Nell'ultimo derby è andato in campo a un quarto d'ora dalla fine, lucido nonostante il Ferraris intorno fosse sovreccitato da una partita tiratissima. Dall'inizio della stagione Angelo Palombo non aveva ancora giocato. È stato un momento dove le note commosse (per vederlo ancora lì, in una partita con quel peso, esteticamente ancora identico) si mischiavano a un perturbamento per il tempo immobile.
Il suo arrivo alla Sampdoria era stato frettoloso, caotico, non lasciava certo presagire quanto a lungo sarebbe rimasto. Era svincolato e mise la firma sul contratto in un bar dell'aeroporto di Malpensa.
Palombo avrebbe trovato una nuova terra, un luogo accogliente, un ventre dove formarsi e nutrirsi. Non a caso ricorderà con un'immagine materna il breve passaggio all'Inter: «Ho dovuto staccare il cordone ombelicale da Genova». Non a caso ha sempre costruito, almeno nella rappresentazione pubblica, dei legami quasi parentali con le figure della società. L'affetto filiale con certi tecnici e col presidente Garrone. Forse anche la tenacia con cui ha difeso Cassano dalla critiche riproduce una dinamica familiare, quella tra fratelli. O forse quello è l'atteggiamento normale di un capitano. Perché Palombo della Samp è stato capitano, ha giocato 452 partite. E dimenticando quei mesi all'Inter, indossa la maglia doriana da quasi quindici anni consecutivi. In Ciociaria lo prendono in giro che ormai ha perso l'accento e parla genovese. «Per me la Sampdoria rappresenta la mia vita. La mia vita... tutta la mia vita» ripete in un video, impacciato per dover esplicitare qualcosa di ormai interiorizzato e ovvio.
Lo scambio col suo allenatore Mihajlović, la ricerca del contatto, e il ritorno alla serietà nell'intervista.
Sradicamento
È nato di 25 settembre, come William Faulkner e Karl-Heinz Rummenigge. È nato nel 1981 a Ferentino, provincia di Frosinone, ventimila abitanti. Dove, se pure il centro storico è chiuso da mura ciclopiche, probabilmente sono più indicative le tante porte che si aprono all'esterno, in un dialogo col territorio circostante. Angelo Palombo non perde occasione di dichiararsi orgoglioso di essere ciociaro e tutto quel territorio lo chiama “casa mia”.
In Ciociaria ha iniziato a giocare a sei anni, da lì se n'è andato a quindici per girare le Marche (Fano, Pesaro, Urbania) tra Dilettanti e C2, prima di arrivare a Firenze, diciottenne, dove le cose diventano serie. Quello sradicamento, a fare psicologia elementare, segnerà la sua carriera e lui stesso.
In viola passa tre stagioni. Il settore primavera, qualche presenza con la prima squadra. È una buona palestra. Esordisce in serie A, nel febbraio 2002, pochi mesi prima del fallimento societario. Un colpo di scena per lui che era sotto contratto fino al 2007. Nell'estate che segue, perciò, si ritrova svincolato e torna in Ciociaria per allenarsi e farsi trovare pronto.
Il periodo tempestoso a Firenze non condizionerà il suo ricordo, se a ridosso di Sampdoria-Fiorentina nel 2014 ancora prometteva di non esultare in caso di gol. Lui di gol ne ha segnati pochi, appena 15 in 453 partite con la Samp. Nel 2006, per una stramba coincidenza, il primo in serie A l'aveva segnato alla Fiorentina. Una rovesciata. «Non era certo il caso di montarmi la testa, non l'ho mai fatto in vita mia» dirà più avanti.
Foto di famiglia.
«Se ce la fa Angelo, che è più piccolo, perché non potete farcela anche voi?» ripeteva Massimo Cipriani, il tecnico che a Frosinone lanciò Palombo sottoetà nei Juniores nazionali.
Nonostante sembra la parola che l'accompagna nel mondo del calcio. Sempre una penalizzazione addosso, una zavorra. Il più piccolo, prima, il meno tecnico poi: nonostante questo, ha fatto una carriera in serie A.
In un'intervista-quiz molto scherzosa, pare rispondere seriamente quando alla domanda: «Palombo è arrivato in Nazionale: cosa significa?», dice: «Che possono arrivarci tutti».
In Nazionale ci è arrivato e ci è rimasto non poco. 22 presenze tra 2006 e 2011, un posto al Mondiale sudafricano benché in panchina. Con l’U-21 aveva anche vinto gli Europei 2004, ma questo sembra avere un peso relativo nella sua memoria: in un'intervista successiva dice addirittura che non ha mai vinto trofei. Come se il blucerchiato surclassasse la maglia azzurra. Come se la Coppa Italia 2009 persa in finale con la Lazio valesse più di un oro internazionale.
Appena arrivato alla Samp, Palombo si ritrova titolare: Novellino lo vuole accanto a Sergio Volpi. Il giovane e l'esperto, il mediano che non molla e il regista che disegna, insieme sono perfetti. Ha capito che è un centrocampista di rottura e per esaltarsi ha bisogno di un giocatore accanto con caratteristiche complementari: un costruttore dai piedi raffinati a cui fare da guardia del corpo, un fisico leggero da proteggere. Per una beffa del caso, Palombo diventerà capitano doriano proprio a discapito di Volpi. Ma nel frattempo guidano i blucerchiati alla promozione e incantano. Sul ventunenne Palombo girano lusinghiere voci di mercato, lui si scansa: «La mia A è la Samp».
Pazzo, compassato, leader
Il suo carattere non coincide del tutto con quanto ci si aspetta tradizionalmente da un mediano. L'umiltà e la fame, certo, gliele riconosce chiunque e dall'inizio. Ma non è una persona focosa, che s'accende e morde. Si rimprovera, anzi, di abbattersi quando invece dovrebbe “reagire di più”.
Nelle interviste in effetti è quasi sempre compassato, cauto, si sorveglia molto. Appena ha la possibilità di lasciarsi andare, dice cose che non ci si aspetterebbe. Che la sua caratteristica principale è la pazzia. Oppure: «Uno come Mussolini lo ammiravo molto», dopo aver risposto che a capo della marcia su Roma c'era l'imperatore Carlo V.
Ai tempi di Firenze, aveva esordito in prima squadra da fantasista. Incredibile, col senno di poi, perché nel senso condiviso Palombo è la praticità e l'applicazione, il rovescio della fantasia e dell'estro. Ed è consapevole e risolto, lui, su questo piano. Sostiene generosamente, a partire dall'esempio di Morfeo, che nessun gruppo provi invidia per il talento fuori dagli schemi che spacca le partite. Lui, che non è mai stato un giocatore sopra le righe, arriva a difendere le figure estreme, le considera capri espiatori: «Se faccio un gavettone, ridiamo. Se lo fa Balotelli, è una testa di cazzo».
Alla fine del 2010/11 va a scusarsi in lacrime sotto la gradinata doriana. È un gesto che segna, nell'immaginario, la stagione nera della retrocessione. Un gesto che scuote la fantasia degli avversari genoani, quando compongono "In serie A tu non ci sei più". Palombo che si arrende allo sconforto è un simbolo di mortificazione (anche etimologicamente pare il termine appropriato). «L’ho vissuta come un fallimento personale» spiegherà. La Sampdoria è morta, i genoani celebrano il suo funerale e cantano: «Piange Palombo sotto la curva / io me la rido e non smetto più».
Doveva essere tutta un'altra stagione, quella. Si veniva dal punto più alto raggiunto dal club, da quando Palombo è in blucerchiato: il quarto posto del 2010, Pazzini, Cassano e l'approdo ai playoff di Champions League. Da agosto in avanti, invece, ci sarebbero stati la crudeltà dell'eliminazione col Werder Brema, Cavasin, i gol di Chevanton e Boselli. Una lenta, inesorabile discesa.
Palombo aveva dato battaglia, si era posto alla guida della riscossa. Aveva messo la faccia (insieme ad Andrea Poli, che avrebbe dovuto rappresentare il futuro) nel video-appello per chiedere ai tifosi il sostegno nelle ultime, decisive gare della stagione. Le immagini lo mostrano sotto una doccia purificatrice e mentre indossa la maglia pulita, e la sua stessa voce off dice frasi tipo: «Il fondo è vicino». La riscossa però è fallita. Ed è un momento dal quale Palombo sembra non poter tornare indietro.
15 maggio 2011, ultima del campionato di A. La Sampdoria è appena retrocessa. Palombo avanza da solo verso la gradinata Sud. Preme la faccia alle mani giunte in preghiera. Sta un po' chino e sembra tremare. Poi smette di camminare e si inchina, appoggia le mani alle ginocchia. Scoppia a piangere, si batte la mano sul cuore, torna indietro singhiozzando.
Bandiera a tutti i costi
Con la retrocessione, la bandiera di Palombo viene issata su definitivamente, è una cesura. Impossibile andarsene da Genova, a quel punto, impossibile abbandonare la nave. La sua carriera si cristallizza, lui stesso diventa una specie di statua. Dichiara che chiuderà la carriera con la maglia blucerchiata. Deve ancora compiere trent'anni.
Questo è successo nel profondo degli eventi. In superficie c'è il passaggio all'Inter nell'inverno 2012, in prestito oneroso con diritto di riscatto. Un atto innaturale, lui arriverà a dire che fu una scelta obbligata («Mi hanno fatto accomodare alla porta…»).
Negli otto mesi trascorsi fra le lacrime per la retrocessione e il trasferimento in nerazzurro, c'era stata mezza stagione di B. L'altra mezza si sarebbe conclusa con i play-off e la promozione, ma Palombo non sarebbe stato lì.
Si ritrova all'Inter, dunque, “come un pesce fuor d'acqua” dirà. Lui che da bambino tifava Milan e aveva Van Basten come idolo e Albertini come modello, lui che al Milan era stato accostato in precedenza. Lui che ha la testa a Genova, soprattutto. Non poteva funzionare. Saranno infatti pochi mesi, 3 partite, una sola per intero. D'altronde, la Sampdoria aveva sospeso l'assegnazione della sua maglia, la numero 17, in un comunicato dal titolo: «Esistono storie che appaiono favole». Il percorso di Angelo Palombo era già segnato.
Torna in blucerchiato, l'estate seguente, come un marinaio dopo una licenza ma qualcosa è cambiato. Il rientro a Genova ha bisogno di un assestamento, tra l'estate e il Natale 2012 ci sono mesi complicati, Palombo sembra di troppo. La società dice che le strade devono dividersi. L'allenatore Ciro Ferrara lo mette fuori rosa, gli viene impedito di allenarsi coi compagni. Lui rifiuta tutti i trasferimenti, anche in Russia e in Cina. Vuole restare. Gli propongono la rescissione del contratto con una buonuscita. Rifiuta ancora. Alla fine dà un segnale forte: si spalma il contratto. Viene reintegrato e si riprende spazio in campo, ma sul rapporto con la piazza rimane qualche macchia di risentimento.
Quando parla delle sue abitudini, dice che si sveglia alle otto e mezza, nella media «rispetto alla gente normale». In un'altra occasione teorizza: «Noi calciatori sappiamo di essere dei privilegiati, ma questo non può diventare una colpa». L'autoassoluzione sembra gratuita, e quindi schermo per nascondere qualcosa.
Lo sguardo che ha sul mondo del calcio, in effetti, sembra ostaggio di un'ambivalenza. Nelle sue interviste, di continuo e fin dalla prima stagione alla Sampdoria, ricorre il tema dell'ipocrisia che secondo lui rende tossico l'ambiente. E di continuo Palombo sta in guardia, vede pericoli, distingue due sole possibilità: «Nel calcio, o maturi presto o scoppi presto». Al tempo stesso nel calcio vuole restarci. Da allenatore o da dirigente che sia, comunque al servizio della Sampdoria. Nelle ultime settimane si è parlato di un ruolo da team manager.
Lo scambio col giovane centrocampista David Ivan, nella scorsa stagione, è l'esatta riproduzione di quello tra Mihajlović e Palombo stesso.
Con l'esonero di Ferrara e l'arrivo di Delio Rossi, per Palombo inizia una nuova fase, che poi è l'ultimo segmento della sua carriera. Diventa difensore centrale: un'opzione sensata, visti il senso tattico, la fisicità e l'esperienza. Nonostante una struttura fisica poco dominante. Da allora sono trascorse alcune stagioni, in cui la Samp ha trovato piazzamenti anonimi e Palombo ha alternato i ruoli di centrale difensivo e mediano di centrocampo.
Lui sostiene che il centrocampista spenda più fatica fisica, ma che fare il difensore sia più impegnativo a livello mentale. E dice di divertirsi anche: non gli pesa arretrare, sa che può allungargli la carriera. Appena qualche settimana fa spiegava: «Il mister mi tiene in considerazione come difensore e io mi sento all'altezza, altrimenti avrei già smesso».
A maggio ha scherzato che anche la poca considerazione durante l'ultima stagione gli ha allungato la carriera. Il 2015/16 è stato un disastro, per lui oltre che per la Samp: 8 presenze, 438 minuti, visto poco da Zenga prima e da Montella poi. Per una coincidenza intrigante, nell'arco di dieci giorni lui veniva operato per calcoli renali e la squadra veniva affondata in casa dal Vojvodina, di fatto salutando l'Europa League.
Si può pensare che questa sarà l'ultima stagione in campo. Dopo il quarto d'ora nell'ultimo derby, non ha più giocato un minuto. Di sicuro Angelo Palombo non smette di vivere il calcio come un innamorato, con la passione e l'incapacità di rassegnarsi alla fine di una storia. L'ha riconosciuto lui stesso, qualche mese fa: «Sento ancora le farfalle nello stomaco».