1.
Il fratello più grande stava filmando un film dell’orrore amatoriale con gli amici, la mattina frullava rape rosse e salsa al pomodoro cercando la perfetta tonalità di sangue. Si vestiva di nero e una notte tornando a casa ubriaco ha preso a calci delle auto nella via di casa, la polizia è entrata di notte in camera e per errore ha afferrato il mio di braccio, che dormivo sotto di lui nel letto a castello, prima che la madre correggesse l’agente.
Il fratello di mezzo era un atleta nato, nella classica tradizione inglese: alto e slanciato, con le spalle larghe, competitivo al punto che litigavamo anche giocando a squash con il palmo della mano contro il muro dietro casa. Aveva un anno o due in meno di me ma non si vedeva, faceva colazione con una tazza a forma di Steve McManaman e, anche se non sembrava per niente il tipo che ascoltava i Prodigy, vicino al suo letto aveva appeso un poster di The Fat Of The Land.
Il fratello più piccolo non si capiva ancora che tipo sarebbe diventato, aveva appena iniziato ad andare a scuola. Il padre faceva due lavori e non era quasi mai a casa, la sera ovviamente beveva ma senza esagerare. La madre anche lavorava tutto il giorno, ogni mattina ci faceva trovare la colazione pronta, fagioli, pane tostato con la margarina, e un panino per pranzo in un sacchetto di carta. C’era anche una bambina che non vedevo mai, sui tre o quattro anni, forse la stava crescendo qualche parente e la riportava a casa la sera.
In casa c’era anche una ragazza spagnola, in vacanza-studio come me, di cui ero innamorato ma con cui avrò scambiato quattro parole in tutto, le rare volte che ci siamo incrociati per le scale strette foderate di moquette. Ricordo ancora come si chiama, ma è un dettaglio forse più inutile degli altri.
Ci sono state solo due occasioni in cui siamo stati tutti insieme, la famiglia al completo, la ragazza spagnola e me: il rinfresco di un matrimonio a cui erano stati così cortese da invitarci, organizzato in una palestra; e una partita di calcio Inghilterra-Italia giocata su un prato vicino casa. L’Inghilterra erano i due fratelli maggiori più il padre; l’Italia era rappresentata da me e due amici che abitavano non lontano.
Ricordo Southport, una cittadina di mare a nord di Liverpool ma non lontana da Manchester, quasi esclusivamente per quello che ci ho fatto quell’estate, non saprei descriverne i paesaggi senza infilarmici dentro. E a Southport ho soprattutto giocato a calcio. Ci siamo passati la palla persino su quell’infinita palude sabbiosa che, in qualche punto in lontananza, diventava il Mare d’Irlanda.
Ricordo il distributore di benzina dove compravo una Coca e un Mars, sulla strada che portava alla scuola, mezz’ora di cammino a piedi memorizzato la prima mattina insieme alla madre di famiglia. Ricordo la via dove abitavo, di casette bianche tutte più o meno uguali con giardini di cinque metri quadri, alcuni curati, altri occupati da automobili mezze abbandonate. Ricordo i locali, tra cui quello dove un buttafuori mi ha dato un pugno per un’incomprensione. I minorenni non potevano entrare, ma noi entravamo tutte le sere e io ero uscito giusto un secondo a prendere un po’ d’aria con delle amiche: stavo insistendo per recuperare la mia giacca, che avevo lasciato dentro, ma lui in qualche modo aveva capito che gli avevo detto di andare a farsi fottere - fortunatamente avevo già bevuto abbastanza da rendermi conto appena di aver preso un gancio destro sulla tempia. La giacca me l’hanno recuperata le amiche e siamo andati via. Nei miei ricordi comunque la gente a Southport si mena per strada ogni week-end.
Perché i nostri genitori ci hanno mandato a studiare l’inglese a Southport, nel Merseyside, invece che a Londra o al limite a Dublino?
Di Southport ricordo soprattutto il campetto di cemento nel cortile della scuola, con le porte dipinte sui muri non esattamente paralleli. In classe avevo un gruppo di spagnoli di Murcia che venivano a lezione già vestiti da calcio, dormivano con la testa sul banco e si svegliavano a mezzogiorno pronti per la partita di pranzo. Loro non hanno imparato una parola di inglese, io alcuni rudimenti di spagnolo. Quando ci siamo salutati alla fine della vacanza ci siamo detti: «Mi casa es tu casa».
Quell’estate 1998 avevo diciassette anni ed ero in forma come non ero mai stato prima e come non sarei stato più in vita mia. In Italia ero un semplice marcatore, un numero 5, al limite se mi facevano un complimento mi dicevano che ero attento e avevo un buon tempismo in anticipo, niente di più. Avrei pagato perché qualcuno dei miei allenatori passati mi avesse visto giocare in quel campetto in Inghilterra. Per la prima volta in vita mia ero un giocatore decisivo, e non perché mancasse competizione, gli spagnoli vivevano letteralmente per il calcio e quelli tra i miei amici meno in gamba faticavano in quelle stesse partite in cui a me riusciva tutto.
Giocavo con le Air Max di camoscio rovinato perché le mettevo anche con la pioggia e ricordo come fosse ieri una punizione da una ventina di metri di distanza che ho calciato pensando: “Adesso la metto a giro sotto l’incrocio lontano”. E così è stato. Come pochissime altre volte in vita mia mi sarebbe capitato, ho provato la sensazione piacevole che deriva dall’immaginare qualcosa e realizzarlo esattamente come lo avevo pensato. A Roma non mi facevano tirare le punizioni neanche in allenamento.
Ad ogni modo, prima che la vacanza finisse, una domenica di sole, abbiamo improvvisato una partita tra la “mia” famiglia e i “miei” amici. Tre contro tre. I miei compagni di squadra abitavano nella casa davanti a quella dove abitavo io, ma avevano una famiglia totalmente diversa: senza figli, con due cani bianchi (non ricordo se erano semplici volpini, dei derivati di qualche cane da pastore o dei ben più rari samoiedi bianchi), li accompagnavano a scuola in macchina e invece di preparargli il pranzo gli allungavano delle sterline. Erano amici di amici, più che veri e propri amici miei, non erano tra gli italiani i più forti e credo di averli scelti in mancanza di meglio. Anche le nostre famiglie italiane erano diverse, sulla falsa riga di quelle inglesi, loro vivevano a Corso Trieste, da piccoli avevano studiato pianoforte e giocato a rugby; io ero figlio di una madre single che mi rinfacciava più o meno consapevolmente di non farmi mancare niente. Perché anche in quel caso ero finito io nella famiglia complicata?
Io ero vestito da calcio, dei miei compagni solo uno su due, l’altro era in jeans. Anche loro non dovevano avere grande voglia.
Dal punto di vista della mia famiglia l’incontro non era mica tanto improvvisato: oltre ai due fratelli maggiori e al padre, che giocavano, era venuta anche la madre con la sorella e il fratello più piccolo. Da casa avevano portato una trombetta con cui la madre ha esultato ad ogni loro gol, uno stereo su cui hanno messo in loop l’inno dell’Inghilterra e dei pompon giganti rispetto alla bambina che li indossava.
C’era anche la ragazza spagnola, che però a quel punto ero sicuro avesse una storia con il fratello maggiore (si spiegherebbe anche perché fosse lì).
La partita è durata un’eternità, o almeno questo è il mio ricordo. Ho giocato con una tensione immotivata, a pensarci oggi. Siamo andati tre volte sotto e tre volte abbiamo recuperato, non ricordo quanti gol abbia segnato io personalmente, forse tutti, forse nessuno. Il fratello più grande, che forse aveva già più di vent’anni, era piuttosto scarso e anche quello di mezzo alla fine non era niente di che. Il padre stava più o meno in porta, se non ricordo male era vestito come quando andava a lavorare, con una giacca da pioggia sopra a dei pantaloni grigi. Ce la mettevano tutta, sicuramente più dei miei compagni che mentre giocavano facevano battute in italiano sulla madre - su “mia” madre - che ballava a caso a bordocampo insieme alla sorellina e al fratellino - insieme al “mio” fratellino e alla “mia” sorellina.
A un certo punto hanno smesso di scherzare, erano troppo stanchi o magari avevano capito che l’unico modo per farla finita con quegli inglesi era batterli. Sul 3-3 uno di loro si è rotto il naso scontrandosi con uno dei fratelli. Ha iniziato a perdere sangue e la madre gli ha dato un asciugamano ma quando pensavo che avremmo dovuto interrompere il padre ha detto: «The show must go on».
Serviva un vincitore ma io non ci stavo a giocare con un handicap così grande, per questo abbiamo deciso di calciare tre rigori.
Abbiamo perso, quello con il naso rotto ha sbagliato il suo ed è corso a casa a mettere la faccia sotto al lavandino. L’Inghilterra li ha segnati tutti e tre. La “mia” famiglia ha esultato con We Are The Champions, che i bambini hanno cantato finché sono andati a letto.
Il giorno dopo sono andato a trovare il mio compagno di squadra col naso rotto prima di andare a scuola, rimaneva a casa insieme all’altro, i genitori li avrebbero giustificati entrambi. Tutti e due sotto le lenzuola ridevano della “mia” famiglia di esagitati, quello sano alzava il tappeto che separava i due letti per permettere a quello col naso rotto di sputare sul pavimento. Se tirava su col naso sputava ancora sangue.
Il Natale successivo, la mia famiglia inglese mi ha mandato gli auguri per posta, devo avere ancora il loro biglietto da qualche parte. Non sono sicuro di aver risposto. Chissà che fine hanno fatto, chissà se qualcuno di loro conserva ancora il ricordo di quell’Inghilterra-Italia 3-3 (6-5 d.c.r).
2.
L’ultimo anno di Juniores abbiamo vinto il campionato ma perso malamente le finali: io ho sbagliato un gol a porta vuota di testa e dopo la partita mi sono messo a piangere, per cui non è un bel ricordo. Però quell’anno - il primo di università - qualcuno di noi veniva già convocato per fare la panchina in Prima Categoria, un paio avevano giocato addirittura qualche partita titolari per dare fiato ai trenta-quarantenni che giocavano di solito. Anche io in quella stagione ho giocato i miei primi (pochi) minuti in una partita tra “uomini”.
Era l’inizio del 2000 e non c’era ancora l’obbligo di far giocare un certo numero di giovani per squadra, se venivi convocato per la partita della domenica, dopo aver giocato il sabato, dovevi comunque considerarti onorato. Non è importante il nome della squadra in cui giocavo, a Roma ce ne sono centinaia tutte uguali.
Fino a pochi anni prima non ero titolare neanche nella mia categoria. Ho fatto una stagione o due in panchina, con l’allenatore che mi prendeva in giro in allenamento perché non mi vedeva come niente di più che un marcatore che doveva seguire l’uomo fino anche in bagno.
Per quell’allenatore, che di giorno faceva le consegne e non si presentava quasi mai agli allenamenti serali, per difendere non era necessario né pensare né saper giocare a calcio. Non era questione di leggere i movimenti del proprio avversario diretto, di anticipare i passaggi o temporeggiare senza cadere nelle finte, per lui difendere significava spazzare la palla quando era a portata e tirare la maglia del nove senza farti vedere dall’arbitro.
Non per me. Per me difendere era l’arte sottile della frustrazione, la partita perfetta era non far toccare nemmeno una palla al mio avversario.
Non solo non mi piaceva picchiare ma ci tenevo a farmi amico l’attaccante, per questo cercavo di conversarci quando la palla era lontana, anche se molti di loro non mi rispondevano. Gli chiedevo come stavano in classifica, cosa avevano fatto con questa o quella squadra, tutte cose che già sapevo ma che potevano portare a uno scambio di opinioni. Commentavo negativamente i miei compagni di squadra e se qualcuno faceva qualcosa di buono dicevo che era culo, quando facevamo gol dicevo che non lo meritavamo. Entravo in scivolata e se prendevo la palla pulita chiedevo scusa lo stesso e mi assicuravo che non si fossero fatti male.
Anche perché spesso gli attaccanti avversari erano i più spaventosi della squadra. Quando li vedevamo scaldarsi cercavo di individuare subito il nove avversario e spesso era il più grosso di tutti, quello con l’aria più minacciosa, e toccava a me dato che l’altro marcatore era piccolo e rapido (di solito io prendevo il 9 e lui il 10, e dietro avevamo un libero puro).
In un certo senso volevo far credere all’attaccante che marcavo che giocavamo insieme. Non volevo si accorgessero di quanto internamente ero felice per ogni palla che prendevo io e che non prendevano loro. Mio padre in macchina al ritorno mi chiedeva se con l’attaccante avversario alla fine ci eravamo scambiati i numeri.
Quella stagione ero stato convocato con la prima squadra già qualche volta, ma non ero mai entrato. Per sostituire un difensore in Prima Categoria deve succedere qualcosa di eccezionale, un difensore in panchina serve quanto il secondo portiere.
Mio padre era scocciato di accompagnarmi in trasferta ma la domenica mattina in panchina per me è un bel ricordo. Forse inconsciamente pensavo ancora di poter diventare un calciatore.
Mi piacevano le comitive di macchine all’alba che giravano la provincia, in fila uno dietro l’altra sulla Cassia Bis e poi per strade sperdute in cerca del campo sportivo. Le facce assonnate e i campi di terra gelata d’inverno immersi nella nebbia, con la rugiada che bagna le porte degli spogliatoi e appanna i vetri. Mi piaceva riempire le borracce ed entrare in campo con un piumino tre volte la mia taglia. In alcuni campi verso la fine della partita arrivavano gli odori dei pranzi in preparazione dalle case circostanti, nelle giornate di sole di primavera il secondo portiere si spalmava la Nivea per abbronzarsi. C’era sempre una rissa a fine primo tempo e un’altra a fine partita, ma duravano giusto il tempo di rientrare negli spogliatoi e io le guardavo da lontano.
In panchina sedevo vicino all’allenatore - che lavorava in Rai o al Ministero della Salute o una roba del genere - e dentro di me facevo i calcoli su cosa doveva accadere affinché entrassi in campo. Se un nostro difensore giocava male speravo che il Mister si girasse verso di me e mi dicesse: «Scaldati». Invece un giorno, di punto in bianco in una partita fondamentale, senza che niente lo avesse anticipato, sono entrato in campo per la prima volta in una partita tra “uomini”.
Mancavano pochi minuti alla fine della partita ed eravamo sopra di un gol, soffrendo, l’allenatore aveva deciso di mettere un difensore in più e l’unico più esperto di me era un difensore di fascia.
Entrando in campo mi sono reso conto che non avevo ascoltato mentre mi diceva in che posizione giocare.
Quando ho giocato per la prima volta a 11 il campo mi sembrava sterminato ed era impossibile orientarmi. Tutto era lontano, la palla, gli avversari; io in ogni caso ero troppo piccolo per fare qualsiasi cosa. Non vedevo l’ora di uscire.
In modo non troppo diverso, il giorno del mio esordio in Prima Categoria sarei stato ben felice di non toccare neanche un pallone. Mi sarei accontentato di correre un po’ avanti e indietro senza parlare con nessuno degli avversari, portare a casa il risultato e farmi la doccia a fine partita insieme agli altri anche se non avevo sudato.
Sono entrato in campo su un angolo a sfavore, anche se è sconsigliato fare i cambi in quel momento. Evidentemente non mi ero accorto di quanto fosse disperata la situazione, ero entrato anche perché sono alto poco meno di un metro e novanta e stavamo difendendo a pochi metri dalla nostra porta.
Il centrale titolare mi stava indicando l’uomo da marcare ma prima che finisse la frase quelli stavano già battendo. Con la coda dell’occhio ho visto un avversario sfuggire alla marcatura di un altro mio compagno e avventarsi sul primo palo come uno di quegli uccelli che si infilano sotto la superficie dell’acqua e ne escono con un pesce in bocca. Ho corso verso la palla istintivamente, tagliandogli la traiettoria, ho allungato il collo e si sono arrivato per primo. Ho colpito con gli occhi chiusi.
La testa mi stava ancora rintronando per l’impatto con il pallone, qualcuno ha gridato: «Usciamo!» e siamo saliti tutti insieme per alzare il fuorigioco. Stavo cominciando ad essere fiero di me quando l’avversario che avevo anticipato mi ha dato una gomitata sulla bocca dello stomaco. «La prossima volta ci pensi due volte», ha detto superandomi. Negli spogliatoi il Mister si è complimentato con me e mi ha usato per umiliare la difesa titolare: «Ma vi pare che ci deve salvare un ragazzino?», eccetera eccetera.
L’anno successivo quello stesso allenatore non mi ha fatto mai giocare. A un certo punto era così a corto di difensori che ha fatto rimettere gli scarpini a un ultraquarantenne che nel frattempo era diventato dirigente. Pur di non far giocare me.
Sono entrato a dieci minuti dalla fine di una partita in marcatura su un centravanti veterano con la fascia al braccio, era la Pescatori Ostia, o forse l’Ostia Mare, dal pubblico qualcuno mi ha gridato: «Ragazzi’ non lo toccare che quello ti attacca l’aids». I miei compagni di squadra era gente sposata che parlava di come tradire la propria moglie senza farsi beccare. Uno raccontava le orge che frequentava, con descrizioni minuziose, un altro mi chiedeva, prima di tirare una punizione in allenamento, di pensare che sarebbe entrata sotto l’incrocio perché se lo avesse pensato tutta la squadra la palla avrebbe obbedito.
Qualcuno prendeva soldi per giocare e qualcun altro era geloso.
Dopo qualche mese ho smesso di giocare, ho lasciato l’università senza dare neanche un esame e sono ingrassato di una decina di chili. Poi mi sono ripreso, sono tornato a giocare e ho accumulato qualche presenza tra Prima Categoria e Promozione. Ho smesso definitivamente prima dei trent’anni.
3.
In un vecchio tema di prima media che ho ritrovato recentemente dovevo scrivere una letterina a un compagno delle elementari. Ho scritto a Guido e dopo un paragrafo introduttivo - «Ti chiederai perché ti sto scrivendo visto che ci siamo sentiti al telefono ieri, la risposta è che questo è un tema in classe» - gli ho chiesto se ricordava le partite che giocavamo in cortile.
Perché io le ricordavo tutte, scrivevo con la mia calligrafia tonda che prendeva tutto lo spazio tra le righe.
Ho chiesto a mia madre di iscrivermi a scuola calcio quando avevo cinque anni e quando ne avevo undici la mia vita ruotava in gran parte intorno agli allenamenti e alle partite. Mio padre aveva fatto amicizia con il padre di un mio compagno di squadra, avevano anche lavorato insieme in qualche modo, e lo frequentavamo anche d’estate e nei fine settimana liberi da partite. I miei compagni di classe erano percepiti solo in base al loro valore in campo, non esistevano ancora le chiacchiere sulle ragazze o i pomeriggi in bici al Villa Borghese, ai miei occhi eravamo tutti dei calciatori in erba, alcuni più dotati, altri meno.
Con mio cugino, più grande di qualche anno, giocavo a calcio nel corridoio di casa, nel portone del palazzo, nei parchi. Mio cugino giocava in una buona squadra, sui campi in erba dell’Acqua Acetosa, era lui quello che in famiglia consideravano forte. Ogni tanto mio padre - scettico sul reale talento di mio cugino - mi portava a vederlo giocare.
Io non ero neanche il migliore della mia squadretta, in compenso ero quello che l’allenatore non sostituiva mai. Anche la mia società, come quasi tutte a Roma, era vicina ad alcuni club di A e B con cui regolarmente organizzava dei provini. Sognare non costa niente, come si dice. A undici anni dovevo ancora sviluppare, ero alto forse mezzo metro in meno rispetto a quanto ero alto a tredici ed ero esplosivo, forte sulle gambe. Mi vedessero adesso, alto e lento, gli allenatori che mi hanno visto allora, non mi riconoscerebbero. Giocavo davanti alla difesa, dribblavo usando la suola per girarmi e tornare indietro e lanciavo lungo per le punte. Avevo addirittura fatto un paio di allenamenti con la rappresentativa regionale.
Poi i miei genitori si sono separati.
Ho cominciato ad avere dei tic nervosi, anche mentre giocavo. Piegavo il collo di lato e strizzavo gli occhi immotivamente. Non potevo controllarli e mi rendevo conto che lo vedevano tutti ma non potevo far altro che far finta di niente. Sapevo che gli allenatori e i genitori al campo se ne accorgevano - i compagni forse no, a undici anni chi fa caso ai tic?
Mio padre mi ha portato al cinema a vedere Bagliori nel buio, un film su un rapimento alieno, in cui il protagonista subisce analisi molto invasive da parte dei medici alieni - un tubo troppo largo gli rompe gli angoli della bocca, un ago lungo quanto un dito gli penetra la pupilla - e da quel giorno ho cominciato ad avere paura degli alieni. A dodici anni uscivo dal letto e andavo a dormire ai piedi di quello di mia madre, che nel frattempo aveva portato in casa un altro uomo, che più avanti avrebbe sposato e con cui all’epoca non avevo praticamente rapporto. Dato che il mio letto invece era vicino a una finestra, alcune notti particolarmente agitate dormivo con un coltello sotto il cuscino per difendermi in caso di rapimento.
Una domenica mio padre e mia madre sono venuti entrambi al campo. Non erano ancora ai ferri corti, mia madre doveva ancora chiamare i Carabinieri per provare ad obbligarlo a pagare gli alimenti, mio padre doveva ancora sparire per un mese senza dare notizie per poi dire che era stato a Londra a pensare e scrivere.
Anche se erano già gli anni 90’ mia madre indossava una pelliccia gonfia e gigante, a bordocampo stava vicina a mio padre, entrambi fumavano e parlavano con gli altri genitori. Parlavano di me? Gli chiedevano dei miei tic?
Mio padre è sempre stato più un ascoltatore che un parlatore, solo con la vecchiaia e la malattia è diventato logorroico (per coprire il silenzio, che gli creava ansia e lo faceva pensare alla morte), era stimato da tutti gli altri genitori e non mi aveva mai messo in imbarazzo - al contrario di certi padri che litigavano con gli allenatori o con gli arbitri, che bevevano birra e mangiavano noccioline e patatine in tribuna mentre giocavamo.
Mio padre stava in piedi vicino alla tribuna, fumando, vicino a quei padri che avevano lo stesso stile. Dopo, in macchina, dovevo cavargli di bocca un giudizio o quanto meno un’opinione sulla mia partita.
Ogni tanto pensavo che accompagnarmi alla partita era una scusa come un’altra per stare all’aria aperta e fumare. Ovviamente oggi riesco a immaginare che doveva essere una scusa come un’altra per stare con me.
Mia madre invece non veniva quasi mai. Quando ero ancora molto piccolo mi accompagnava o mi veniva a riprendere agli allenamenti, si metteva d’accordo con le madri dei compagni che vivevano in zona nostra, ma alle partite non veniva mai. Le partite le lasciava a mio padre, non mi chiedeva neanche se avevo vinto o perso quando rientravo a casa e svuotavo la borsa direttamente nella lavatrice. Il rapporto con mia madre stava nelle cose che faceva per me senza che io me ne rendessi conto e, più avanti, nel mio senso di colpa per i sacrifici che diceva di aver fatto in tutta la sua vita. Cosa era venuta a fare proprio quel giorno?
Perché insieme a mio padre, se già non abitavamo più tutti insieme, se non eravamo più una famiglia?
Non ricordo la squadra avversaria, ma che giocavamo su una metà del campo regolamentare, in orizzontale. Il terreno, cioè, era leggermente schiacciato, la metà campo era a pochi metri dall’area di rigore. Dietro la porta avversaria c’erano i miei genitori.
Non so se era quella la partita, ma sicuramente era quel periodo, in un’occasione l’allenatore mi aveva lavato e asciugato i capelli a fine primo tempo gridandomi che non potevo fare tutto da solo, perché prendevo palla e non la passavo più. Oggi collego anche quei tentativi autodistruttivi di dribblare tutta la squadra avversaria, di dimostrare che valevo qualcosa, alla separazione dei miei genitori.
Come il fatto che prima della partita mi facevo allacciare le scarpe da mio padre.
Quel giorno, con mia madre e mio padre dietro la porta, ho recuperato due palloni a metà campo praticamente identici. Due campanili alti spazzati dalla difesa. Ho stoppato alla perfezione nel primo caso, meno nel secondo. Ho portato palla indisturbato fino al limite dell’area la prima volta, ho dribblato un avversario che mi era venuto contro la seconda. Poi ho calciato forte, la prima volta un po’ centrale, ma tanto forte da piegare le mani al portiere, la seconda in diagonale da destra sul palo alla mia sinistra.
Mi era capitato di segnare ma non avevo mai fatto una doppietta in vita mia. Non ricordo di aver esultato, ma sicuramente mi sbaglio, non si è mai visto un bambino che non è felice dopo un gol. E come avranno reagito i miei genitori? Erano fieri di me?
Un paio di anni dopo ho cominciato a zoppicare e all’inizio tutti pensavano fosse solo un altro tic, una zoppia psicosomatica. L’opinione generale in famiglia era che lo facessi per cercare attenzione. Invece era una tendinite e mio padre mi portò persino dal medico che aveva operato, o comunque visitato, la caviglia di Marco van Basten. Io ero preoccupato e non capivo in che modo quel medico avrebbe dovuto rassicurarmi, dato che van Basten che aveva dovuto smettere di giocare giovanissimo proprio per quei problemi alla caviglia.
Sono stato fermo un anno - in cui ho scoperto le cose che facevano i miei coetanei il sabato pomeriggio - e dopo la tendinite ero diventato alto più un metro e ottanta. La palla ai miei piedi si era rimpicciolita e nella mia squadra, per quanto non fosse tra quelle famose a Roma per il settore giovanile, tipo il Tor di Quinto, non c’era più posto per me.
Mia madre non ha più visto neanche una mia partita, mio padre invece non ne ha saltata una, dato che ci vedevamo solo nei fine settimana. Nei cinque anni di liceo mio padre mi ha accompagnato a ogni partita che ho giocato, indipendentemente da quanto fosse presto e quanto fosse lontano il campo. Ero in macchina con lui quando, parecchi anni dopo, quella volta in cui ho pianto dopo la finale Juniores in cui ho fallito un’occasione di testa.
Una volta è venuto persino a una partita di calcetto. Mi sono sempre chiesto come giocasse mio padre, quando era più giovane e fumava di meno, lui raccontava di essere un’ala veloce ma non lo avevo mai visto calciare una palla. Mio nonno pensava di insegnarmi a calciare ad effetto nel giardino in discesa della casa al mare, con due cuscini portati dal salotto per fare i pali, colpendo la palla piano, di piatto: e mi basta questo ricordo per sapere che mio nonno era scarso. Ma di mio padre non sapevo niente, era un mistero anche da quel punto di vista. Prima che iniziasse quella partita di calcetto però è entrato in campo mentre ci stavamo scaldando e d’istinto, senza pensare che sarebbe stato un momento importante, gli ho passato la palla dicendogli di tirare. Ha colpito così male la palla che è finita oltre la rete di recinzione, siamo dovuti andare a cercarla per strada prima di iniziare a giocare.
Fino ai suoi ultimi giorni di vita, se mi voleva chiedere come stavano i miei amici, faceva i nomi di quelli con cui avevo giocato a calcio ai tempi del liceo.
4.
Mio cugino poi è finito a giocare nella Primavera della Lazio. Per una storia lunga che include mia cugina, sua sorella, fidanzata con il figlio dell’allora presidente. Ma per me non è mai stato un raccomandato, ancora oggi penso che avrebbe potuto giocare lo stesso nelle giovanili di una squadre come la Lazio o la Roma e che anzi avrebbe potuto avere una carriera decente in una buona categoria. Lo andavo a vedere ogni week-end che la Lazio ha giocato in casa, quando avevo diciassette o diciotto anni. Prendevo il motorino e mi facevo tutta la Salaria, mi mettevo in tribuna in mezzo a gente con la sciarpa della Lazio e da romanista non esultavo mai, per nessun risultato. Tanto mio cugino non giocava mai.
In realtà dopo un po’ conoscevo talmente bene quella squadra - da cui l’unico uscito che ha fatto carriera è stato Maurizio Domizzi - che involontariamente tifavo per loro. Ovviamente, nei pochi minuti che ha giocato quell’anno ho tifato soprattutto mio cugino. Con una bella capriola logica ero riuscito a convincermi che non giocava perché il Mister lo considerava un raccomandato, ignorando le sue vere qualità. Ah, quanta ingiustizia subiscono anche i raccomandati...
Era ancora, come da bambino, un esterno destro veloce molto offensivo, più adatto al 4-3-3 che al 4-4-2 con cui si giocava quando eravamo piccoli io e lui. La sua Lazio non ricordo come giocasse. Ha segnato un solo gol quell’anno, che però io gli avevo visto segnare già altre decine di volte, il suo marchio di fabbrica, diciamo: un diagonale rasoterra da destra verso sinistra, che taglia tutta l’area e finisce alla base del palo lontano. Un diagonale imparabile, da attaccante vero. Un tipo di tiro che ancora oggi considero come la cartina di tornasole dei veri finalizzatori.
Ha segnato quel gol in una partita di Coppa Italia in cui il Mister aveva fatto turnover massiccio, poi è tornato in panchina e l’anno dopo è passato alla Lazio Calcio a 5. Lì non sono più andato a vederlo.
Mio cugino godeva di una piccola fama anche tra i miei amici, soprattutto grazie ai miei racconti. Ce n’era uno che veniva con me a vedere le partite della Primavera, ovviamente era laziale. Erano anni, quelli alla fine del liceo, di strane condivisioni affettive, ricordo che i momenti in cui siamo stati più vicini, io e quello che veniva a vedere mio cugino sulla Salaria, uno dei miei migliori amici in assoluto, sono stati: quando si è rotto i legamenti e andavo a trovarlo a casa sua, mangiavamo merendine sul suo letto mentre provava a piegare il ginocchio in un affare di metallo per vedere se stava migliorando; quando dopo una partita siamo rimasti da soli nello spogliatoio, perché eravamo sempre i più lenti, mi sono messo a cantare tra me e me Otherside dei Red Hot Chili Peppers (di cui sapevo a memoria il ritornello senza capire bene cosa significasse) e a un certo punto lui mi ha chiesto di cantare con la voce più alta (forse l’unica persona in vita mia a cui sia piaciuto come canto, a parte mia moglie); quando un nostro compagno di classe è andato in coma per un incidente d’auto e noi andavamo a trovarlo al Forlanini tutti i giorni anche se potevamo solo guardarlo da dietro un vetro: non so bene cosa cercassimo, su quale vuoto ci andassimo ad affacciare nel reparto di Rianimazione, finché un pomeriggio siamo stati i primi a vederlo nuovamente sveglio, dimagrito ed euforico per gli antidolorifici, ci ha raccontato di aver fatto un sogno in cui il nonno gli diceva che gli avrebbe prestato le sue ossa.
Otherside a quanto pare è una canzone che parla in modo criptico della dipendenza dall’eroina e della morte del primo chitarrista dei RHCP.
Eravamo compagni di classe che erano anche compagni di squadra. Quattro o cinque di noi, non tutta la squadra, in un liceo di Roma nord. Ci allenavamo, partecipavamo a un campionato regolare e, come prolungamento degli spazi sociali che frequentavamo abitualmente, facevamo anche un torneo di calcio a 8. Le persone erano le stesse, le dinamiche anche. Non c’erano ragazze.
Conoscevamo di fama i giocatori migliori, le squadre che menavano e quelle che potevano vincere. Se c’era una rissa il giorno dopo se ne facevano accurate ricostruzioni.
Lavoravo part-time in una libreria a viale Libia e un giorno è entrato uno di quei ragazzi più grandi di cui davo per scontato non sapessero chi ero - uno di buona famiglia, che già ai primi anni di università arrotondava affittando le case dei genitori e la sera prendeva tavoli e bottiglie al Supper o al Goa; frequentava i pochi personaggi davvero pericolosi di quelle zone, se li portava in discoteca e dietro al motorino, con una faccia soddisfattissima, e se ne era portati anche un paio in squadra. Contrariamente a quanto pensavo sapeva il mio nome, cioè il mio cognome, e si è fermato a raccontarmi che nell’ultima partita un loro compagno di squadra aveva preso una capocciata sul naso, forse accidentale, ma non cambiava niente, loro hanno inseguito il tizio che però è riuscito a scappare, finendo per strada fuori dal circolo e “nei campi” (ricordo ancora questo dettaglio perché il circolo in questione era su una strada un po’ defilata e in effetti davanti aveva dei prati, ma anche allora dubitavo del fatto che il tizio si sia davvero messo a correre nei prati come nei film).
In quella squadra giocava anche uno degli Irriducibili, un uomo già fatto che si portava al campo il figlio piccolo, già più coatto di lui, già più uomo di molti di noi (di me sicuramente), era la squadra più temuta, anche se perderci apposta non era un’opzione. In una partita hanno rotto il naso a un arbitro e proprio contro di noi il tipo degli Irriducibili si è rotto il crociato in un contrasto duro: l’ha presa sorprendentemente bene, con “onore”, magari pensava. Una delle squadre più forti di quel torneo invece era quella degli amici di mio cugino. Che però andava a giocare ogni tanto, solo nelle partite più importanti, anche se ormai anche con la Lazio Calcio a 5 non stava andando benissimo (e mia cugina si era lasciata con il figlio del presidente).
Il torneo era così pieno di squadre che giocavamo in due gironi, ma ci siamo incrociati negli ottavi di finale. Noi eravamo arrivati tra le prime otto in classifica, loro credo primo o secondi. Il loro capitano era un amico scarso di mio cugino a cui però tutti volevano bene, che giocava in difesa con grande applicazione e grazie anche a una passione per fitness e palestre tutto sommato aveva il suo posto in squadra. Io giocavo laterale nella difesa a 3 perché al centro c’era uno più alto e più grosso di me e per l’occasione mi sono messo sulla fascia di mio cugino.
Ricordo una partita tiratissima in cui siamo andati sotto dopo aver subito tutto il primo tempo, nel secondo abbiamo reagito ma siamo riusciti a pareggiare solo all’ultimo minuto su angolo. Una partita frenetica, forse aveva piovuto e il pallone schizzava, ne ho toccato pochissimi e mio cugino pure.
Mio cugino è la cosa più vicina che ho avuto ad un fratello maggiore e quella è stata la prima e unica volta che abbiamo giocato davvero contro, se si escludono le partite uno contro uno in corridoio. In passato avevamo giocato insieme una volta, era venuto per farmi piacere in un torneo di basso livello e aveva segnato una cosa come quattro o cinque gol. Ogni Natale, dopo la cena in famiglia, mi portava a giocare a carte con i suoi amici, giocavo pochissimo ma dato che vincevo ero uno degli ultimi ad alzarmi dal tavolo, lui guidava un’auto sportiva e la sera mi riportava a casa superando i 130 sulla Tangenziale (la stessa strada che facevo col motorino due volte a settimana per andarmi ad allenare). In quelle serate c’erano anche ragazze, lui mi chiamava “cuginetto”. Poi è morto nostro nonno e le rispettive famiglie - le nostre madri, sorelle - si sono separate nei Natali a seguire e quelle serate per me sono finte.
Uno dei primi ricordi che ho, dovevo avere quattro o cinque anni, è di una notte passata a casa di mio cugino, che doveva averne sette o otto, in cui ho vagato in giro per la loro casa senza riuscire a ricordare dove fossi, finché ho fatto suonare l’allarme aprendo la porta a vetri in terrazzo e mia zia è venuta a riprendermi. A casa loro tutti i letti e i divani avevano coperte di pelliccia, i miei zii avevano una pelletteria in centro, con delle scale foderate di moquette che portavano a un soppalco dove mia madre mi faceva giocare e fare i compiti mentre parlava con sua sorella. Mio zio mi dava una mancia se gli massaggiavo i piedi mentre guardava la TV, si diceva che da giovane avesse trafugato arte religiosa da alcune chiese in sudamerica con la complicità di alcuni poliziotti locali e di una persona all’aeroporto di Roma. Un anno mi ha fatto portare una cesta di frutta e dolci natalizi a casa del preside del liceo privato di mio cugino, che andava male a scuola. Mia zia era una medium e scriveva libri sotto dettatura degli spiriti, diceva che nella vita avrei fatto grandi cose ma quando anni dopo, prendendola in giro ma non fino in fondo, le ho chiesto cosa avrei dovuto fare di preciso non ha saputo dirmelo. Mia madre e sua sorella non si parlano da anni.
Non ricordo tutte le occasioni in cui la palla è arrivata nella nostra zona ma dovevo aver giocato con grande aggressività in anticipo, sapevo che mio cugino soffriva le marcature strette e sapevo anche che se mi fossi lasciato puntare palla al piede mi avrebbe saltato o si sarebbe ricavato lo spazio per incrociare il tiro. Nel secondo supplementare abbiamo preso un contropiede dalla mia parte, la palla mi ha scavalcato e mio cugino aveva un metro, un metro e mezzo, di vantaggio. Non lo avrei più preso se gli avessi lasciato controllare il pallone dopo sul secondo rimbalzo, quindi mi sono lanciato in una specie di scivolata volante con cui ho colpito la palla al volo quando era all’altezza del suo braccio. Tra la palla e il mio piede c’era la mano di mio cugino, che è rimasta schiacciata.
Mio cugino è caduto a terra e loro hanno protestato con l’arbitro che aveva assegnato solo il fallo laterale, ero sicuro che stesse simulando ma poi si è fatto sostituire e da quel momento non l’ho visto più.
Qualche azione dopo, poche, abbiamo segnato il gol del 2-1 e nell’ultimissima azione, ripartendo da calcio d’angolo, mi sono trovato la palla sui piedi e nessuno davanti: ho corso più di una metà campo palla al piede con la paura che qualcuno mi riprendesse, al limite dell’area ho calciato chiudendo gli occhi e la palla è passata sotto le gambe del portiere in uscita. Non avevo visto più mio cugino perché un dito gli si era gonfiato e annerito ed era corso all’ospedale.
In semifinale abbiamo perso, non ricordo come o quanto, ricordo solo di non aver giocato una finale di quel torneo, quell’anno o in quelli precedenti e a seguire.
Non faccio più tornei da un paio d’anni e forse avrei dovuto smettere prima. Degli amici del liceo non frequento nessuno regolarmente, uno vive a Milano, uno negli Stati Uniti, quello laziale con cui andavo in ospedale ce l’ha con me per degli articoli che ho scritto, io ce l’ho con lui perché ha offeso il mio lavoro, secondo me ingiustamente, in ogni caso è lui che non risponde ai messaggi che io gli mando. Ho avuto molti altri compagni di squadra, con alcuni non solo non sono più amico ma non ho nessun piacere quando li incontro. Con alcuni la competitività tra maschi ci ha fatto raggiungere un livello di cattiveria che ha portato a delusioni brucianti, siamo diventati peggio che avversari.
Adesso gioco con un gruppo eterogeneo di persone, quasi tutti più giovani di me ma non al punto da farmi sentire troppo vecchio per giocare insieme, mischiamo le squadre ogni settimana, facciamo lavori e abbiamo livelli di gioco molto diversi. La competitività è sublimata molto spesso nell’ironia e nell’autoironia, al massimo litighiamo per il fallo che ci chiamiamo da soli, il nervosismo va e viene ma non eccede, quasi sempre prevale l’affetto e il riconoscimento per quell’ora che ci dedichiamo reciprocamente. Ogni tanto vengono fidanzate, amiche, mogli e figli. Ci facciamo male a turno, spariamo per mesi e poi torniamo, con un po’ di apprensione ma torniamo. Se perdo mi incazzo ancora con i miei compagni, esco ancora dal campo col passo veloce e prima di rientrare negli spogliatoi vado a bere o faccio stretching per schiarirmi le idee. Ma non mi capita più di fare la doccia in silenzio, di andare via senza salutare nessuno. Le partite che giochiamo non sono mai squilibrate ma a volte comunque bruttine, capitano però belle partite, spesso belle rimonte, con grandi gol individuali o grandi azioni.
Poche settimane fa ho segnato il gol del finale 3-3 direttamente da calcio d’angolo, con l’uomo sul primo palo che si era leggermente staccato e non ci è arrivato abbassando la testa.
Ieri ho calciato una palla fuori dalla rete del campo come mio padre quel giorno, e come ho fatto io quel giorno al posto suo, sono uscito sul marciapiede per guardare sotto le macchine.
Mio cugino ha un negozio suo e lavora molto, fino a qualche anno fa lo andavo a trovare ogni tanto, non lo vedo da, boh, due anni? Non ricordo se è venuto al funerale di mio padre, in ogni caso non è per quello che ho smesso di andarlo a trovare. Non so perché. Ha un figlio in età pre-adolescenziale, pare sia forte a giocare a pallone.
Se penso ai miei amici mi vengono ancora in mente i miei compagni di squadra degli anni del liceo.