Scrivere di Jimmy Butler significa prima di tutto compiere una scelta sul peso da dare al suo passato, perché per retorica e avvenimenti la sua storia personale è tanto ricca da sembrare quasi uscita dalla sceneggiatura di un film hollywoodiano. A grandi linee gli avvenimenti sono ormai noti a tutti: cresciuto nel Texas senza padre e con la madre che lo ha cacciato di casa a 13 anni dopo avergli detto che non gli piaceva l’espressione sulla sua faccia, ha frequentato le superiori senza fissa dimora, riuscendo a trovare una famiglia che lo accogliesse solo nell’ultimo anno. Dopo quattro anni di college è arrivata la chiamata dei Chicago Bulls, ma solamente a fine primo giro del Draft 2011, senza grandi pretese oltre il guadagnarsi una onesta carriera difendendo duro su ogni possesso. È da lì però che è partita la scalata: da riserva a miglior difensore sugli esterni, da secondo violino a stella assoluta della squadra, giocatore più pagato del roster e vincitore del premio di Most Improved Player della lega dopo aver lavorato tantissimo per diventare un giocatore da 20 punti a partita. Oggi, Jimmy Butler è un giocatore da top-10 della lega sui due lati del campo.
Se esiste un trucco a Hollywood però è proprio quello di sapere quando è il momento di far arrivare i titoli di coda. E se la sua storia fosse davvero da film, sono sicuro che la stagione 2014-15 sarebbe stato il momento perfetto per far terminare la pellicola. Perché a tutti piacciono le storie che finiscono bene in cui il protagonista supera tutte le difficoltà per raggiungere il tanto sospirato successo. Le stagioni di Butler nel suo prime invece sono quelle dell’epilogo messo nei bonus del DVD, quelle che nessuno vuole realmente vedere, quella in cui si vede Butler adattarsi alla nuova realtà di leader designato della squadra e multimilionario prima di aver compiuto 30 anni. In un contesto nuovo pieno di aspettative e la necessità di un ennesimo salto di qualità — quello più difficile, da All-Star a Superstar — le cose non sono andate esattamente come sperato.
Due diverse visioni del mondo
Se, nell’apogeo del pace and space che ha coronato una squadra in grado di sfruttare quest’idea al massimo come i Golden State Warriors, vi domandaste quale impatto in campo potrebbe avere un ottimo giocatore di 20 anni fa, vi basterebbe riguardare le ultime tre stagioni di Chicago per trovare la risposta. Perché i Bulls da tre anni ormai sono la squadra di Butler, un giocatore cresciuto in un universo parallelo dove Steve Nash non è mai nato e dove quindi il tiro da tre è ancora l’ultima risorsa utile di un attacco concentrato nelle mani della sua stella e nella sfida individuale con il suo marcatore. E l’impatto di Butler nel gioco dei Bulls è tale che neanche l’arrivo di Fred Hoiberg, convinto seguace — almeno per come ci è stato presentato — proprio di un sistema che si fonda su pace and space, ha scalfito più di tanto il gioco della squadra. Anzi, la vera narrativa di fondo delle ultime stagioni è proprio il rapporto tra la stella della squadra e il resto dei Bulls, passando a turno dai compagni all’allenatore fino ad arrivare alla dirigenza.
Questo rapporto ha segnato il primo anno in NBA di Hoiberg e Butler, scoperti loro malgrado incompatibili ma costretti a trovare un punto d’incontro, visto che il futuro a medio termine della squadra poggia almeno in teoria sulle loro spalle. Incompatibili perché hanno una visione del gioco differente, ma non solo per quanto concerne il campo ma anche nel rapporto interpersonale e nel modo di gestire il gruppo. Butler — abituato forse ad avere a che fare con un sergente di ferro come Tom Thibodeau — pretende sempre il 100% da se stesso senza pensare minimamente di poter abbassare il livello di agonismo, avendo un’idea di leader come di una persona che si assume tutte le responsabilità e che impone il suo carisma con l’esempio, e non con una voce conciliante verso il resto dei compagni. Nella visione del mondo di Butler, il leader deve essere infallibile e caricarsi il peso del mondo sulle spalle ogni singolo possesso, trascinando così anche i compagni a dare il meglio. Compagni che non devono quindi fare nulla di meno rispetto a quanto fa lui; se lo fanno, è giusto che l’allenatore cerchi lo scontro e non la conciliazione. L’NBA è dura e non c’è tempo per aspettare nessuno.
Coach Hoiberg invece è più rilassato: nel suo primo anno ha installato un clima di dialogo con i giocatori venendo incontro alle loro richieste, volendo essere più flessibile ha imposto una transizione meno rapida di quanto pensata inizialmente dal gioco di Thibodeau reinstallandone alcuni schemi. Vuole che ogni giocatore si assuma le sue responsabilità all’interno di un sistema, comprendendo quindi anche i propri limiti e cercando di fare solo quello che sa fare benissimo, così da poter massimizzare il proprio impatto.
Questa visione totalmente diversa della pallacanestro però ha ormai creato una spaccatura all’interno della squadra, tanto in campo quanto fuori. Nella scorsa stagione i Bulls hanno avuto un rendimento segnato da infortuni e da scelte che non hanno aiutato per nulla la causa: due membri chiave come Joakim Noah per la difesa (con le sue doti di comunicazione) e Nikola Mirotic per l’attacco (unico in grado di dare una parvenza di spazi con il suo ipotetico impatto sulle spaziature della squadra, pur tenendo percentuali alterne) sono usciti di scena nel momento chiave della stagione, con i Bulls in piena corsa per la seconda posizione ad Est. L’infortunio dello stesso Butler il 5 febbraio 2016 contro i Denver Nuggets ha dato il colpo di grazia alla parabola di sviluppo della squadra, passata da un record di 22 vinte e 12 perse ad uno di 27 vinte e 22 perse nel tempo trascorso fino al definitivo ritorno in campo di Butler. La stagione è finita con un record di 42 vinte e 40 perse e i playoff mancati.
La frattura tra Butler e il suo allenatore si era palesata a dicembre 2015 dopo una sconfitta contro i New York Knicks in cui Butler aveva accusato Hoiberg di non allenare la squadra abbastanza duramente, isolandosi poi sempre di più dal gruppo. Come riportato anche da Zach Lowe nello stesso periodo, Butler si era allontanato mentalmente dalla squadra venendo meno al suo ruolo di leader designato — anzi, che si era auto-designato in estate dopo aver firmato il rinnovo di contratto — finendo per concentrarsi forse anche troppo nella sua vita fuori dal campo e dando luogo ad atteggiamenti da superstar impensabili fino a poco tempo prima, come il saltare l’appuntamento per una trasferta senza avvisare prima nessuno dello staff o iniziare a parlare di sé in terza persona nelle interviste: «Jimmy Butler deve giocare meglio. Jimmy Butler deve fare tutto il possibile per aiutare la squadra». Seriamente: Jimmy Butler aveva iniziato a riferirsi a se stesso in terza persona quando parlava del suo gioco.
Quest’anno la situazione è andata ancora peggio, visto che i Bulls hanno prima detto di voler creare un core giovane e atletico da far crescere attorno a Butler, scaricando gli altri due pesi grossi dello spogliatoio Noah e Derrick Rose, per poi andare a prendere due ancora più ingombranti in Rajon Rondo e Dwyane Wade. La dirigenza, navigando a vista, è riuscita nell’impresa di alienare prima Butler (che di loro non si fida da tempo, al punto da avvertire i nuovi venuti di stare attenti alle spie della dirigenza nello spogliatoio) e poi anche Hoiberg, che si trova praticamente a dover schierare una squadra che non può applicare nessun concetto base del pace e space da lui cercato. Un primo impatto ottimo alla nuova stagione dei Bulls non ha fatto altro che rendere ancora più grande la deflagrazione invernale, quando le medie dall’arco si sono normalizzate verso il basso e le sconfitte sono iniziate ad arrivare in fila. Di pari passo sono arrivate le reazioni troppo veementi di Butler contro chi non viaggia al suo livello (Mirotic, Felicio, Carter-Williams), fino all’esplosione nello scorso gennaio che ha scosso l’intera franchigia e posto un serio dubbio sul futuro a lungo termine di Butler a Chicago.
Tutto parte quando all’ennesima sconfitta Butler e Wade accusano i compagni attraverso i media di non avere poi tutta questa voglia di vincere, cosa che porta gli altri giocatori a prendersela con Wade e far uscire la voce che è lui a non allenarsi seriamente (visto che su Butler possono solo abbozzare). Il più sveglio di tutti, Rajon Rondo, accusa indirettamente i due di non essere veri leader perché “i leader non usano i media per mandare un messaggio ai compagni” (mentre lui lo fa con un post su Instagram). Chicago è passata da Squadra Dai Risultati Alterni a Squadra Alla Deriva, priva di una leadership concreta con giocatori che remano verso direzioni diverse e un allenatore che non è in grado di dare un’identità tattica precisa. Per di più, si ritrova con la stella che non lo segue più.
Finale di partita contro Atlanta: Hoiberg chiede a Butler di chiamare timeout nel caso in cui gli avversari dovessero sbagliare il tiro libero. Butler non è d’accordo e lo fa capire in modo netto a tutti.
Butler non è riuscito a prendersi la guida mentale della squadra. E, con i Bulls aggrappati al 50% di vittorie, verrebbe facile distrarsi su quello che Butler riesce a fare in campo. Perché lì Butler sposta ancora come pochissimi.
La difesa di élite
La prima cosa che salta all’occhio è che, anche in una situazione come quella attuale, le motivazioni e l’attitudine in difesa non ne hanno fatto le spese in maniera troppo evidente. Solitamente quelle due sono le prime cose che che calano quando una stella si trova in un contesto come quello dei Bulls attuali; invece, nonostante tutto, Butler continua a ritenere dovere del leader dare l’esempio con il massimo impegno difensivo, che unito alla predisposizione naturale data dal fisico ne fanno un difensore élite. Nonostante l’impatto di un ottimo difensore perimetrale sia inferiore rispetto a quello di un protettore del ferro élite, il fatto che la stella pieghi le ginocchia senza problemi finisce per “forzare” gli altri ad un impegno difensivo superiore alla media. Come a dire: visto che non è in grado di spronarli con le parole, rimane pur sempre capace di farlo con l’esempio.
L’impegno di Butler non si nota tanto nella rubata su LeBron James in contropiede, ma nel continuare la corsa accelerando per assicurarsi che il pallone non esca e far guadagnare il possesso alla squadra
I Chicago Bulls senza un protettore del ferro e senza grandi difensori naturali, tolto appunto Butler, sono comunque una difesa sopra la media (dodicesimi con 105.5 di rating difensivo). Non bisogna mai dimenticare che Butler, insieme a Kawhi Leonard e Paul George, fa parte di quella triade di giocatori in grado di essere di gran lunga sia il miglior difensore della squadra che la prima opzione offensiva. Certo, rispetto a due anni fa è meno reattivo su ogni pallone e si concede qualche passaggio sui blocchi di troppo, ma rimane un giocatore massiccio per il ruolo e abbastanza atletico per tenere botta contro anche giocatori più grossi, potendo quindi cambiare su tutti gli esterni in campo e facendone uno dei migliori difensori sul portatore di palla, o più in generale sulla stella della squadra se si tratta di un esterno. Ha imparato che giocare per rubare la palla è deleterio e che è meglio rimanere a contatto e portare una mano sempre sulla traiettoria del tiratore, rendendo quindi per lui più difficile la visuale del canestro. In generale, la sua difesa tiene l’uomo al 43.1% dal campo, 2.7 punti percentuali in meno della media, e entrando più nello specifico riesce a tenere il marcato al 29.7% da tre punti, sei punti percentuali in meno della media. In una lega che tanto ha bisogno del tiro da tre punti, Butler porta l’avversario a tirare molto peggio da fuori l’arco.
Butler che difende con il fisico su Paul George, impedendogli prima di entrare in area e poi del tutto la ricezione
Le rubate arrivano con sicurezza sulle linee di passaggio (ha una percentuale di recuperi del 2.6%, 1.9 a partita, quasi il 30% di quelle di tutta la squadra), ma il grosso del lavoro, quello che lo rende un difensore tanto speciale, è appunto tutto nelle intangibiles e nella sua ottima interpretazione delle regole sul contatto. Butler è un difensore duro, in grado di mantenersi lucido nei momenti chiave della partita nonostante i tanti minuti in campo e che non risente dell’apporto offensivo per galvanizzarsi in difesa. Anzi, sembra quasi il contrario: Butler nonostante l’enorme volume offensivo si trova a suo agio in difesa e da lì riesce a trovare nuovi stimoli offensivi. Rispetto a Leonard e George però Butler è un giocatore che sfugge al filone Analitico vs Istintivo: è un giocatore realmente unico perché nel suo rapporto con la pallacanestro sembra quasi più vicino al basket dei playground che a quello della NBA. Nonostante quattro anni di college e cinque anni di professionismo, continua a pensare all’avversario come un nemico da sconfiggere, ingaggiandone una sfida personale ogni volta. Sembra ripetersi in testa continuamente il mantra: “What you can do, I can do better”.
Back from the ‘90s
Parlo di giocatore di playground, ma potrei dire che con questa mentalità Butler sembra realmente un giocatore degli anni ’90 catapultato per caso in questa NBA. Anche in attacco per lui è tutta una sfida personale contro il marcatore, dove sfrutta la sua struttura massiccia per cercare sempre il contatto quando nei pressi del canestro, provando se possibile a reggerlo fisicamente per chiudere il gioco da tre punti o prendersi semplicemente il fallo. Come per James Harden o DeMar DeRozan, i passaggi in lunetta sono un apporto fondamentale all’attacco di Butler (9 tiri liberi tentati su 36 minuti), un toccasana per le sue percentuali reali (58% quest’anno) visto che ovviamente i liberi sono i tiri più efficienti che esistano. Avendo una percentuale effettiva dal campo inferiore al 50% (48%), è fondamentale per lui contare sul suo 87% ai liberi.
Togliendo il suo rapporto con la lunetta come idea di efficienza nell’attacco, però, ecco che appunto escono fuori le caratteristiche da giocatore di vent’anni fa, come testimoniato dal fatto che anche in questa stagione continua ad insistere con il tiro tra i 5 metri e la linea da tre, pur tirando sotto il 40% da lì (36%). Quasi un quarto dei suoi tiri vengono da quella zona di campo (per la precisione al momento il 24%), e se uniamo quelli tra i 3 e i 5 metri parliamo del 40% del suo attacco. Butler quindi è un giocatore che utilizza tantissimo il tiro dalla media, pur tirando con il 41% complessivo in quell’ampia zona che la difesa è disposta a concedere. La sensazione che mi sono fatto è che lui, dovendo ricalibrare il suo gioco da 3&D a realizzatore con a disposizione almeno una quindicina di conclusioni a partita, ha accentuato la sua mentalità da giocatore vecchio stampo. Come a dire: questi sono i tiri che si prendevano Jordan e Kobe, perciò devo farlo anche io.
Nel suo mondo ideale, Butler ha la palla con un lungo sempre al suo fianco per fargli un blocco che lo porti a segnare dalla media con un palleggio arresto e tiro, oppure a scaricare per un compagno libero dalla marcatura scalata su di lui.
Visto però il suo tipo di gioco, forse non è neanche il caso di criticare il suo essere poco efficiente: se i Bulls vogliono mantenere Butler come punto focale dell’attacco (cosa che il 27% di Usage dimostra vera), allora è anche logico che devono accettarne lo stile “vecchio”. Anzi, devo ammettere di essere combattuto tra la necessità di sottolinearne l’inefficienza e quello di rimanere comunque affascinato da come un giocatore del genere possa avere tanto successo nella NBA contemporanea.
Hello 1997!
Nella scorsa estate addirittura aveva parlato del suo ruolo in campo come quello di una point guard: «Prima di tutto penso di essere una point guard, quindi mi sono allenato tantissimo nel lavorare con i blocchi, nel palleggio, nel mantenerlo attaccando il canestro, tutte quelle cose che fanno le point guard… Ho detto a Fred Hoiberg: se tu mi chiedi in quale posizione gioco, io ti dico point guard». E l’allenatore l’ha accontentato facendo partire da lui l’attacco, con l’effetto collaterale di portare i Bulls verso l’hero ball da lui teoricamente osteggiata (Butler segna il 30% dei punti dei Bulls).
I Bulls di Butler giocano quindi questa pallacanestro in modalità hero ball, ma non hanno poi neanche le spaziature per esaltarla: sono la squadra che prova meno triple per gara con 20.7 (e con nessun tiratore che arriva al 40%) e l’altra stella della squadra, Wade, ha uno stile di gioco che cozza con quello di Butler. Il numero 21 adora avere la palla in mano e partire con essa praticamente a ogni azione, una caratteristica che ha ovviamente in comune il compagno Wade. Questa sovrapposizione porta il gioco dei Bulls a essere bicefalo: tra i due si prendono il 56% dei possessi, il che significa che più della metà degli attacchi passano per le loro mani. Si spartiscono le azioni in partita e lasciano ai compagni che hanno bisogno della palla per giocare (Rondo e Carter-Williams) le briciole.
Qui Butler ha la palla, perciò decide lui - anche se così facendo non porta i Bulls a giocare un attacco efficiente. Qui sceglie di ignorare Carter-Williams che si era liberato e perde tempo per spingere tutto l’attacco su un inutile lob su Wade che si è ammazzato per prendere posizione sotto canestro.
Qui Wade ha la palla, perciò decide lui. Butler si libera fuori ma viene ignorato, e l’azione si conclude con un tiro difficile del numero 3 sul secondo ferro.
Futuro
Jimmy Butler è uno dei pochi giocatori in grado di spostare sui due lati del campo, e sembra incredibile come a pochi anni dalla firma del mega rinnovo sia stata paventata la possibilità di uno scambio. La dirigenza ha sicuramente sbagliato la costruzione della squadra attorno alla sua stella e la scelta dell’allenatore per guidarla, ed è quindi chiaro che ora si trova davanti al problema di dover decidere se lasciare che la situazione si aggiusti da sola (con la squadra fuori al primo turno dei playoff come appare inevitabile) o se intervenire. Nel secondo caso, uno tra Hoiberg e Butler è chiaramente di troppo.
Nonostante gli enormi miglioramenti mostrati, sembra veramente troppo tardi per immaginarsi un futuro di Butler come giocatore efficiente. Anche per colpe non sue, ha mancato l’ultimo step della sua incredibile crescita verso i migliori della lega. Forse proprio cambiare contesto potrebbe portarlo a uno smussamento nella sua natura da giocatore vecchio stampo, forse un’altra squadra riuscirebbe a sfruttarne meglio gli aspetti positivi senza caricarlo di tali responsabilità da far emergere anche quelle negative. La cosa di cui sono certo è che, anche così, Butler sarebbe in grado di cambiare i rapporti di forza per chiunque riuscisse a convincere Chicago a cederlo in estate, dopo non esserci riusciti nella ultima deadline.
Il film su com’è passato dall’essere un senzatetto a una stella della NBA sarebbe finito da tempo, ma forse nel caso di uno scambio ci sarebbe abbastanza materiale per passare dai bonus dei DVD a un vero e proprio sequel.