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Le migliori case dei giocatori NBA
04 mag 2016
Megaschermi & acquari giganteschi: tutto quello che non potremo mai avere.
(articolo)
9 min
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Citando Fight Club: tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante me... un momento, mi ha appena scritto l'NBA, mi ha ordinato di cambiare la citazione.

Ricominciamo: tu sei il tuo lavoro, sei le statistiche che metti a referto e le vittorie che ottieni, sei le maglie che fai vendere, sei la quantità di soldi che hai in diverse banche, sei le macchine che guidi, sei la quantità di retweet che accumuli, sei il tuo profilo Instagram e sì, sei la tua casa e quello che ci metti dentro.

Una volta messe in chiaro queste cose ci possiamo finalmente avventurare nella vita — il più delle volte strepitosa — dei giocatori NBA. Come per la mia precedente indagine sulle case dei calciatori, ho deciso di scoprire dove passano la vita questi personaggi, quali manie megalomani e quali esagerazioni si concedono questi supereroi del parquet.

Ray Allen

Super Bowl party at my crib. In the words of Bart Scott, "CANT WAIT".

Una foto pubblicata da Ray Allen (@trayfour) in data: 2 Feb 2014 alle ore 13:08 PST

Ecco un elenco di cose belle: guardare le partite e i film su un televisore grande, andare in piscina con gli amici, avere una villa a Miami, essere Ray Allen. Shakerate vigorosamente e aggiungete pure un paio di titoli NBA, perché ora vi faccio vedere come si è arrangiato (eufemismo) “He Got Game” nella sua casetta (eufemismo) in Florida. A quanto pare il tutto è nato alla vigilia del Super Bowl 2014, quando LeBron e gli altri volevano fare festa e guardarsi la partita. E come succede spesso a noi prima di Pasquetta la situazione si era impantanata: "Dove la facciamo?", "La facciamo da me?", "La facciamo da te?". È in quel momento che Ray Allen se n'è uscito con questo colpo folgorante: dieci metri di schermo montati a bordo piscina. Probabilmente uno dei crucci dei ragazzi era che se si vedeva solo la partita, le ragazze non sarebbero venute (sicuramente era questo il cruccio) e invece TA-DAN: piscina, villa, schermo, festa, sole, Miami Heat, Chris Andersen che versa la Coca Cola. Se volete una parola per sintetizzare questa cosa bellissima a un amico che non ha ancora visto la foto, eccola: "piscinema".

Josh Childress

L'accumulo di oggetti per moda o per esibizionismo, soprattutto quando uno è ricco sfondato, è una pratica semplicemente inaccettabile, fastidiosa, indigesta. Quando invece l'accumulo prende una piega più accurata e sofisticata e si trasforma in collezionismo, allora, ricco o povero che tu sia, la tua passione acquista un valore sacrale e il rispetto degli astanti è immediato. Josh Childress non accumula scarpe da ginnastica ma le colleziona, le ama, le ordina e le impila, probabilmente senza mai indossarle — anzi, non sia mai che qualcuno le tocchi. Childress ha ammesso che gli capitava di entrare nel mood della partita guardando le scarpe degli altri giocatori, che modelli indossavano, in che stato erano tenute, quali le tonalità di colore. "It's a big part of basketball culture in general" dice lui. Ed è vero: tante altre superstar collezionano scarpe, ma la collezione di Childress è semplicemente qualcosa di più. A suo dire l'inestimabile tesoro conta qualcosa come 800 pezzi e anche qualche ospite speciale, come delle Air Jordan XXII indossate da Gary Payton e il paio bianco indossato da Rip Hamilton durante i suoi gloriosi Detroit Days. Insomma, nella mia testa la casa di Childress è un tortuoso labirinto-biblioteca di scarpe dove invece di sfogliare i volumi carezzi gli arabeschi sulle suole e lisci le plastiche morbide, mentre si illuminano nella tua mente grandi giocatori, grandi partite, belle storie e bei ricordi.

Michael Jordan

“Buongiorno signora potrei parlare con Michael? Grazie”.

“…”

“Ciao Mike, sono praticamente a casa tua, ma non so qual è il cancello”.

“Sì, ok gli alberi, ma qua tutti hanno gli alberi”.

“Il cancello nero con le colonnine? Aspetta che controllo”.

“Sì, ma quante colonnine?”

“Quattro?”

“Mike senti, qua il viale è lungo e tutti hanno quattro colonnine al cancello”.

“Come? Il citofono? Cioè mi devo guardare tutti nomi dei citofoni?”

“Dai ti prego scendi tu”.

“E dai scendi tu che mi vergogno pure a citofonare”.

“Eh ho capito che rompo le palle, ma pure tu mettici una cosa per riconoscere la casa, dei palloncini che ne so…"

“Va bene dai, ti aspetto qua. A tra poco”.

Kevin Durant

Game 3 of the playoffs, MyPlayer Snipe Heem is putting on a show

Una foto pubblicata da Kevin Durant (@easymoneysniper) in data: 17 Ott 2014 alle ore 08:43 PDT

Kevin Durant nella mia mente è sempre stato un ragazzino strano, mai completamente leader, mai cool, mai un duro, mai saggio. Semplicemente un ragazzino con un corpo senza senso e un talento sconfinato. Poi il fatto che dopo le partite si portasse sempre dietro questo zainetto infilato su tutte e due le spalle, anche alle conferenze stampa — prima che fosse una cosa fichetta alla Westbrook, ma anche dopo comunque — è l'unico giocatore su cui non risulta cool, ma continua dargli l'aspetto di uno appena uscito da scuola. Ma questa è tutta un'impressione superficiale, mi sono sempre detto. Finché non ho visto effettivamente la casa di KD. Le cose sono due: o Durant si è comprato una mega casa da giocatore NBA nella quale si è costruito la sua cameretta da sedicenne, o vive ancora dai suoi. Guardate bene la situazione archetipica da ragazzino americano che si chiude in camera per leggersi i giornaletti invece di studiare. Alla base c'è questo marrone da casa anni '60 inspiegabile, poi NBA 2K e vabé, poi il berretto, lo stereo, la palla da football, il trofeo da MVP tenuto a mo' di premio per le olimpiadi di matematica o per quelle cose americane tipo la gara di spelling di Lisa Simpson. E poi, ciliegina sulla torta, il canestrino sulla porta! Sono convinto che se mi metto a fissare questa foto per 10 minuti a un certo punto entra la mamma di KD con la crostata e il succo di frutta.

D'Angelo Russell

Una foto pubblicata da D'Angelo Russell (@dloading) in data: 26 Dic 2015 alle ore 19:54 PST

Che le cose ai Lakers non andassero benissimo lo sapevamo da un po', ma ora è il caso di andare a spiare i gialloviola un po' più in profondità. La sensazione principale, al di là del talento centellinato, è che non stiano proprio sul pezzo a livello mentale. Prendiamo D'Angelo Russell. Bel giocatore per carità, ma non mi sembra proprio il ritratto della concentrazione e del controllo. E tu che ne sai, direte voi. Io che ne so? Seguitemi. A guardare la foto di casa Russell mi viene da pensare che qualcuno gli abbia comprato l'appartamento e che lui ci sia semplicemente entrato, senza occuparsi del resto. Potete osservarlo in tuta, fantasmini verde fosforescente e ciabatte plasticose orrende, al telefono, sulla sua isoletta cuscinosa, con quella bestia cyborg che non mi azzardo neanche a descrivere tanto è inquietante. Per il resto muri intonsi, bianchi, tapparelle bianche e prese elettriche a caso. Sulla destra sbuca un altro cuscino. Probabilmente tutta la casa è completamente vuota e disseminata di isolette-cuscino su cui Russell si distende quando è stanco. Quando un giorno finirà la telefonata sapremo se avrà bisogno di una cucina o di una sedia.

Chris Bosh

Morning playtime is serious! You've gotta slay dragons first thing out of bed apparently.

Una foto pubblicata da Chris Bosh (@chrisbosh) in data: 31 Lug 2014 alle ore 06:49 PDT

Non è l'amore a muovere il sole e le stelle, no, è il gioco. Tutti i giocatori lo sanno e l'NBA lo sa. Per questo il gioco, in senso ampio, è preso così seriamente in casa Bosh. Mentre il papà va a giocare al palazzo, in modo dannatamente serio, anche il figlio ci mette gli stessi crismi. La stanza dei giochi è più che altro un parco, e non sia mai si arrivi all'ora di merenda senza aver ammazzato il drago, con l'armatura integrale, il cavallo e la spada. Su ste cose non si scherza.

Blake Griffin

Man cave night. 3 games on + several intense ping pong matches Una foto pubblicata da Blake Griffin (@blakegriffin32) in data: 2 Dic 2014 alle ore 20:49 PST

La domanda è: oltre al tavolo da ping pong, i tre televisori al plasma, i divani, lo stereo, il 32 luminoso, perché al centro della notevole sala hobby di Blake Griffin c'è un forziere? Cosa contiene? Le gambe di ricambio? Chris Paul? La fortuna dei Lakers?

Matt Bonner

Ragioni per farsi costruire una casetta di legno più piccola del normale — quando, oltretutto, si è alti 208 cm e discretamente fisicati:

1) Convincersi di essere alti 217 cm e raccontare ai vicini di essere stato la terza Twin Tower degli Spurs insieme a Tim Duncan e David Robinson;

2) Abbassare la testa ogni volta che si entra in una stanza come segno di onnipotenza;

3) Essere un fanatico di Jonathan Swift e dei Viaggi di Gulliver (e quindi avere in programma di comprare anche una casa gigante in cui si è piccolissimi);

4) Essere pazzi.

Jimmy Butler

Butler ha 26 anni. È nato il 14 settembre del 1989 e per quanto mi riguarda entra giusto giusto nella generazione frenetica, touch, social, portatile, che non ha mai conosciuto il concetto di noia. Per noi la noia è una vecchia amica, un'amante invadente, un'ombra. Per loro la noia è un tabù, una leggenda, un incubo. È per questo che Jimmy Butler non può avere uno stereo normale, proprio per questo motivo. La funzione dello stereo è sputare musica nel migliore dei modi, poi il contenuto musicale te lo gestisci tu. Lui deve solo eseguire i brani, nient'altro. C'è il rischio però che un ragazzo della generazione anti-noia prema Play e poi si ritrovi a fissare una scatola nera e delle casse. Impossibile. Uno delle generazione di Butler non può avere un solo senso impegnato, e gli altri che fanno intanto, niente? Aspettano? Si annoiano? Impossibile. Per questo Butler ha chiesto uno stereo speciale, così che guardandolo, mentre ascolta la sua musica, non c'è rischio che si stufi.

“Insieme allo stereo vorrei anche un video. Altrimenti ho paura di annoiarmi sa…"

“Beh, signor Butler, ma in quel caso sarebbe una televisione, non crede?”

“Mmh, ha ragione... allora mi ci metta qualcosa di eccitante e colorato, qualcosa che sia sempre in movimento. Un fuoco, ecco. Mi ci metta un fuoco nello stereo”.

“Beh, signor Butler, ma in quel caso c'è il rischio che tutto esploda e la sua casa vada in cenere, non crede?”

“Mmh, ha ragione... allora mi ci metta un acquario gigante, con pesci coloratissimi che con la luce fanno effetto discoteca”.

“… domani sarà pronto”.

(Chiedo scusa a Butler per averlo descritto in modo così irrispettoso, in realtà lui è un ragazzo normalissimo, di una generazione fichissima, con una storia personale complessa alle spalle, a cui due tizi di una trasmissione fanno questo regalo pazzesco).

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