinati, un nuovo tatuaggio che gli copre di nero, totalmente, il polpaccio sinistro (la gamba magica). Con uno spirito diverso, più demiurgico, più taumaturgico. Quando sulla panchina, dopo Bauza, siederà Sampaoli, il mismatch carismatico risulterà partita dopo partita più evidente. «Questa squadra è più di Messi che mia», dirà “el zurdo”, come per sollevarsi dalle responsabilità. Sicuramente riconoscendo quanto la figura del diez fagocitasse tutto il resto, lui incluso. «La differenza tra Messi e il resto dei calciatori», aveva detto prima di assumere il comando dell’Albiceleste «è la stessa che c’è tra un bravissimo poliziotto e Batman».
Quando nell’ultima gara delle Eliminatorie l’Argentina è a un passo dall’eliminazione, Messi diventa ciò che i commentatori inglesi dicevano di lui: un talismano. Segna una tripletta, si carica la croce sulle spalle, è il deus ex machina, il salvatore della patria, l’apparizione mariana. Se l’Albiceleste è ai Mondiali di Russia del 2018, è anche e soprattutto per via di questa partita con l’Ecuador, iniziata malissimo (l’Argentina era andata sotto 1-0), terminata con una delle poche (finora) celebrazioni maradoniane, pantocratiche, di Messi.
Nella gara d’esordio del Mondiale poi sbaglia il rigore che non permette all’Argentina di superare lo scoglio – tutt’altro che inarginabile – dell’Islanda. Nella partita successiva, contro la Croazia, è irriconoscibile: non tira neppure una volta in porta, fa 5 passaggi in meno di Caballero, il portiere. Sembra assente. È nel gruppo dei veterani che sta preparando il golpe contro Sampaoli, che dopo la sconfitta contro la Croazia non viene esautorato, ma sfiduciato nello spogliatoio. «Non ci arriva quello che dici», rimproverano al tecnico. «Devi fare un passo indietro», lo esorta il presidente dell’AFA, Tapia.
Contro la Nigeria sembra rinascere: segna il primo gol di questo suo Mondiale, con un controllo fluido che gli attraversa tutto il corpo prima di portare la palla sul sinistro, addomesticarla, incrociarla verso la porta avversaria col piede meno educato. La Nigeria pareggia, e quando transita vicino alla panchina Sampaoli gli chiede: «lo metto, al Kun?». Messi, placido, acconsente: dieci minuti più tardi, su assist del Kun, Marcos Rojo trascinerà l’Albiceleste agli ottavi, dove cadrà sotto la superiorità schiacciante della Francia.
Quella contro la Nigeria, ad oggi, è l’ultima delle sei reti segnate da Lionel Messi in una Coppa del Mondo.
Cinque. Di Coppe.
La storia di Messi ai Mondiali, in fin dei conti, è una storia di delusioni: una promessa di gloria, dicevo, mai realmente compiuta. Ogni delusione, certo, somiglia all’altra solo negli effetti, mai nelle cause. Ma la sensazione di vuoto che abbiamo visto nei suoi sguardi, e abbiamo avvertito quando le mani che si sono posate sul trofeo dorato, semplicemente, non erano le sue ci hanno comunque lasciato nelle orecchie il medesimo rumore bianco.
Quello che si appresta a cominciare, in Qatar, sarà il suo quinto: almeno da questo punto di vista è riuscito a far meglio di Diego Armando Maradona.
In Qatar, Lionel Messi dormirà in singola: dopo il ritiro del Kun, nessuno condividerà la sua stanza. Nella solitudine, l’attesa sarà ancora più densa. Perché non è per niente vero, come diceva Ephraim Lessing, che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere.
Ci arriva da líder máximo, quoque tu, da trascinatore assoluto, da vero caudillo, ma educato, mai sanguinario, mai volgare. Per la prima volta non scenderà in campo in un Mondiale il giorno del suo compleanno. Ci arriva da accentratore di speranze, di gioco, di attenzioni: più spensierato, più felice, o forse semplicemente solo più maturo, e più consapevole, del fatto che il karma, in una maniera o nell’altra, dovrà chiudersi. Forse per questo ha scelto di indossare degli scarpini molto simili agli F50 del Mundial d’esordio. Questa volta nessun ammiccamento farà – né avrebbe fatto – storcere il naso. Questa volta, il fatto che siano dorati sembra non un vezzo, ma una scelta scontata, lapanissiana.
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La scarpa celebrativa ideata da adidas.
C’è un aneddoto sulla predestinazione che alcuni giocatori hanno raccontato in “Sean eternos”, la serie sulla vittoria in Copa América del 2021 prodotta da Netflix. Durante il torneo, una sera, alcuni giocatori – tra cui il Kun Agüero, Otamendi, il Papu Gómez e lo stesso Messi – hanno fatto un gioco: ognuno di loro aveva dieci carte tra le mani, e doveva indovinare quale sarebbe uscita. Se tutti avessero indovinato, avrebbero vinto la Copa.
Il Papu ha scelto l’asso di bastoni: dopo aver sfogliato qualche carta, è uscito l’asso di bastoni.
Otamendi il sette di spade: dopo aver sfogliato qualche carta, è uscito il sette di spade.
Lionel Messi ha scelto il cinque di coppe.
Nei tarocchi, la carta del cinque di coppe rappresenta un uomo coperto da un mantello, la testa ricurva: sullo sfondo c’è un fiume, attraversato da un ponte, sullo sfondo un castello in rovina. Ai piedi dell’uomo, cinque coppe: tre riverse sul terreno, due ancora in piedi.
Lionel Messi, in quei giorni, stava abbandonando il suo castello, Barcellona: un castello in rovina. Lo aspettava un cambio epocale, l’attraversamento dell’ennesimo ponte: il fiume che scorreva poteva benissimo essere il Paraná, che attraversa la Rosario da cui ogni cosa è iniziata, o chissà, la Senna. L’uomo con il mantello, il più grande mistero conosciuto della storia del calcio, Lionel Messi, ai suoi piedi aveva cinque coppe. Tre, sfumate, svanite: cosa sono se non i tre trofei persi consecutivamente a cavallo tra il 2014 e il 2016?
Di lì a poco, però, l’Argentina avrebbe sollevato la Copa América al Maracanã. La prima delle due ancora in piedi.
Ora non resta che l’ultima: e chissà che non sia la prossima.