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Le migliori favole del 2016
28 dic 2016
Nel 2016 calcistico tutto è stato possibile.
(articolo)
9 min
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Potremmo anche ricordare il 2016 come l’anno in cui abbiamo perso la capacità di commuoverci di fronte alla retorica della narrativa sportiva. L’anno in cui siamo diventati refrattari, come pietra del San Michele. Con la stessa reazione che ci viene naturale se sul palco c’è un comico che inanella troppe battute simili, gli applausi scroscianti a un certo punto hanno fatto spazio alla vacuità delle riflessioni esistenziali: chi o cosa stiamo applaudendo?

Oppure, in altre parole: il 2016 è l’anno in cui troppe favole ci hanno fatto diventare insensibili alle favole.

Emanuele Atturo, a pochi giorni dall’exploit dei Foxes in Premier League, ha scritto un pezzo sulla parabola del Leicester in cui ha utilizzato, già nel titolo, due aggettivi che rendono bene la portata surreale di ogni miracolo calcistico: incredibile e assurdo. Quelle che seguono sono le 5 (forse qualcuna di più, ma il punto non è nel dato numerico quanto nella pregnanza topica) favole più incredibili e assurde dell’anno.

La classificazione dipende dal giudizio di merito che è nella sensibilità di chi interpreta le storie - cioè me, in questo caso. In aggiunta al mio sentire ho usato un metro che comunque è piuttosto arbitrario: il tasso di soddisfazione diffuso. Cioè, mi sono chiesto, dopo che l’epifania fiabesca si è conclusa i protagonisti si sono davvero potuti dire felici e contenti? La risposta, nella maggior parte dei casi, è: poco. Per questo il vero metro della classifica è la misura quanto poco.

Kashima Antlers & Plaza Colonia

I giapponesi e gli uruguayani condividono una caratteristica: quella di essere stati gli underdogs più underdogs di tutti nelle rispettive competizioni che li hanno visti poi, in senso assoluto o lato, trionfare.

Il Plaza Colonia ha vinto il Campeonato Clausura uruguagio diciotto mesi dopo aver rischiato la retrocessione in terza serie. Con “el Chirola” Mariano Bogliacino nel ruolo del figliol prodigo (altro topoi prettamente fiabesco), i verdi sono riusciti a piazzare Colonia del Sacramento sulla mappa della geografia calcistica sudamericana, portando per la prima volta dopo undici anni un titolo fuori dall’area metropolitana di Montevideo.

Eppure, a differenza di quanto il sentimento comune possa suggerire, il Sudamerica non è dopotutto un luogo così sensibile al fascino di vittorie impregnate di realismo magico. Deve dipendere dall’abitudine. E quindi nella Libertadores 2017, nonostante un ulteriore posto assegnato all’Uruguay per la defezione del Messico, nessuna piazza è stata occupata dal Plaza Colonia: i criteri di scelta, prettamente numerici, della Conmebol non lasciano spazio all’emozione.

Non ci credevano troppo neppure i centoventuno tifosi che hanno seguito la squadra in trasferta in un match potenzialmente decisivo.

Gli Antlers, all’estremo opposto del pianeta, a differenza del Plaza Colonia sono un club dalla solidatradizione, almeno in patria. La modalità con cui sono arrivati a giocarsi la finale del Campionato del Mondo per Club, però, ricalca in pieno tutti i topos della fiaba, già dal prologo: vittoria del campionato giapponese all’ultima gara, contro una squadra, gli Urawa Reds, che si era piazzata quindici punti più in alto in classifica.

Per l’assurdo meccanismo in base al quale il campione del paese ospitante si guadagna una piazza di diritto alla FIFA Club World Cup, gli Antlers hanno cominciato a scavalcare avversari più o meno agguerriti fino a passeggiare sulla carcassa emotiva dell’Atlético Nacional.

L’ultimo gol dei giapponesi.

Se la realtà si fosse congelata alle dodici e trenta, ora di Tokyo, del 19 dicembre oggi avremmo un club giapponese sul tetto del mondo: la realizzazione dell’utopia di ampliamento orizzontale della democrazia calcistica cui tanto anela Infantino.

La contro-rimonta - con sorpasso nei supplementari - del Real, invece, è lì a dimostrarci che non si può competere contro la cattiveria della più cattiva tra le streghe cattive, per il semplice fatto che anche la scalata al rango di cattivissimo non è poi una strada lastricata di dolciumi, ma di sofferenze. E anche che a volte la cattiveria non è un ingrediente necessariamente negativo: anzi, è il motore vero delle favole, perché a sua volta si nutre e alimenta di materiale fiabesco.

Portogallo

Adesso confrontate questo Cristiano Ronaldo ↑ con quest’altro Cristiano Ronaldo ↓

Il mondo del calcio non è l’universo favolistico di Esopo: i cattivi non sono sempre cattivi in quanto tali, e lo stesso vale per i buoni. Ogni match, ogni competizione è materiale che non possiamo mica affrontare con l’accetta: le favole, dopotutto, anche se ci piacerebbe, non sono semplici nella loro conformazione di base, è la nostra interpretazione semmai a renderle meno complesse, con meno sfumature.

Il Portogallo campione di Euro 2016 è stato additato come la riedizione semantica della Grecia campione di Euro 2004, la guastafeste che si va a vivere il suo trionfo in casa degli altri, la squadra brutta che gioca un calcio noioso e non vince mai una partita nell’arco dei 90 minuti; ciononostante si eleva su tutti gli altri perché tra i suoi ranghi ha l’eroe, ma non un eroe qualsiasi, un eroe eroico a tal punto da proffondere la sua aurea per osmosi anche a chiunque lo circondi.

Nell’ultima release del Ranking FIFA, il Portogallo è ottavo, dietro (in ordine crescente) alla Francia che ha sconfitto in finale dell’Europeo, alla Colombia delusione dell’ultima Copa América Centenario, al Belgio dark horse azzoppato, al peggior Brasile (forse) della sua storia e all’Argentina vittima dell’incantamento che le fa perdere ogni finale che gioca. Passati cinque mesi nessuno si vuole ricordare del Portogallo, e anzi se ci viene alla mente il gol di Eder strizziamo forte gli occhi per far sparire quell’immagine dai nostri pensieri. Felici e contenti mica tanto.

Independiente Del Valle

Poco prima delle semifinali di Libertadores, parlando dell’Independiente del Valle mi trovavo ad essere già abbastanza titubante sull’argomento: quale segmento narrativo avrebbe dovuto accogliere la favola dell’IDV? Perché la Copa Libertadores è sempre stata una competizione nella quale i dark horses non sono poi così dark, o meglio: non sono poi così rari. Ogni semestre c’è una favola, e quella degli ecuadoriani non è neppure riuscita ad andare oltre il semplice giant-killing, arenandosi in finale, inchinandosi a un’altra favola, quella dell’Atlético Nacional che tornava a giocarsi una Libertadores dopo un’attesa venticinquennale (un Davide contro un Davide un po’ più cresciuto).

Certo, la cavalcata dell’IDV è servita anche, in quale modo, a cementificare il senso d’appartenenza degli ecuadoriani, travolti da un sisma - in medias res con la Libertadores - che ha sconquassato il paese.

E l’accostamento calcio-mondo reale, normalmente, vale di per sé 150 punti retorica.

Eppure, in nessun altro caso come in quello dell’IDV è chiaro come il naturale proseguimento della favola sarebbe dovuta coincidere almeno con una prima vittoria in patria (sì, hanno raggiunto la finale Libertadores pur non avendo mai vinto un titolo ecuadoriano), o con l’esplosione, fuori dal contenitore mitopoietico, dei singoli piccoli eroi inca, alle cui sorte ci siamo appassionati per la maniera in cui, armati di cerbottane, hanno sfidato gli archibugi dei conquistadores.

L’epitome più didascalica, invece, è stata quella di José “El Tin” Angulo, acquistato dal Granada, poi risultato positivo a un test antidoping che ne ha rilevato l’assunzione di cocaina, e di conseguenza scaricato senza troppi complimenti, o sensibilità alla malia della fiaba.

Nessuno si chiede mai se la principessa, dopo il matrimonio che avrebbe dovuto renderla felice e contenta, al primo viaggio di rappresentanza non si sia racchiusa in bagno per tirare cocaina e sdraiarsi una bottiglia di chardonnay, affogando così i primi sintomi depressivi.

Atlético Nacional

Non nasconderò che la scelta di assegnare all’Atlético Nacional un posto, vieppiù d’onore, in questa graduatoria è figlia di un compromesso, un compromesso tra il Fabrizio più razionale e quello che si commuove coi Christmas Carol.

La tragedia che ha cancellato dalla mappa calcistica il Chapecoense, senza ombra di dubbio il contrario di un sogno più doloroso e tremendo dell’anno, forse dell’ultimo decennio per ecumenicità della partecipazione e portata straziante, ha finito per coinvolgere molto da vicino anche l’Atlético Nacional, che ai brasiliani avrebbe dovuto contendere quella Sudamericana.

La Verdolaga era a un passo dal raggiungimento di un obiettivo inedito, quello di laurearsi bicampeon continentale nella stessa stagione: nessun altro mai ha avuto neppure l’opportunità di giocare due finali, di Libertadores e di Sudamericana, nello stesso anno solare.

L’Atlético Nacional avrebbe potuto realizzare una favola meno vistosa, forse, ma solida nella sua scarsa appariscenza; sarebbe potuta essere la definitiva consacrazione di uomini, prima che calciatori, spesso sottostimati, o comunque mai eccessivamente considerati, come il tecnico Rueda, o Miguel Borja, o Macnelly o Alejandro Guerra.

Se l’avesse vinta, l’Atletico Nacional si sarebbe presentato al Mondiale per Club con l’assurda ma contemplabile eventualità di vincere il terzo trofeo internazionale, estendendo al mondo un dominio continentale pressoché assoluto.

Ogni singola azione dell’Atlético Nacional, come club, entità sociale, tifoseria e congiunto di giocatori dalle prime ore del mattino del 29 novembre ad oggi è quanto di più onesto e sincero sia stato fatto, per solidarietà, nel mondo calcistico degli ultimi anni.

E il mood con cui sono sembrati scendere in campo contro i Kashima Antlers, svuotati mentalmente in una partita che avrebbe potuto avere un sacco di senso, e invece non ne aveva più affatto, è stato, almeno per me, tra i momenti più commoventi dell’anno.

Poche cose sono peggiori delle favole spogliate della loro favolosità.

Leicester City

Quello del Leicester è stato il caso più adamantino di “miracolo sportivo” non solo del 2016, ma forse dell’ultimo ventennio: tutta la storia dei Foxes è così perfettamente rispondente e aderente al canone (personaggi, evoluzione della storia, valore presuntamente didascalico che viene facile giocoforza attribuirgli) da renderla qualcosa di più di una favola, e cioè una favola realizzata. L’annata perfetta, il miracle rally, il compimento di un’utopia: il punto di congiunzione tra una visione dei miracoli sportivi generalista e specializzata.

E il fascino discreto dell’entusiasmo zen.

La Favola Leicester è probabilmente l’unica della quale conserveremo memoria negli anni a venire. Magari del film che ne trarranno no, quello sparirà in un trafiletto del Morandini; ciò non toglie che quest’infiorescenza fin troppo puntuale di rivincite della classe operaia, scommesse vinte, redenzioni e rivincite ha dato vita al cocktail più sconvolgente che abbiamo mai sorbito, una ricetta che solo l’aggiunta di un ultimo ingrediente saprebbe rendere fatale: una retrocessione in Championship. E non tanto per una questione di Schadenfreude: siamo diventati insensibili, non malvagi. Quanto piuttosto per provare a raggiungere le vette più inarrivabili di imprevedibilità, anzi, implausibilità.

Retrocessione alla terz’ultima giornata vissuta in technicolor nella desolazione del salotto di Jamie Vardy.

Non vi stanno già esplodendo le cervella?

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