Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Le prospettive dell'Atletica italiana dopo Tokyo
09 ago 2021
I risultati eccezionali di Tokyo sono l'inizio o la fine di un percorso?
(articolo)
24 min
Dark mode
(ON)

Su dieci medaglie d’oro conquistate dall’Italia alle Olimpiadi di Tokyo, metà proviene dall’atletica leggera. La regina delle Olimpiadi, nelle sette edizioni dei Giochi andate in scena tra il 1988 e il 2016, aveva concesso complessivamente quattro vittorie agli azzurri, tutte fuori dallo stadio: quelle dei maratoneti Gelindo Bordin (1988) e Stefano Baldini (2004) e quelle dei marciatori Ivano Brugnetti (2004) e Alex Schwazer (2008). Nella seconda settimana di Giochi giapponesi gli azzurri ne hanno portate a casa cinque. Il vecchio record di vittorie in una singola edizione dei Giochi era di tre, risultato raggiunto a Los Angeles 1984 e a Mosca 1980. Erano gli anni dei boicottaggi e, soprattutto, erano gli anni dello sprinter Pietro Mennea, della saltatrice Sara Simeoni, del marciatore Maurizio Damilano, del lanciatore Alessandro Andrei e dei mezzofondisti Alberto Cova e Gabriella Dorio. Negli ultimi 37 anni l’Italia non aveva mai vinto una gara dentro lo stadio.

Ne ha vinte due nel giro di dieci minuti, l’1 agosto 2021, grazie a Gianmarco Tamberi nel salto in alto (ex aequo con il qatariota Mutaz Essa Barshim) e a Marcell Jacobs nei 100 metri. Tamberi ha aperto le danze. In una serata perfetta si è rivisto l’atleta di cinque anni fa, forse un po’ meno forte di allora ma estremamente più determinato. Pochi minuti dopo è stato il turno di Marcell Jacobs, che ha sfruttato il suo periodo di grazia dominando la finale degli uomini-jet. «Tamberi mi ha dato la carica», avrebbe spiegato poi. Da lì è partita la valanga. Il terzo oro l’ha conquistato il 5 agosto nella 20 km di marcia Massimo Stano da Grumo Appula, 29 anni, che non era nemmeno quotato dai bookmaker. Fino a quel momento i migliori risultati di Stano in carriera erano stati un terzo posto ai Mondiali di marcia a squadre e la quarta piazza agli Europei di Berlino, entrambi nel 2018. Sul fatto che Stano fosse il miglior marciatore azzurro (è anche primatista italiano sulla distanza) non c’erano molti dubbi, così come sul fatto che in giornata di grazia potesse arrivare tra i primi dieci. La vittoria invece era fuori discussione. L’ha guadagnata con una prestazione imperiale. Non ha abboccato alla fuga del cinese Kaihua Wang, poi scoppiato e finito fuori dal podio. Al diciottesimo chilometro ha sbriciolato il gruppo, portandosi appresso i giapponesi Koki Ikeda e Toshikazu Yamanishi. Yamanishi è stato il primo a staccarsi, quando mancavano ancora quasi due chilometri. Ikeda ha ceduto quando mancavano circa 800 metri. In una progressione irresistibile Stano ha coperto gli ultimi 4 chilometri in 15’27’’ e gli ultimi 2 chilometri in 7’35’’, per concludere a braccia alzate. «Le medaglie di Jacobs e Tamberi mi hanno dato una spinta in più, quindi li ringrazio – avrebbe detto poi -. Oggi, al team manager della nostra squadra, ho detto ‘non c’è due senza tre’».

Il giorno dopo è scesa in strada la compagna di allenamenti di Stano, quella Antonella Palmisano (anche lei pugliese di Mottola) che lui stesso definisce «il mio capitano». E Palmisano, che negli anni bui dell’atletica italiana aveva reso meno amara la pillola a suon di grandi piazzamenti culminati in un bronzo iridato a Londra 2017 (l’edizione più nera dell’atletica azzurra), ha stravinto una gara condotta dall’inizio alla fine. Dopo aver tirato il collo al gruppo per un terzo di gara, ha staccato tutte a poco più di tre chilometri dalla fine e non l’hanno più ripresa. «La notte l’ho anche sognato – ha raccontato poi, riferendosi a Stano – e la mattina dopo ho detto: "è arrivato il mio momento"». Per l’allenatore di entrambi, Patrick Parcesepe, è stato il trionfo. A quel punto, l’oro della staffetta 4x100 uomini arrivato in serata è stato il pokerissimo di una nazionale che per una settimana è scesa in pista quasi incapace di perdere.

Qualche psicologo dello sport, in futuro, dirà se la vittoria di Tamberi possa essere stata la prima tessera di un domino che, poi, ha portato a una catena interminabile di vittorie. Di sicuro c’è solo che non si è mai vista, nella storia recente dell’atletica leggera italiana, una nazionale così combattiva al di là del medagliere. A rappresentare in pieno questo spirito c’è la gara dell’altra grande marciatrice azzurra, Eleonora Giorgi: era l’unica medagliata (50 km) dei Mondiali di Doha 2019, ma a Tokyo è andata in crisi e si è fermata dopo cinque chilometri, praticamente all’inizio. Di solito a questo punto ci si ritira. Lei è ripartita ed è arrivata al traguardo 52esima. Non lascerà traccia nel medagliere, ma nel cuore di chi l’ha vista sì.

La spedizione azzurra era di buon livello, migliore di tutte le squadre dal 2009 a oggi. Era anche la più numerosa di sempre, con 76 convocati. C’era un gruppetto di atleti che in giornata di grazia poteva sperare in una medaglia. Non era pensabile, ma non lo sarebbe stato nemmeno con una squadra molto più forte di questa, che si potesse arrivare a cinque ori. Basta guardare le liste compilate da Track & Field News nei suoi pronostici sulle top ten nelle gare maschili e femminili. Secondo la bibbia dell’atletica leggera, l’Italia avrebbe potuto arrivare sei volte nelle prime dieci posizioni in tutta la rassegna olimpica, con Marcell Jacobs (atteso quinto), Gianmarco Tamberi (ottavo, visione oggettivamente pessimistica), Ahmed Abdelwahed nei 3.000 siepi (nono), la 4x400 maschile (settima) e Antonella Palmisano ed Eleonora Giorgi nella 20 km di marcia (quarta e quinta). Non solo un oro nella 4x100 non era preventivato, ma non era nemmeno previsto che la staffetta maschile potesse arrivare a ridosso della qualificazione alla finale. Allo stesso modo, Stano non compariva nella top ten della 20 km di marcia. Nielsen Gracenote, che aveva effettuato la proiezione più favorevole ai colori azzurri, accreditava l’Italia di un possibile bronzo: nella 4x400 mista. Qui l’Italia non è nemmeno arrivata in finale, "limitandosi" a migliorare il record italiano. Su 47 pronostici effettuati, Track & Field News ne ha azzeccati 21, il 44,7%. Ne ha quasi azzeccati 15, posizionando sul podio quello che poi sarebbe risultato il vincitore: il 31,9%. In undici casi, meno di uno su quattro, la previsione si è rivelata sbagliata: il vincitore era atteso fuori dal podio o addirittura non era stato contemplato in top ten. I cinque ori azzurri sono responsabili di quasi metà degli errori fatti da Track & Field News.

I dieci giorni tra il 30 luglio e l’8 agosto hanno raccontato un miracolo sportivo che lo sceneggiatore di un qualunque dozzinale film di epopea sportiva all’americana, per quanto disposto a sbragare, non avrebbe mai scritto. A raccoglierne i frutti è stata la spedizione olimpica italiana nel suo complesso. L’atletica ha portato "solo" cinque delle 40 medaglie azzurre complessive, ma è responsabile della differenza tra un ottimo medagliere, che vede gli azzurri in top ten, e una spedizione mediocre. Senza Tamberi, Jacobs, Stano, Palmisano e 4x100 l’Italia sarebbe tornata da Tokyo con il minor numero di vittorie dai tempi di Montreal 1976. Sarebbe finita dietro a Cuba, che ha una grandissima scuola sportiva ma un quinto degli abitanti (e risorse vagamente inferiori). In definitiva la differenza tra un’Olimpiade indimenticabile e una rassegna amara l’hanno fatta cinque vittorie inattese, che hanno coperto i problemi di scherma (zero ori), tiro (zero ori) e sport di squadra (zero accessi alla semifinale). Senza contare il valore simbolico di queste medaglie, che per la spettacolarità delle gare e il senso di sorpresa arrivano a "pesare" forse un tantino più delle altre, almeno nell'immaginario.

L’imponderabile è successo perché quasi tutti gli azzurri impegnati a Tokyo hanno fatto la migliore delle gare possibili. E, dove l’Italia schierava i suoi assi da medaglia, gli unici avversari che potevano batterli hanno concesso qualcosa, o comunque non si sono espressi alla perfezione, complici – nel caso della marcia – anche le condizioni climatiche. Non è un modo per sminuire la grandezza delle imprese, ma una constatazione: la differenza tra un campione e un talento è data dalla capacità di farsi trovare presente all’appello. E chi ha vinto lo ha fatto da campione. Le cinque vittorie, però, non devono far perdere la visione d’insieme, a sua volta ottima.

In poco meno di dieci giorni l’Italia ha schierato atleti in 18 finali diverse: dodici di queste prevedevano almeno un turno di qualificazione. Dieci finalisti, tra atleti e staffette, sono stati capaci di chiudere nelle prime otto posizioni, quelle utili per portare punti al Placing table: si tratta di una classifica per punteggi che per ogni gara attribuisce otto punti all’atleta che vince e poi a scendere. In questa graduatoria l’Italia ha chiuso al dodicesimo posto con 50 punti. Una posizione meno lusinghiera di un medagliere da stamparsi in camera, con gli azzurri secondi dietro agli Usa e davanti al Kenya. Ma questo sistema è maggiormente in grado di dare un’idea della qualità della squadra, soprattutto in prospettiva futura. In particolare, il conteggio registra un nettissimo miglioramento rispetto al ventiseiesimo posto di Rio 2016 (16 punti). E in generale, in anni recenti, surclassa anche annate buone come Sydney 2000 e Atene 2004. In otto giorni è stato eguagliato un record italiano e ne sono stati abbattuti, in qualche caso a più riprese, sei. Uno di questi primati, quello dei 100, è diventato anche record europeo. Sono stati migliorati ulteriori cinque record personali.

L’eredità di Tokyo è pesantissima, ma se sarà sfruttata lo si vedrà sul lungo periodo. La staffetta 4x100 ha raccolto uno share del 40,7% in tv e la speranza di tutti gli addetti ai lavori è che l’onda mediatica delle vittorie azzurre porti decine di migliaia di ragazzini a iscriversi ai corsi di atletica, da settembre. Magari incentivando le amministrazioni comunali a investire sulla ristrutturazione dei campi, che sono mediamente in uno stato pietoso. L’Italia ha un numero infimo di piste indoor, ma il vero dramma sono le piste all’aperto, non di rado crepate e non omologate. Per un restyling sistemico però, i Comuni, alla canna del gas da anni, avranno bisogno di soldi. Nemmeno pochi. Poi c’è anche il tema scuole. Secondo gli Open Data del Miur, il 55% degli edifici scolastici non ha una palestra (anche se ovviamente molte che ne sono prive si appoggiano a qualche struttura sportiva). Dati in linea con un lavoro di Openpolis di qualche anno fa. Il Pnrr del governo censisce in un 17,1% le scuole del primo ciclo prive di palestre o strutture sportive e in un 11% quelle del secondo ciclo nella stessa situazione (ma il paragrafo di riferimento, alle pagine 177 e 178, va preso con le molle perché o nella tabella o nel commento sembra esserci qualcosa che non quadra nei calcoli). In ogni caso, la promessa è quella di costruire coi soldi del Recovery 400 palestre e strutture sportive, con 300 milioni di euro e un orizzonte di cinque anni.

A prescindere da tutto, nella migliore delle ipotesi la nuova – auspicata – generazione di praticanti darà i suoi eventuali frutti in occasione dei Giochi del 2032. Ne è convinto il presidente della Fidal, Stefano Mei: «C’è da pensare soprattutto a una nuova epoca di reclutamento, ragionando non sull’immediato bensì, direi, su Brisbane 2032 – ha detto -. Sfruttare il circolo virtuoso che si è innescato a Tokyo e dipanarlo nei prossimi dieci anni. In questo momento siamo sulla cresta dell’onda e in tema di impiantistica credo che le amministrazioni comunali, dopo questi risultati, abbiano ancora più piacere ad offrire ai propri cittadini la possibilità di fare atletica. Tokyo è qualcosa di epocale, potrebbe veramente darci un abbrivio positivo. Abbiamo tanti progetti e ci aspetta un lavorone, soprattutto sull’atletica a scuola. Dobbiamo tornare a essere la federazione che recluta di più dopo il calcio».

Quale futuro

A Parigi 2024 e a Los Angeles 2028 i protagonisti saranno in buona parte gli atleti visti a Tokyo e in parte le nuove leve. La buona notizia, in questo senso, è che l’età media delle punte azzurre – e non solo di chi è andato a podio – è molto più bassa che in passato. La spedizione azzurra era infarcita di atleti che poche settimane fa hanno dominato gli Europei under 23. Per capire meglio le prospettive a breve (Parigi 2024) e medio termine (Los Angeles 2028) può essere utile ripercorrere le migliori prestazioni viste a Tokyo.

Con una premessa: tracciare un bilancio di questi Giochi, per chi è abituato da anni a raschiare il fondo del barile per trovare un segno di incoraggiamento in mezzo a spedizioni fallimentari, è impresa ardua perché è impossibile non dimenticare qualcuno. Buoni risultati sono arrivati pure dai settori più in difficoltà: per esempio la 4x100 donne, pur rimanendo esclusa dalla finale, ha migliorato il record italiano. L’unico vero risultato sotto le attese è stato quello di Yeman Crippa, il miglior mezzofondista italiano negli ultimi vent’anni, undicesimo nei 10.000 e uscito in batteria nei 5.000. Ma qualche anno fa mai si sarebbe pensato di considerare deludente un undicesimo posto nei 10.000. Crippa ha 25 anni e – se saprà gestirsi – altre due Olimpiadi davanti a sé. Il lanciatore del peso Leonardo Fabbri è stato il primo escluso dalla finale della disciplina: è arrivato tredicesimo in qualificazione, passavano in 12. Ha 24 anni, almeno altre due possibili Olimpiadi nel mirino e il carattere per affrontarle al meglio: «Dopo il terzo lancio a Parigi non voglio avere nessuno davanti a me». Con lui si allena Zane Weir, che sta imparando l’italiano (fino a poco tempo fa era sudafricano) e a suon di primati personali a Tokyo ha raggiunto una sontuosa quinta piazza. La discobola Daisy Osakue e la martellista Sara Fantini non hanno brillato in finale, ma entrambe hanno fatto l’impresa arrivandoci: per Osakue c’è addirittura il primato italiano eguagliato. Osakue ha 25 anni, Fantini 23. Venticinque sono gli anni anche di Filippo Randazzo, che si è concesso il lusso di essere scontento per l’ottavo posto nella finale olimpica del salto in lungo, miglior risultato dalla quarta piazza di Giovanni Evangelisti a Seul 1988. Ha tutto per essere in pedana anche nel 2024 e nel 2028, dove dovrebbe affiancarlo Larissa Iapichino: una che, se manterrà quanto promesso, potremmo vedere al vertice anche negli anni ’30 perché ha 19 anni. A Parigi avrà tempo di esserci anche la 26enne Luminosa Bogliolo, autrice in semifinale del record italiano dei 100 ostacoli (12’’75).

A Tokyo è scesa in pista una generazione che non ha ancora detto tutto delle sue potenzialità. Di fatto tutti gli italiani vincitori di un oro olimpico a Tokyo possono puntare a difendere il loro titolo fra tre anni. Palmisano è la medagliata italiana più anziana: ha trent’anni, non tanti per una marciatrice che voglia mettere nel mirino Parigi. Lo stesso vale per Stano e Tamberi, un anno più giovani. Jacobs, classe 1994, a Parigi avrà trent’anni e insieme a Eseosa Desalu è lo staffettista più anziano: nel 2024 Filippo Tortu avrà 26 anni e Lorenzo Patta 24. Entrambi hanno grandi potenzialità e possono affrontare questo triennio senza eccessive pressioni.

Vale soprattutto per Tortu, che con quella volata sul traguardo della 4x100 si è tolto il peso di due anni molto difficili. Questo potrebbe sbloccarlo, anche in ottica 200 dove fin da giovanissimo è sembrato capace di cose grandiose. Ma pure Patta ha grossi margini di miglioramento. I tecnici azzurri potranno lavorare per un intero ciclo su un quartetto pressoché inamovibile che riparte da un oro olimpico e da un 37’’50, con almeno due frazionisti che possono ancora crescere.

In alcune discipline, poi, la storia è ancora tutta da scrivere. Tolti i cinque ori e mettendo una parentesi su siepisti e triplisti – bravi tutti e sei, quattro capaci di arrivare in finale e difendersi bene, tutti con la possibilità di migliorarsi nei prossimi tre anni in particolare per quanto riguarda i saltatori – forse le prestazioni più incoraggianti per il futuro sono arrivate dai 5.000 donne, dai 400 ostacoli maschili, dalla staffetta 4x400 uomini e dai 1.500 donne.

Nei 5.000 donne Nadia Battocletti, 21 anni, è stata autrice di una prestazione clamorosa. Dopo aver stracciato fior di record giovanili nelle stagioni passate, quest’anno è arrivata a Tokyo strappando il minimo di qualificazione poche settimane prima dell’inizio dei Giochi. Aveva il sedicesimo tempo di iscrizione, il settimo nella sua batteria. Ha corso tutta la qualificazione fra le prime, con passaggi di poco superiori ai 3 minuti al chilometro – il suo personale era di 14’58’’73, quindi di poco migliore di quel ritmo – e quando le altre hanno dato lo strappo finale non si è staccata. Ha chiuso l’ultimo "mille" in circa 2’44”, con una volata imperiosa (gli ultimi 400 metri li ha coperti in circa 61 secondi) che le ha permesso di finire terza la sua serie con il primato personale di 14’55’’83. Bastava già questo. Ma in finale ha fatto meglio. Davanti al gotha del mezzofondo, ha tenuto finché poteva le prime posizioni. Il gruppo è passato ai 4.000 metri a un ritmo di poco inferiore ai 3 minuti al chilometro, poi è partita l’accelerazione. Lei ha pagato qualche metro e si è staccata, ma non è crollata. In una situazione molto difficile, costretta a tirare il gruppetto delle inseguitrici, è partita in progressione e ha staccato le compagne di viaggio. Ha coperto l’ultimo chilometro in 2’48’’ e l’ultimo 400 in 63 secondi. Sull’arrivo ha conquistato la settima posizione. È stata la seconda miglior europea al traguardo, dietro all’olandese Sifan Hassan campionessa olimpica (e vincitrice anche dei 10.000, oltre che bronzo sui 1.500). Ha fermato il cronometro sul 14’46’’29, miglior prestazione italiana under 23, un miglioramento di un minuto esatto rispetto alla sua miglior prestazione 2020. L’impressione è che il record italiano, il 14’44’’50 di Roberta Brunet, sia destinato a cadere la prima volta che Battocletti scenderà in pista con l’obiettivo di batterlo. Non è ben chiaro quali siano i suoi limiti, ma per quanto fatto vedere i margini di miglioramento sono enormi. E soprattutto, con quella capacità di cambiare ritmo, nelle gare tattiche può diventare un’atleta insidiosa per chiunque.

Nei 400 ostacoli il napoletano Alessandro Sibilio, 22 anni, ha conquistato un posto nella finale dal tasso tecnico più elevato di sempre. Qualcuno dirà che lì non ha brillato, chiudendo ottavo in 48’’77 a chilometri di distanza da Karsten Warholm e Rai Benjamin. Ma Sibilio prima di quest’anno aveva un personale di 50’’34. Nel 2021 ha fatto due salti di categoria. Si è laureato campione europeo under 23 poche settimane fa facendo un personale di 48’’42 e poi, in semifinale a Tokyo, è sceso per la prima volta sotto i 48 secondi: 47’’93, solo Fabrizio Mori in Italia ha fatto meglio. In questo senso confermarsi sotto i 49 secondi dopo aver scalato l’Everest è segno di una solidità anche mentale che lascia sperare nella sua crescita futura, quando non sarà più chiamato a fare l’impresa sorprendente ma a confermarsi ai vertici mondiali dei quali ormai fa parte.

Sibilio è stato anche una pedina fondamentale della 4x400 maschile, che a sua volta è stata la ciliegina sulla torta e una fonte di rimpianti per la spedizione azzurra. La 4x400 per molti versi è l’università dell’atletica, perché per correrla bene serve avere quattro quattrocentisti di buon livello e quindi una squadra ‘profonda’: le punte insomma non bastano. Non è un caso che prima di Tokyo 2021 i tre migliori riscontri cronometrici nazionali risalissero tutti agli anni Ottanta, quelli più vincenti dell’atletica italiana. Di uno di questi tre quartetti aveva fatto parte anche Pietro Mennea, quarto frazionista a Los Angeles 1984 quando la staffetta azzurra concluse al quinto posto. Il record italiano risaliva al 1986, Europei di Stoccarda, con Giovanni Bongiorni, Andrea Zuliani, Vito Petrella e Roberto Ribaud quarti all’arrivo. Gli azzurri di Tokyo non erano neanche nati. Con Sibilio, nelle eliminatorie posizionato come primo frazionista, fanno parte della staffetta Vladimir Aceti (23 anni), Edoardo Scotti (21) e Davide Re (28). Detto di Sibilio, gli altri tre sono tutti quattrocentisti di livello medio-alto. Aceti ha un personale di 45’’65 e nel 2017 ha vinto il titolo europeo under 20. Scotti quest’anno è stato bronzo continentale under 23 e a Tokyo ha partecipato anche alla gara individuale. Ha un personale di 45’’21 siglato l’anno scorso, record italiano under 23. Re è il primatista italiano (44’’77 nel 2019): quest’anno è sempre stato in ombra fino a quando non è arrivato in Giappone, dove in semifinale ha sfiorato con 44’’94 una storica qualificazione alla finale, mancata per due centesimi di secondo. In qualificazione l’Italia è arrivata quarta e si è qualificata per ripescaggio alla finale grazie a un crono da fantascienza: 2’58’’91, prima volta sotto i tre minuti e 2’’46 meglio di un record italiano che reggeva da oltre tre decenni. È stato il frutto di una prestazione senza punti deboli Tolto Sibilio, 45’’3 nella prima frazione (che è sempre la più lenta perché si parte da fermi), gli altri hanno chiuso tutti intorno a 44’’5.

A quel punto tecnici e staffettisti hanno deciso di giocarsi l’osso del collo e puntare a una medaglia. Re è stato spostato dall’ultima alla prima frazione, Sibilio dalla prima all’ultima. Quella di partire con il frazionista più forte è una scelta che si fa con l’obiettivo di rimanere attaccati al gruppo in avvio, in modo che il secondo frazionista rientri poi in prima corsia in mezzo alla bagarre. Da lì infatti la 4x400 segue solo in parte i canoni di un 400 normale: si corre alla corda come nel mezzofondo, bisogna allargarsi e sgomitare per superare, entrano in gioco anche questioni tattiche. Rimanendo in gruppo può succedere di tutto, mentre giocarsi il frazionista più forte all’ultimo 400 può significare consegnargli il testimone con gli avversari più avanti di venti metri e, quindi, la staffetta ormai fuori dai giochi.

Il piano ha funzionato a metà. Re ha fatto una buona frazione (45’’2), ma non eccezionale. Aceti si è messo alla corda all’ultimo posto, ma attaccato al gruppo. Ha chiuso in 44’’2, allargandosi poi per cambiare con Scotti e da lì è successo di tutto. Scotti ha approfittato di un problema fisico del frazionista trinidegno, l’ha superato e poi nella curva dai 200 ai 300 metri ha ripreso il terzetto composto da Belgio, Polonia e Giamaica. Quindi ha attaccato l’ultimo rettilineo e ha fatto un errore atroce: invece che allargarsi per raggiungere Sibilio, si è buttato all’interno per superare tre concorrenti in un colpo solo. Peccato che Sibilio non potesse muoversi (per regolamento) per ricevere il testimone. Scotti ha dovuto inchiodare, lasciar passare tre avversari e servire il testimone a Sibilio, che è ripartito da fermo. Squalifica sfiorata e rincorsa alle medaglie (molto teorica, va detto: probabilmente l’Italia sarebbe arrivata quinta) finita. Quello di Scotti può sembrare un errore sciocco, ma c’è un motivo per cui i 400 metri sono il giro della morte: sull’ultimo rettilineo la lucidità spesso viene a mancare e le conseguenze si vedono anche con questi errori. La cosa incredibile è che Scotti, nonostante il pasticcio che gli è costato quasi un secondo, abbia messo insieme una frazione da 45 secondi netti. Sibilio, preso il testimone, si è messo alla caccia del gruppo. Ha corso a un ritmo folle e ha quasi ripreso il frazionista giamaicano, ma a dieci metri dal traguardo si è lasciato andare vista l’impossibilità di superarlo. Ha superato il traguardo per inerzia, forse pensando che, visto l’errore al cambio, qualunque soddisfazione cronometrica fosse impossibile. Invece la 4x400 ha migliorato per la seconda volta il record italiano: 2’58’’81.

Certo, Re e compagni tornano da Tokyo con qualche rimpianto. Ma soprattutto da Tokyo torna una staffetta giovane e con grossi margini di miglioramento. Tolto il ventottenne Re, gli altri hanno tra 21 e 23 anni. Tutti, Re compreso, hanno dimostrato di essere più forti come staffettisti che come quattrocentisti individuali, il che è un requisito fondamentale per una 4x400 di alto livello. Le prospettive sono buone anche guardando in prospettiva: Re, si diceva, ha 28 anni e, tolte poche eccezioni, la carriera del quattrocentista non è lunghissima. Può arrivare bene a Parigi, poi si vedrà. In ‘panchina’, però, c’è già Lorenzo Benati: diciannove anni, primatista italiano under 18, argento europeo juniores quest’anno e già forte di un personale all’aperto di 46’’27. Insomma, la staffetta italiana ha tutto per togliersi grandi soddisfazioni nei prossimi anni.

Nei 1.500 donne, Gaia Sabbatini da Teramo non è riuscita a entrare in finale ma, a 22 anni, può essere fiera di quanto fatto. Dopo una batteria corsa con autorevolezza, guadagnando la qualificazione alle semifinali senza passare dal ripescaggio per tempi, al secondo turno affrontava condizioni proibitive: il suo era il quarto peggior tempo di accredito su tredici semifinaliste. Forte di un’incrollabile fiducia nei propri mezzi, la sua arma migliore insieme alla volata, si è piazzata nelle posizioni di testa e ci è rimasta finché ha potuto, nonostante davanti i ritmi fossero più elevati di quelli del suo personale. A metà gara si è trovata a districarsi in mezzo alla caduta di due avversarie e ha perso qualche metro rispetto alle atlete di testa. Le ha riprese e ha anche tentato di scalare un paio di posizioni. Ma a quel punto le migliori hanno cambiato ritmo. Ha provato a tenerle fino a 250 metri dalla fine, quando non è riuscita a rispondere all’ultimo strappo. Ha chiuso all’ottavo posto, fuori dalle ipotesi di ripescaggio ma con un nuovo personale di 4'02’’25, due secondi limati al precedente primato (che già migliorava di sette secondi il suo miglior tempo dell’anno scorso). La Fidal ha presentato ricorso, ritenendo che fosse stata danneggiata dalla caduta delle concorrenti. Probabilmente è vero, ma è da dimostrare che poi sarebbe riuscita a piazzare una volata in grado di qualificarla alla finale. Lei ne è convinta, l’auspicio è che possa confermarlo a partire dai Mondiali dell’anno prossimo: il suo ricorso non è stato accettato. Dietro Sabbatini e Battocletti la speranza è che possano aggiungersi Federica Del Buono e Marta Zenoni. La prima, reduce da mille infortuni, ha 27 anni e a Tokyo si è ben comportata in batteria. La seconda ha 22 anni: cinque anni fa era la miglior ottocentista under 18 al mondo, poi una miriade da infortuni l’ha quasi fatta sparire dalle scene. Ma ora sta tornando. Tornando a Sabbatini, in Europa è attualmente chiusa da Hassan (terza nei 1.500) e dalla britannica Laura Muir (argento). Una brutta notizia se il suo obiettivo a breve fosse vincere gli Europei, ma un’ottima opportunità di imparare da avversarie formidabili distanti pochi chilometri e quindi con maggior possibilità di scontri diretti.

Non gridiamo alle delusione

Di questi atleti, alcuni manterranno le promesse e altri non ci riusciranno. E lo stesso vale per le altre decine capaci di fare un’ottima prova a Tokyo e di far ben sperare in futuro. L’importante, sia per la Fidal sia per gli appassionati, sarà non montarsi la testa per i prossimi appuntamenti, a partire dai Mondiali di Eugene l’anno prossimo. Se in quell’occasione invece che cinque ori arrivassero tre argenti, sarebbe meglio evitare di gridare alla delusione. Cinque medaglie d’oro sono un bottino talmente incredibile che non ha senso mettersi a ragionare su quante siano le possibilità di difenderlo o replicarlo. Serve l’umiltà di ricordare che la 4x100 azzurra, migliorando il record italiano di sei decimi, ha vinto la finale più lenta in una grande competizione dal 2008 a oggi. I margini di miglioramento ci sono e bisogna lavorarci. Il punto dev’essere dare una continuità al movimento, al di là degli exploit. La Fidal di Mei si trova nell’invidiabile situazione di poter contare sulla squadra più vincente della storia e di avere già a disposizione buona parte dell’ossatura delle prossime due spedizioni olimpiche. Un’occasione così non capiterà mai più e andrebbe sfruttata.

Poi c’è un ultimo aspetto che non bisogna dimenticare: dei 76 azzurri di Tokyo, 65 (l’85%) appartengono a un gruppo militare. Tra loro Tamberi, il volto più noto e il capitano della Nazionale: l’anno scorso aveva lasciato le Fiamme Gialle per l’Atl-Etica San Vendemiano, ma quest’estate è stato annunciato l’ingresso nelle Fiamme Oro. Senza girarci molto attorno: in Italia il professionismo nell’atletica (e in molti altri sport) sarebbe impossibile senza i gruppi sportivi militari. Questo modello ha creato non poche polemiche negli anni passati, soprattutto per l’alta percentuale di atleti che, una volta guadagnato il posto a tempo indeterminato, smetteva di crescere e per il depauperamento delle società sportive del territorio, che si vedevano sfilare per un piatto di lenticchie i talenti scoperti e su cui avevano investito fior di quattrini per anni. Ovviamente non è colpa dei gruppi militari, che costituiscono la base dei medaglieri azzurri alle Olimpiadi estive e invernali. Una marea di sport non riesce ad avere introiti privati sufficienti a sostentare un circuito di professionisti e senza i gruppi sportivi militari ci si sognerebbe di avere fior di medaglie al collo. Il punto è che un sistema del genere non può bastare sempre e aveva già mostrato la corda nelle passate grandi rassegne. Come adeguarlo al presente non è un problema di facile soluzione, ma il momento migliore per ragionarci è questo, con cinque medaglie d’oro alle spalle e il sentiero già segnato almeno per le prossime due edizioni dei Giochi.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura