Potete leggere le prime quattro partite qui.
1.
Avevamo lasciato la vecchia casa qualche mese prima. Ci eravamo spostati di un paio di chilometri verso nord, dalla Nomentana a Montesacro, ma per me cambiava tutto. Se prima non avevo amici tranne quelli di mia sorella, di sette anni più grande, costretta a farmi da babysitter il pomeriggio mentre i nostri genitori lavoravano, di colpo ero abbastanza grande per passare il pomeriggio da solo e avevo dei ragazzi a me più o meno coetanei con cui socializzare, nei giardini vicini a casa.
Teoricamente erano parte del Parco delle Valli, ma in realtà si trattava di una fettuccia polverosa schiacciata tra la strada e l’Aniene, con un campo di cemento con dei canestri all’estremità, sul retro della chiesa del quartiere, in cui nessuno giocava a basket. Si usavano sempre e solo i piedi, in partite tre contro tre, o anche quattro contro quattro, la porta era la grande X disegnata dalla struttura di metallo che sosteneva i canestri. Quelli con la bici correvano sulla stradina sterrata, prendendosi a calci l’un l’altro, rischiando di finire nella scarpata che portava all’Aniene. Ogni tanto ci finiva la palla, in quella specie di bosco diagonale che scendeva verso l’acqua quasi stagnante del fiume, e bisognava cercarla in mezzo alle lavatrici buttate. Tra i rifiuti c’erano delle coperte, in cui dormivano degli operai dell’est-Europa che la mattina presto, quando portavo il cane a pisciare, vedevo uscire da quegli stessi buchi nella rete metallica da cui passavamo noi per andare a riprenderci il pallone.
Nei giorni di piena il fiume si gonfiava, con lo stesso orgoglio estemporaneo che mostrano i romani quando gli gira. Una volta, mentre cercavo la palla, sulla sponda opposta dell’Aniene ho visto un cavallo che mangiava l’erba, era partito da un piccolo maneggio non lontano ma a me pareva un’apparizione mistica, il fantasma di un cavallo che era vissuto lì secoli prima, magari ai tempi delle rivolte plebee del 494 a.c. Io sto parlando della metà degli anni ‘90, un decennio prima che dall’altra parte del fiume venisse torturato e ucciso Paolo Seganti, in mezzo a urla che arrivavano fino alle case più vicine, ma non alla mia. Le modalità della sua morte lasciano pensare che sia stato ucciso perché omosessuale, ma gli assassini non sono mai stati trovati.
Praticamente da un giorno all’altro sono passato dalla solitudine di un bambino che gioca con le formiche, che raramente andava a casa di un compagno di classe o di squadra, alla promiscuità con ragazzi che mi prendevano a calci in culo senza ragione mentre giocavamo a calcio. Era una novità in perfetta sintonia con il mio sviluppo emotivo: litigare mentre giocavo era diventata la mia principale modalità espressiva, senza mai abbozzare, senza mai lasciare l’ultima parola. Francamente, non ci vedevo niente di male.
Nel quartiere comunque c’erano pochi ragazzi della mia età. Si trattava di palazzi in cui originariamente abitavano immigrati del sud e che faticavano a ripopolarsi o ad animarsi. C’era un solo bar che cambiava spesso di gestione e diventava prima sala giochi, poi birreria, poi di nuovo bar con bisca. Lì davanti, la sera, si riunivano i ragazzi più grandi, che quasi mai giocavano con noi il pomeriggio. Avevo dodici anni e giocavo tutti i giorni fuori scuola all’ora di pranzo, e tutti i pomeriggi in quel parco, dopo le quattro, mi allenavo due volte a settimana, nel fine settimana c’era il campionato. Nessuno era fissato come me con il calcio: d’estate specialmente, non c’era quasi nessuno al parco. Io scendevo sempre in anticipo sugli altri, non eravamo mai più di una decina e l’attesa per capire chi ci sarebbe stato e se saremmo riusciti a giocare era una delle emozioni che dava concretezza alle mie giornate.
D’altra parte, casa era vuota finché mia madre non tornava da lavoro e senza motorino mi spostavo raramente dal quartiere. Era il periodo precedente all’impazzimento degli ormoni, ero ancora troppo piccolo per le ragazze o per il fumo, anche se la presenza di entrambe le cose intorno a me non mi era indifferente. Le nostre non erano quasi mai partite memorabili, la gente entrava e usciva e un livello così amatoriale l’avevo vissuto solo alle elementari, prima che a cinque anni mia madre mi iscrivesse a scuola calcio, anche in quel caso in anticipo (mia madre aveva dovuto chiedere un’eccezione alla squadra più vicina a casa).
Però erano partite senza esclusione di colpi, in cui ogni debolezza veniva sfruttata, i grandi facevano volare i più piccoli nei contrasti, se eri veloce ti prendevano a calci sulle gambe per rallentarti. Oggi provo nostalgia per la rabbia che provavo in quei pomeriggi quando perdevo, per quei rapporti apertamente conflittuali che solo raramente finivano in vere e proprie risse. Eppure sapere che c’era quella possibilità aiutava ulteriormente a chiarire chi era cosa: io ero un pesce piccolo, per l’età e per le dimensioni, potevo incazzarmi quanto volevo che quelli più grossi si mettevano a ridere e se mi volevano rimettere al mio posto lo facevano senza esagerare.
Ci conoscevamo tutti e, penso, ci conoscevamo meglio allora di quanto ci saremmo conosciuti in seguito. C’erano faide lunghe sempre al limite del litigio irreparabile, antipatie che duravano mesi e poi svanivano nel nulla.
Per qualche ragione, certi giorni le partite diventano più grandi e dovevamo spostarci sullo spiazzo terroso del parchetto. L’unica che ricordo con maggiore chiarezza, è la partita in cui hanno giocato tre fratelli senegalesi. Forse erano lì perché d’estate raggiungevano il padre che viveva a Roma, in ogni caso non era la prima volta che venivano al parco, ci avevo già giocato un paio di volte quando però eravamo pochissimi. Erano tre fratelli con un paio d’anni di distanza l’uno dall’altro, il più piccolo aveva più o meno la mia età, il più grande era maggiorenne o quasi. Il talento calcistico era finito quasi tutto nell’ultimo arrivato, aveva una leggerezza e un piede sensibile al punto che avrebbe potuto giocare anche nella mia squadra vera. Gli altri due invece avevano delle gambe lunghe e secche da fenicotteri, erano lenti e avevano zero sensibilità nel controllare la palla.
Quella partita era iniziata come tre contro tre ma si era ingrandita fino a spingerci fuori dal campetto di cemento. Ricordo la polvere in mezzo a cui quasi soffocavamo alla fine e il piccolo pubblico di ragazzi più grandi che si era creato. Avevo segnato su punizione, calciando forte e basso, e qualcuno aveva detto «Koeman», dopo che la palla era entrata. Qualcun altro invece a un certo punto ha iniziato a dire che era “Italia contro Senegal”, che anche se in squadra con i fratelli, che erano distanziati di un paio d’anni l’uno dall’altro, c’eravamo sia io che un altro paio di locali.
Le botte erano quelle che ci davamo sempre e non ho percepito nessuna tensione particolare fino a quando un avversario, uno di cui non ricordo il nome ma il fatto che giocava a torso nudo con i jeans, che doveva avere sedici o diciassette anni, ha fatto un’entrataccia al fratello più piccolo. Quello non ha battuto ciglio, ma il più grande, appena ha potuto, gliel’ha restituito. Con sorprendente forza e velocità ha infilato la gamba in un contrasto con il tempo giusto per prendere lo stinco del tizio che aveva fatto male al fratello e ritrovarsi con la palla ai piedi. Ho pensato che allora il resto del tempo aveva giocato tenendosi, non al massimo delle proprie possibilità. Non giocava con quella rabbia che era la nostra benzina, ma che adesso gli aveva fatto perdere quella posa educata che aveva prima. Adesso era davvero uno dei nostri.
Per me era giusto così, ero soddisfatto che la mia squadra si facesse rispettare, anche se si era creato il solito casino di spinte e minacce. Non appena quello coi jeans si fosse rialzato, pensavo, avremmo potuto riprendere a giocare come sempre. E invece quello si è alzato, si è allontanato dal campo senza dire niente – pensavo si fosse offeso – ed è tornato con in mano un bastone. Poi è corso verso il fratello più grande, che è indietreggiato senza correre. Forse si aspettava che qualcuno intervenisse, invece un altro più vicino a lui lo ha colpito con un destro.
A quel punto il più grande dei ragazzi senegalesi ha vacillato, giusto un momento, mentre i due più piccoli gli si sono messi davanti per proteggerlo. Anche io, che ero ancora nella modalità compagno di squadra, ma non ero abituato a quel livello di violenza, mi ero messo in mezzo a cercare di trattenere quella che era diventata una piccola folla di gente incazzata che adesso avanzava scalciando e insultando.
Poi i tre fratelli sono scappati, inseguiti da una decina di persone, mentre io sono rimasto lì senza sapere cosa fare. Non so se poi li hanno presi o se sono riusciti ad arrivare a casa. Non ho più rivisto quei tre fratelli e non ho capito perché ce l’avessero tanto con loro, in fondo era stato quello con i jeans a cominciare.
Quella partita non l’abbiamo mai finita.
2.
L’anno in cui abbiamo vinto il campionato juniores, negli spogliatoi subito dopo l’ultima partita, ci siamo colorati i capelli di viola come le maglie che indossavamo. Una cosa fatta al volo, con le bombolette, che infatti è durata pochissimo. Non ho nessuna foto di quei capelli ma ricordo che abbiamo iniziato le finali regionali con ancora qualche riflesso in testa. Era stata una stagione pazzesca: il nostro attaccante aveva segnato tre gol direttamente da calcio di inizio, uno dei quali nello scontro diretto con la seconda in classifica, fuori casa; avevamo preso in tutto una decina di gol e ne avevamo segnati quasi un paio a partita, mezza squadra era in classe mia e non mi sono mai sentito così al centro del mondo come in quella primavera.
Non dico che pensavamo di vincere le finali, ma eravamo certi di poterci giocare le nostre carte. Il formato del campionato comprendeva due mini-gironi finali con tre squadre ciascuno, da cui sarebbero uscite le due finaliste. Due partite, quindi, la prima delle quali da giocare in casa, un bel vantaggio, e se avessimo vinto ci saremmo ritrovati con un piede in finale. Invece il nostro giocatore migliore (a cui ho dedicato un pezzo a parte) ha pensato bene di passare la notte precedente alla partita con un’amica, a parlare e a guardare film fino alle tre, come solo a diciott’anni è immaginabile.
Non ho mai sofferto di insonnia, ma quando ero più piccolo l’idea della partita il mattino dopo mi eccitava e mi riempiva d’ansia al punto che dormivo male. Una volta in cui ero da uno zio che il giorno dopo avrebbe dovuto portarmi al campo per la prima volta, temevo potesse sbagliare strada e perdersi e per questo sono andato a svegliarlo all’alba chiedendogli se potevamo uscire un po’ prima del previsto. Anche quando ormai andavo da solo al campo, in motorino, la sera prima andavo a letto presto e mi svegliavo più volte per controllare l’ora.
Oggi continuo a fare un sogno ricorrente, in differenti versioni, in cui devo andare a giocare e qualcosa va storto. Perdo la borsa o mi accorgo che mancano gli scarpini e devo tornare a casa a prenderli, non trovo la porta del campo o semplicemente sono lentissimo a vestirmi; oppure la linea narrativa prende una deviazione ancora più complicata con una sotto-trama che non c’entra niente ma che alla fine mi impedisce di arrivare in tempo alla partita, che comincia senza di me. Nei sogni peggiori non ci arrivo proprio, al campo. Come tutti i sogni, deve avere significati che con il calcio e le partite non c’entrano niente, così come la mia ansia da giovane doveva avere altre ragioni, fatto sta che continuo a usare il calcio di quegli anni per dare forma ad alcune pulsioni profonde che non riesco a visualizzare altrimenti.
Ad ogni modo, il nostro miglior giocatore, il giorno della prima finale, a mala pena si teneva in piedi. Giocavamo con la difesa a tre, io ero il marcatore a sinistra e lui il libero, era così forte che chiudeva l’azione quando l’attaccante scivolava via a me o all’altro marcatore e ripartiva palla al piede in conduzione, spesso facendosi tutto il campo dribblando tre o quattro avversari. Quel giorno, dopo mezz’ora, ha perso palla al limite dell’area e siamo andati in svantaggio. Poco dopo si è fatto espellere per un’entrata in ritardo che gli è costata il secondo giallo. L’altro marcatore aveva la febbre e anche lui ci è costato un gol. La Storia magari non si scriverà con i “se” o con i “ma”, in compenso la nostra memoria ne è piena e a me resterà per sempre il dubbio di come sarebbe potuta andare se i miei due compagni di difesa fossero stati al 100%.
O se avessi messo dentro la palla del possibile 1-1, che a un certo punto mi è capitata sulla testa. Il nostro centravanti ha calciato una punizione dal limite sopra la barriera, ricordo ancora la palla girare come al ralenti, colpire la traversa e venirmi incontro a quattro o cinque metri dalla riga di porta: non ho fatto in tempo a saltare e l’ho colpita dal basso verso l’alto, mandandola alta di poco.
Ero corso in direzione della porta proprio pensando a un’eventualità del genere, magari a una respinta del portiere, e quando è arrivato il mio momento non sono stato abbastanza reattivo. Non mi sono fatto trovare pronto, come si dice.
Tornando a casa, in macchina con mio padre, sono scoppiato a piangere. Lui non sapeva che dire, sono sempre stato troppo sensibile per gli uomini della sua generazione. Oggi anche a me sembra assurdo che un ragazzo abbastanza grande da finire in galera o avere una famiglia possa piangere per una cosa del genere, eppure ricordo di aver pensato che non avrei mai superato quell’errore. Che non esisteva riparazione, consolazione. Alla fine abbiamo perso 3-0.
La seconda e ultima partita delle finali, quindi, per noi era pressoché inutile. Le altre due squadre avevano già giocato e quella che ci aveva battuto aveva perso 2-0. Anche in caso avessimo vinto fuori casa e alla fine le squadre avessero avuto tutte 3 punti noi avremmo avuto la peggiore differenza reti. A meno che avessimo vinto 5-0. Invece, ai nostri avversari bastava pareggiare.
Ci mancava il nostro miglior giocatore, squalificato, e anche l’altro marcatore continuava a stare male. Quando siamo arrivati al campo, in un paese quasi di montagna a un’ora da Roma, la squadra avversaria ci ha fatto trovare una tavolo con pizzette e panini nello spogliatoio. Per festeggiare, insieme, il loro passaggio del turno. Dopo che avessimo perso o pareggiato, ovviamente.
Mancava anche il nostro centravanti e l’allenatore ne aveva approfittato per far giocare un altro paio di riserve che avevano avuto poco spazio durante la stagione, in assenza di uno migliore la fascia era finita al mio braccio. Era la mia partita da capitano.
Non che fossi il tipo di giocatore che da solo poteva vincere una partita, o non perderla, ma qualcosa mi spingeva a non accettare quella specie di accordo implicito. Forse perché il mio lavoro, in quanto difensore, era distruggere il gioco avversario, anche in quel caso mi sembrava che fosse nostro dovere rovinargliela quella festa di merda. E poi il terreno da gioco era in erba e sensibilmente più grande di quelli a cui eravamo abituati, c’era una tribuna piena e l’arbitro era assistito da due veri guardalinee. Insomma, sembrava calcio vero. Probabilmente non ero l’unico motivato quel giorno, visto che siamo andati in vantaggio 1-0 e abbiamo chiuso il primo tempo sull’1-1.
L’atmosfera era leggermente cambiata, i nostri avversari avevano capito che non gli volevano regalare nulla. Qualcuno di loro, prima di un calcio d’angolo o di una punizione, aveva cominciato a dire: «Ma a voi che ve frega?». Hanno alzato il livello e nel secondo tempo ci hanno chiuso dentro la nostra area di rigore. Eppure in qualche modo la palla non entrava e io mi sentivo molto fiero di indossare la fascia.
A un certo punto, sempre sull’1-1, dopo una mischia disperata riesco a uscire con la palla al piede dalla nostra area di rigore, alzo la testa e vedo che a difendere era rimasto solo un giocatore avversario. Passo la palla al nostro numero 10, perché comunque non ero il massimo in conduzione, e seguo l’azione correndo il più velocemente possibile.
Il 10 porta palla nella metà campo offensiva e l’unico difensore in zona temporeggia portandoselo fino al limite dell’area. A quel punto sono riuscito a raggiungerli e se il 10 me la passa mi ritrovo da solo davanti al portiere, con la palla sul destro.
Ma il numero 10 decide di sterzare a sinistra e di calciare con il suo piede debole. La palla finisce di poco al lato.
La tribuna aveva seguito l’azione in silenzio assoluto e anche sulla nostra panchina nessuno si era disperato per l’occasione sprecata. Solo io ero finito con le ginocchia a terra e aveva preso a pugni il campo. Era qualche anno prima del Mondiale del 2006 e non esisteva ancora la corsa di Simone Barone, ignorato da Inzaghi contro la Repubblica Ceca (ma Inzaghi almeno ha segnato), ma la mia era stata una cosa simile. Il numero 10, che era anche il mio compagno di banco al liceo, ha sempre sostenuto di aver preso la scelta migliore.
Quella partita l’abbiamo persa 4-1, nello spogliatoio non avevo appetito e non ho neanche guardato il tavolo con le pizzette.
3.
Odiavo il ritiro come poche altre cose. Il primo che ho fatto, da pre-adolescente, l’ho passato a piangere al telefono con mia madre. Ma anche in seguito non sopportavo quasi niente della preparazione estiva. Gli allenamenti estenuanti, che mi facevano venire l’acido lattico e non riuscivo ad alzarmi dal letto già dal secondo giorno. Le colazioni con lo zucchero razionato e i pranzi senza sale, con mezzo cucchiaino di parmigiano sulla pasta scotta.
Non ho mai trovato piacere nella fatica, non mi piacevano le partite a carte competitive, lo struscio in tuta nel centro del paese in cui soggiornavamo, gli scherzi in camera a notte fonda. I cazzi appoggiati in faccia mentre dormi, il dentifricio sul cuscino.
Una volta sono riusciti a far credere a me e ai miei compagni di stanza che non ci era suonata la sveglia, che eravamo gli unici che ancora non erano pronti e il “mister” era incazzato nero. Ci siamo vestiti di corsa e siamo scesi senza neanche lavarci i denti, senza aprire le tende chiuse, abbiamo sceso le scale dell’albergo a perdifiato e solo una volta fuori dalla hall ci siamo resi conto che era ancora buio. Erano le quattro. (Per carità, mi rendo conto scrivendolo oggi che questo è un bello scherzo).
Odiavo il “test di cooper” in cui venivo spesso doppiato e le ripetute in salita sotto il sole. L’unica cosa che tolleravo erano le corse lunghe in cui ci avventuravamo per le strade di campagna e con un paio di compagni altrettanto pigri cercavamo di imboscarci dietro qualche albero e aspettare che il gruppo tornasse indietro per rimetterci in coda. Abbiamo mangiato talmente dei fichi da un albero, un giorno mentre aspettavamo, che una volta tornati al campo abbiamo vomitato.
L’anno del mio ultimo ritiro in difesa era arrivato uno nuovo, che aveva più o meno la mia età, che fisicamente su un altro livello rispetto a me, per rapidità e velocità pura e che avrebbe giocato titolare. Mi aspettava l’ennesimo anno di panchina, pensavo. Complessivamente non mi sentivo inferiore, ma avevo smesso da tempo di provare a far cambiare idea a quell’allenatore, piuttosto avrei smesso io (e così è stato).
Quello che avrebbe giocato al mio posto era un romano di Ostia col look da surfista, con i capelli lunghi biondi e la canottiera, guidava un’Alfa sportiva con le infradito a 180 in autostrada (lo so perché ogni tanto ci sono salito per andare in trasferta) e per scopare affittava un stanza a ore in un motel vicino al raccordo (questo lo so perché me lo ha mostrato una volta che ci siamo passati davanti). Mi sentivo schiacciato tra il mondo anfetaminico dei maschi alpha romani e quello dell’università, dove studiavo storia dell’arte con professori depressi e compagne di corso silenziose che leggevano Nabokov.
L’ultimo allenamento del ritiro consisteva sempre in una partita undici contro undici. Avevamo già giocato qualche amichevole con squadre locali, in cui ero sempre entrato nel secondo tempo, o nei minuti finali, e non avevo davvero niente da dimostrare. Il “mister” mi aveva addirittura messo fuori ruolo in quell’ultima partita, terzino destro, facendomi capire che al centro non ero neanche la terza né la quarta scelta. Di umiliazioni del genere, chi gioca a calcio, ne ingoia fin troppe e niente mi toglie dalla testa che in alcuni allenatori ci sia un po’ di sadismo, che alcuni dolori siano gratuiti e innecessari anche in un contesto competitivo.
L’idea di base, per alcuni, è che nel calcio non sia ammessa alcuna umanità. Devi resistere a qualsiasi colpo basso e reagire sempre dimostrandoti superiore. Solo così, alla fine, verrai premiato. Con un posto da titolare, con la vittoria di un titolo regionale di cui interessa solo a te, a tuoi compagni di squadra e ai dirigenti. Se va bene, con l’accesso al calcio di élite, con una pioggia di milioni. Sia chiaro: questa era l’idea che avevo anche io a quei tempi. Non mi sarei mai sognato di chiedere comprensione o, che ne so, cercare il dialogo.
C’è stato un periodo, più o meno in quegli anni, in cui un compagno di squadra mi aveva preso di mira. Lui era nelle rotazioni tra i titolari in attacco e in ogni allenamento si giocava il posto. Nelle partitelle in allenamento giocavamo spesso contro e a un certo punto ha iniziato a prendermi a gomitate sullo sterno per tenermi a distanza quando la palla era lontana. Entrava duramente in ritardo quando lo anticipavo. Durante un allenamento mi sono incazzato al punto che ho lasciato il campo senza dire niente. Per l’allenatore il problema non erano le gomitate ma la mia reazione. Dopo qualche settimana la cosa è finita. Non ho mai capito perché si fosse comportato in quel modo, né ho mai pensato che potesse esserci una soluzione. Ci sono dovuto passare attraverso, e basta.
Come dicevo, nell’ultima partita del ritiro c’era un clima di cazzeggio. Ciò non toglie che nessuno voleva fare brutta figura. Lento come ero non avevo grande spinta sulla fascia e non esistevano ancora i “falsi terzini” che venivano dentro al campo per fare da centrocampisti (ammesso che oggi in provincia qualche squadra sia così raffinata). Quando la squadra attaccava, salivo diligentemente: offrivo un appoggio facile all’ala se la palla era dalla mia parte, mi tenevo pronto per attaccare il lato debole se era dall’altra. E a un certo punto, su un cross da sinistra per l’esterno che attaccava il secondo palo, la palla è stata respinta dalla difesa nella mia direzione.
Un campanile così alto che sarei stato già contento di stopparlo bene. La palla era più lontana di quello che mi era sembrato in un primo momento e dopo aver iniziato a correre non ero sicuro di arrivarci prima che rimbalzasse (e a quel punto l’esterno avversario avrebbe fatto in tempo ad accorciare e saremmo andati al duello aereo). Mentre correvo, con gli occhi sul pallone, ho pensato che avevo così poco da perdere che tanto valeva provare davvero a calciarla al volo quella palla, piccola come un nocciolo d’oliva appena sputato. Cioè, non è stato proprio un pensiero, l’ho pensato e l’ho fatto al tempo stesso.
Ho colpito di collo esterno, perché già che c’ero volevo provare a metterla sotto l’incrocio più lontano, e vaffanculo.
Ho preso la palla proprio come volevo, l’ho sentita deformarsi sul mio piede, comprimersi e avvolgere la mia caviglia, poi ricomporsi e allontanarsi in direzione della porta. La traiettoria si è alzata ed è scesa all’ultimo, il portiere non ci è arrivato e quando è caduto schiena a terra il suo tonfo ha risuonato nel silenzio dei miei compagni. Ho esultato da solo, devo aver gridato una cosa come «sììììì» e stretto il pugno pensando «alla faccia vostra», e solo dopo un paio di secondi di silenzio qualcuno ha commentato ad alta voce dicendo: «Hai capito».
«Hai capito che? Che sei un coglione?», avrei dovuto dirgli. Ma sono stato zitto.
Quel gol non ha cambiato le idee al mio allenatore, che deve averlo considerato un caso. Prima della fine della stagione ho smesso di andare ad allenarmi.
4.
Mentre ancora studiavo all’università, per farmi qualche soldo in più ho accettato di allenare una squadra di dodicenni. In realtà si trattava della squadra “B” dei Giovanissimi di quella in cui giocavo io: quell’anno c’erano troppi bambini iscritti e l’allenatore della squadra “A”, un mio compagno in Prima Categoria, non poteva seguirli tutti. Così a me sono toccati gli scarti.
La squadra era iscritta al campionato, ma partecipava “fuori classifica”, cioè non faceva punti neanche vincendo. Non ne ricordo la ragione, ma ho chiesto a un amico dell’università di darmi una mano. Così eravamo due allenatori per la squadra “B” che non partecipava neanche veramente al campionato.
Una parte dell’allenamento la facevano tutti insieme, il riscaldamento e gli esercizi fisici, poi quelli “più indietro” venivano con me in un campetto che stava dietro una porta del campo di allenamento vero e proprio, e facevamo degli esercizi per migliorare la loro tecnica di base.
Ogni fine settimana i ragazzini che non venivano convocati con la squadra “A” giocavano con quella “B” e alcuni venivano convocati per entrambe le partite. I migliori si scocciavano quando dovevano giocare con la seconda squadra e l’allenatore minacciava quelli che si allenavano male indicando il nostro gruppo di mezze seghe.
Dopo le prime settimane abbiamo iniziato a conoscere i ragazzini che allenavamo più spesso e ci siamo resi conto che tutto sommato non erano poi così più deboli dei titolari della squadra “A”. Salvo un paio di eccezioni che nell’altra squadra spiccavano in meglio e un altro paio che nella nostra che probabilmente erano cresciuti senza essere mai entrati in contatto con una palla. Di fatto, la nostra squadra era soprattutto più piccola fisicamente rispetto all’altra.
A dodici anni alcuni sono ancora bambini che per poco non ti danno la mano quando devono fare le scale con gli scarpini ai piedi, altri invece sono dei piccoli uomini. Sentivo che qualcuno di loro parlava già di scopare mentre altri dovevano ancora entrare nella pubertà. E non c’era nessuna comprensione, o pietà. Uno di loro era soprannominato “fagiolino” e solo dopo qualche mese ho scoperto che era un riferimento alla forma del suo organo riproduttivo. Era una squadra di Roma nord, quasi tutti erano di buona famiglia, ma c’erano comunque delle vere piccole teste di cazzo.
Gli allenatori giovanili sostengono sia importante per i ragazzi fare la doccia insieme dopo l’allenamento, serve a creare spirito di gruppo ma anche ad affrontare la propria timidezza. Lo facevo anche io, all’inizio, con quei bambini che aspettavano che la madre li venisse a prendere facendosi asciugare il sudore addosso, anche se per anni mi sono coperto con gli asciugamani e ho aspettato che lo spogliatoio fosse vuoto per farmi la doccia, finché non mi sono cresciuti i peli. Alla fine della mia esperienza da allenatore, ai genitori che mi dicevano che non riuscivano a convincere i propri figli a farsi la doccia al campo, rispondevo che non era importante. Chi lo ha detto che il modo migliore di crescere sia imparare ad accettare le umiliazioni?
In squadra avevamo un paio di nani che nelle partitelle o negli esercizi con quelli della prima squadra venivano spazzati via con un gesto della mano come briciole dal tavolo. Avevamo molti ragazzini normali ma con scarsa competitività e poca voglia di misurarsi fisicamente con i coetanei, qualcuno erano grande e grosso ma decisamente poco portato. In fondo era giusto che si allenassero separatamente: nel campo di là c’erano giocatorini capaci di farsi tutto il campo dribblando, o di calciare da fuori area sotto la traversa, mentre noi coloravamo con il gesso il collo del piede per insegnare ai nostri a colpire bene la palla.
Era una squadra di ragazzini un po’ viziati ma teneri e a me piacevano così. Dopo una partita dovevo riportare a casa due ragazzini e visto che stavo corteggiando una ragazza che faceva la cameriera sul Lungo Tevere ho allungato un po’. Gli ho offerto un succo di frutta e un cornetto solo perché volevo far vedere a quella ragazza quell’aspetto della mia vita. (Oggi siamo marito e moglie ma lei ricorda appena quella colazione).
Io e il mio “secondo” avevamo pochissima autorità, anche perché tra di noi ci prendevamo in giro costantemente. Ad esempio dicendo entrambi che l’altro ci faceva “da secondo”. Se un ragazzo si lamentava di uno di noi con l’altro, quello gli dava ragione e gli diceva: «Ma non gli dare retta, non lo vedi quanto è scarso». Giocavamo nelle partitelle di allenamento con loro, l’uno contro l’altro, e cercavamo di ridicolizzarci a vicenda facendoci i tunnel. Ma non rosicavamo mai, non ci offendevamo mai, eravamo (siamo, anche se adesso ci sentiamo meno) due veri amici.
Avevamo spesso idee contrastanti, ma ci spalleggiavamo in quelle più stupide. C’era uno spilungone che con i piedi non sapeva davvero giocare ma che dopo qualche partita abbiamo capito che si divertiva in porta. Usava la propria gamba come una mazza da golf quando calciava e il suo rinvio arrivava quasi a metà campo, che per quella categoria è un mezzo miracolo. Un giorno ci è venuto in mente di fargli tirare una punizione da trentacinque metri. Nessuno degli altri in campo, in ogni caso, sarebbe arrivato in porta. Ad essere sincero non ricordo a chi dei due è venuto in mente, anche se quando parliamo di quel momento gli dico sempre che è stata un’idea mia, ma ricordo che ci siamo abbracciati come se fosse stata la finale di Coppa del Mondo quando la palla è entrata sotto la traversa che il portiere avversario non arrivava a toccare.
L’allenatore della squadra “A” era una brava persona e un buon compagno di squadra. Ai suoi occhi io e il mio amico dovevamo essere strani, ma non ha mai cercato di farci cambiare metodo. Era contento se i nostri giocatori miglioravano e li convocava con la squadra “A” anche solo per fargli respirare un’aria maggiormente competitiva (loro erano in corsa per il primo posto).
C’era un biondino che davvero poteva avere otto o nove anni per quanto era piccolo e che aveva sviluppato grande sensibilità nel primo tocco e nei passaggi brevi: lo avevamo messo al centro del centrocampo, un ruolo che di solito a quell’età è occupato da piccoli carrarmati, e avevamo allenato la squadra a giocare stando vicini, a passarsi la palla e a raddoppiare quando un compagno affrontava un duello. Ricordo che tra di noi lo chiamavamo lo “Xavi biondo”.
La nostra stellina era il fratello del capitano della squadra “A”, che era nato a dicembre dell’anno successivo e aveva praticamente due anni in meno del fratello grande nato a febbraio. Giocava con noi solo perché la madre non poteva portarli in due orari diversi, altrimenti avrebbe dovuto fare la categoria inferiore. Aveva un carattere infantile e iperattivo, non ci si poteva praticamente parlare, ma in campo capiva cosa gli chiedevamo e tecnicamente era forse il migliore in assoluto. Durante la stagione è diventato parte della squadra “A”, e anzi ha deciso anche qualche partita, ma per convenzione la partitella di allenamento la faceva sempre con la “B”, che per quanto possa suonare ridicolo sentiva più sua.
Alcuni dei nostri giocatori non hanno imparato mai, altri sono migliorati in un battito d’occhio. Nel corso del tempo quasi tutti avevano acquisito non solo maggiore sicurezza tecnica, ma anche competitiva. Adesso andavano decisi nei contrasti e se li perdevano, be’, si rimettevano a correre. Se erano più lenti e venivano superati non si fermavano. Alcuni di loro sono cresciuti durante l’anno ed erano diventati grandi quanto i compagni che prima li maltrattavano.
Nelle partitelle tra squadra “A” e “B” perdevamo con margini sempre minori, era sempre meno facile batterci. Alla fine dell’anno abbiamo giocato una partita particolarmente tesa: tenevamo palla e facevamo correre a vuoto la squadra titolare, pressavamo e creavamo occasioni da gol giocando palla a terra. Siamo riusciti a non perdere e anche se non ricordo i gol o delle azioni in particolare sono ancora in grado di sentire l’orgoglio che quel giorno mi aveva riempito.
Quei ragazzini sono diventati uomini e un paio di volte è capitato che mi scrivessero sui social per salutarmi. Forse perché in quel periodo non sapevo cosa fare della mia vita, e mi sentivo tanto lontano da quella adulta quanto lo erano loro, oggi li ricordo come se fossimo stati coetanei. Come se anche io avessi avuto dodici anni.